Prologo
Se c'era una cosa che Ade aveva appreso nel corso dei millenni che si erano susseguiti era non far mai attendere le Moire. Potevano risentirsene e quella era l'ultima cosa che lui desiderava, ma non poteva negare di odiare terribilmente il tempismo con cui queste lo convocavano, così come detestava esser disturbato nel momento in cui era alle prese con le delle decisioni importanti che riguardavano le anime giunte agli Inferi.
Per questo, camminando per il suo palazzo di tenebre e morte, diretto alla torre più alta di quest'ultimo, si augurò che la ragione della sua convocazione non fosse una sciocchezza, ma qualcosa di ben più serio ed importante.
Non credeva di riuscire ancora a mantenere la sua calma e la sua neutralità se la piccola Cloto gli volesse solo domandare quanti soldati siriani uccidere. Del resto, Ade era colui che decideva le sorti delle anime una volta superata la Terra dei non-sepolti. Non aveva alcuna voce in capitolo su quanto lunga o meno dovesse essere la vita di ogni singolo mortale. Quel compito spettava a loro, alle Moire.
Varcando le colonne spettrali che delimitavano l'ingresso nella sala che le tre Dee della sorte umana amavano occupare – forse per il semplice motivo che lì si poteva vedere quasi tutto l'Erebo – sperò che non fosse una perdita di tempo quella visita.
«Di cosa volevate parlarmi?» esordì, con un tono di voce pacato che però tradì un po' del fastidio che provava nei loro riguardi.
Rimase fermo al centro della grande sala. Al suo interno non vi era granché se non una fontanella nel quale le Moire amavano guardarvi all'interno. L'acqua magica del Lete che scorreva permetteva loro di poter dare uno sguardo sia nel mondo dei mortali, sia in quello divino, sull'Olimpo ed era proprio lì che le tre Divinità erano.
La prima a sollevare lo sguardo fu Cloto, piccola ed esile. Agli occhi di tutti sarebbe sembrata una semplice bambina di sei anni, ma la realtà era che aveva alle sue spalle tanti millenni quanti ne aveva il Re degli Inferi. Rappresentando il Futuro, la speranza degli anni che verranno per gli umani, la Dea aveva mantenuto quell'aspetto, a differenza delle altre sue sorelle, tutte così simili tra loro e al col tempo diverse. Alcune volte, ad Ade sembrava come se le tre avessero assunto sembianze diverse per indicare i tre momenti fondamentali della vita umana. Cloto, infatti, sembrava una bambina; Lachesi, al contrario, una splendida fanciulla sui trent'anni ed infine Antropo, che rappresentava la ricchezza del passato, aveva scelto un'aspetto più maturo rispetto alle altre sorelle. I suoi capelli bianchi e gli occhi saggi e vitrei la facevano sembrare più vecchia persino di Urano e Gea, coloro che avevano generato il Creato e i loro figli più temuti da tutti gli Olimpi: i Titani.
La piccola Dea gli sorrise gioiosa. I suoi occhi azzurri luminosi come i diamanti che brillavano nel cielo dell'Erebo. «Di quello che sta accadendo nel Regno di tuo fratello minore, Zeus» affermò, la voce infantile.
Ade si ritrovò a sospirare, rassegnato e un po' seccato. Non odiava suo fratello, tuttavia odiava esser stato rinnegato da lui stesso in quel regno lugubre, costretto a farvi da Re e a vivere all'ombra di tutti gli latri suoi fratelli, in solitudine.
Era per tal ragione che, quasi come se si sentisse esiliato, colui che regnava suoi morti frequentava poco l'Olimpo e aveva deciso di prendere le dovute distanze da Zeus, Poseidone, Demetra ed Hera. Inoltre, le tre Dee del destino umano dovevano aver ben compreso che non era amante dei pettegolezzi, men che meno se riguardanti i suoi famigliari.
Era risaputo, del resto.
