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1| Narciso Nero

C'era un ricordo legato alla mia infanzia che non ero mai riuscita a dimenticare e risaliva al primo giorno in cui avevo incrociato un paio d'occhi così azzurri da poter essere paragonati a dei diamanti e all'ultimo giorno in cui ero stata sull'Olimpo. Avevo poco più di cinque anni e un banchetto al Tempio di mio padre, Zeus, aveva riunito tutti gli Dei e le Dee che vivevano da millenni su quel Monte sacro all'intera Grecia. Mia madre, sempre occupata nel mondo dei mortali, per quell'occasione aveva deciso