«Sapete che non sono propenso ed interessato a sapere cosa avviene sull'Olimpo, quindi siete pregate di non disturbarmi se è solo di questo che volete parlarmi» tenne loro a mente.
Stava per voltarsi e dar loro le spalle quando la piccola Dea in grado di predire il futuro lo fermò. «Ma questo ti riguarda molto da vicino» insistette.
Bastarono quelle sette semplicissime parole a suscitare nel tenebroso Dio degli Inferi un barlume di curiosità e perplessità. Cosa stava accadendo che, secondo loro, coinvolgeva anche Ade?
Voltò il capo nella loro direzione, guardandole con la coda dell'occhio.
«Ah sì?»
Cloto annuì ma, quella volta, fu la bella Lachesi a parlare.
Si sistemò i lunghi capelli neri come l'oscurità degli Inferi dietro le spalle, puntando i suoi grandi occhioni da cerbiatta nei suoi. Le labbra, rosse e lucide a causa di un rossetto dalla tonalità accesa, si distesero in un ampio sorriso, quasi malizioso. «Mia sorella ha predetto il futuro, mio giovane Re» iniziò col dirgli, la voce un canto spettrale. «Ed io posso affermare con assoluta certezza che ciò che sta accadendo nel presente è strettamente collegato a ciò che avverrà tra diciassette anni.»
Arrivato a quel punto, Ade non poteva più negare a sé stesso di esser notevolmente incuriosito dinanzi alle parole dette da Lachesi.
Facendo un passo indietro, tornò a prestare loro maggiore attenzione, voltandosi.
Incrociò le braccia al petto e inclinò il capo di lato. Aveva un'espressione impassibile in volto, quasi apatica, ed il suo sguardo era inespressivo come la linea dura delle sue labbra. Era proprio per tali caratteriste che era in grado di provocare paura con una sola occhiata e che era adatto al ruolo che ricopriva da millenni, ma, a volte, il Dio dei morti sembrava talmente tanto esser entrato in simbiosi con il suo regno spettrale che sembrava non esser più in grado di provare emozioni.
Che l'oscurità del suo Regno avesse inghiottito anche i suoi sentimenti?
A tal riguardo, Cloto sapeva già la risposta e questo la divertiva, forse perché con il tempo avrebbe imparato a vedere il suo Re sotto una luce diversa grazie a ciò che stava accadendo nel presente, sull'Olimpo.
«Allora parlate» tuonò Ade.
Lachesi gli fece cenno di avvicinarsi. Alle sue spalle, Antropo guardava fuori dall'ampia finestra le anime a cui lei stessa aveva posto fine. Era irremovibile, impassibile e ben poco interessata a ciò che stava accadendo.
Da quella posizione, mentre si avvicinava alla fontana d'acqua che rifletteva ciò che accadeva nei regni dei suoi fratelli, Ade non poteva ben guardarla in volto. I suoi capelli lunghi e bianchi gli privavano della vista degli occhi della sorella più anziana tra le tre Moire.
Quando arrivò dinanzi alle due Dee e lanciò uno sguardo a ciò che vi era riflesso nello specchio d'acqua, quasi gli venne il voltastomaco ed increspò le labbra in segno di disgusto: Zeus, non essendo in grado di tenere a bada i suoi impulsi sessuali, torreggiava su Demetra, intenta ad urlare e a scalciare per potersi liberare della presa di loro fratello. Tuttavia, tutto ciò non bastò, non servì a nulla: con una presa più salda, il Re dell'Olimpo le bloccò i polsi sul terreno fertile e, dopo averle sollevato la candida veste, entrò in lei.
Ade distolse rapidamente lo sguardo. Per quanto impassibile e neutrale potesse sembrare agli occhi di chiunque, non poté far a meno di provare rabbia e disgusto per ciò che il minore dei figli di Crono stava facendo al sangue del suo sangue.
Si chiese come potesse privare della propria virtù loro sorella, ma non si soffermò molto a cercare di comprendere le ragioni. Zeus era così: ragionava solo con i suoi ormoni, anziché con il cervello.
Lo odiò.
Lo odiò per ciò che fece all'unica che, in qualche modo, aveva stretto un legame con lui.
Demetra, infatti, non si era mai fatta intimidire dal suo sguardo sempre cupo e glaciale, né dalla sua scarsa loquacità. Tutt'altro, aveva sempre apprezzato questi aspetti del suo carattere e, con il suo sorriso carico di gioia e felicità, era riuscita ad entrarli nel cuore. Alla fine, la vivacità di colei che splendeva più del grano sotto il sole era colei che più Ade aveva amato tra i suoi fratelli.
Sperò solo che con quell'atto brutale commesso da quel rivoltante Dio del tuono non avesse spento la luce nei suoi occhi e nel suo sorriso contagioso.
«Perché mi state facendo vedere tutto ciò?» chiese a Cloto e Lachesi, guardando ovunque pur di non dover assistere un secondo in più a quello spettacolo raccapricciante.
Cloto sorrise. «Stanno generando la vostra Regina, mio Re.»
Dinanzi a tale confessione, Ade voltò istantaneamente lo sguardo, puntandolo negli occhi di colei che vedeva il futuro e lì poté dare uno sguardo a ciò che sarebbe avvenuto tra un paio d'anni, trovando la conferma delle parole che gli avevano appena rivolto.
Impallidì.
Vide sé stesso, davanti ad una giovane fanciulla, bella come il sole, intenta a ridere tra i Campi Elisi mentre raccoglieva dei splendidi fiori, che aveva appena fatto sbocciare, e gli lanciava in cielo. Alcuni petali, cadendo, finirono per incastrarsi tra i suoi capelli color rame, rendendola quasi eterea.
Lei rideva e lui sentiva il suo cuore riempirsi di uno strano ed inquietante calore. Ad un tratto, la giovane Dea aprì gli occhi e li puntò sulla sua figura, troppo estasiata dalla sua bellezza e vivacità per poter fare o dire qualcosa. Il sé stesso del futuro preferiva guardarla, quasi come se temesse che, muovendo anche solo un muscolo o pronunciando una sola parola, quella creatura radiosa potesse scappar via. Nel momento in cui le iridi grigie entrarono in contatto con i suoi occhi, Ade si ridestò dalla visione mostratogli da Cloto.
Fu allora che sentì il suo cuore balzargli in petto, ma fu questione di pochi istanti che il Re degli Inferi quasi credette che non avesse davvero sentito il suo cuore battere così forte.
Sconvolto e confuso, si portò la mano sul petto, nel punto esatto in cui avvertiva le pulsazioni del suo organo vitale, e alzò nuovamente lo sguardo sulla piccola Dea. «Cos'era quello che ho appena visto?» chiese, tutto d'un fiato.
Notando l'improvviso turbamento del più tenebroso Dio mai stato creato, Cloto allargò il suo sorriso infantile. «Ciò che avverrà, Ade» disse. «Ti ho mostrato colei il cui cuore e corpo ti appartengono di diritto.»
«State scherzando, voglio sperare.»
Lachesi scosse il capo. «Nessuna presa in giro. Questo è ciò che accadrà. Non abbiamo alcun motivo per mentirti.»
Il Signore delle anime degli Inferi le guardò intensamente, faticando a credere davvero alle loro parole. Sapeva con assoluta certezza che loro non gli stavano mentendo e che ciò che aveva visto negli occhi di Cloto era la pura e semplice verità, ma non poteva accertarlo. Del resto, come avrebbe potuto farlo?
Da quel po' che aveva potuto vedere nel futuro che lo attendeva, la giovane fanciulla, che si trovava a giocare tra i campi del suo regno, era un puro e semplice uragano di allegria.
Lei era gioia; lui, al contrario, tormento.
Lei era felicità; lui infelicità.
Lei vita; lui morte.
Non era mai stato nient'altro che questo. Come avrebbe potuto lui, un essere così schivo e di poche parole, riuscire a conquistare e ad avere in moglie una Dea come quella ragazza? Erano completamente diversi, cresciuti in due mondi che non avevano assolutamente nulla in comune, eppure, le Moire affermavano che sarebbe stata lei la sua Regina.
Quasi si sentì in colpa per il Destino scelto per lei, ma sapeva di non poterci far nulla. Se loro lo avevano predetto, questo sarebbe senz'altro accaduto, ma non poteva fare a meno di chiedersi come avrebbe fatto ad imprigionare il sole nelle tenebre.
La cosa gli risultava difficile da credere e dubitava del fatto che sarebbe giunta in Erebo di sua spontanea volontà.
Chiuse gli occhi e sospirò sonoramente. Dopodiché, tornò a guardare il riflesso nello specchio d'acqua. Zeus continuava ad accarezzare il corpo formoso della sua sorellina mentre si muoveva su di lei, viscido. Solo quando ebbe concluso quell'atto rivoltante e di una violenza inaudita, se ne andò, lasciando Demetra sola tra i campi di grano che seccarono all'istante. La vide piangere, singhiozzare mentre si raggomitolava al suolo, sola con la sua sofferenza e disperazione, e lì, inconsciamente, allungò la mano per poter sfiorare il suo riflesso con le dita lunghe ed affusolate.
Avrebbe voluto esser lì per consolarla, ma non poteva lasciare il suo Regno.
Guardandola in quella posizione fetale, intenta a stringersi ciò che restava del suo peplo bianco strappato, Ade si ripromise una cosa: non avrebbe mai permesso che a sua figlia sarebbe accaduta la stessa disgrazia. Non avrebbe mai permesso che qualcuno violasse il suo corpo e la privasse della luce che aveva potuto scorgere, seppur per un momento, negli occhi grigi.
L'avrebbe protetta; l'avrebbe onorata.
Lui non avrebbe mai permesso che nessuno le facesse del male come suo fratello aveva fatto a sua sorella.
Ritrasse la mano dalla fontana e lasciò che entrambe le braccia gli si distendessero lungo i fianchi. Sollevò lo sguardo dall'immagine nell'acqua e tornò a guardare Lachesi e Cloto, impassibile.
«Va bene» disse, lasciando intendere alle due Moire che accettava il Destino che loro avevano predetto, ma, prima che potesse andarsene, Antropo, rimasta in silenzio fino ad allora, lo fermò.
«Non sei curioso di conoscere il nome di colei il cui destino ti appartiene?» domandò, la voce graffiante e carica di saggezza.
Ade si voltò nuovamente e vide che gli occhi freddi di colei che conservava le memorie del passato erano fissi sulla sua figura. In un solo istante, i loro sguardi si incrociarono.
«Dovrei?» chiese.
Antropo lo fissò senza batter ciglio. «Dovresti.»
In un certo senso, l'inflessibilità di cui la Dea che spezzava la vita umana era dotata, piaceva al Re degli Inferi. Le altre divinità non erano del suo stesso avviso e si terrorizzavano nell'averla nelle vicinanze, ma quel qualcosa di macabro in lei la rendeva molto più simile ad Ade di quanto lui potesse immaginare.
Strinse i pugni lungo i fianchi. Sapere il nome di quella ragazza avrebbe reso tutta quella storia molto più reale e spaventosa di quanto già non lo fosse, ma sapeva che non poteva farci assolutamente nulla.
Il Fato aveva già fatto la sua scelta e lui non aveva avuto voce in capitolo.
«Allora dimmelo, Antropo.»
La Dea non se lo fece ripetere due volte e, distendendo le labbra in un sorriso appena accennato, disse: «Lei è la portatrice di ombre e di luce, Signora della vita e della morte. Il suo nome è Persefone».
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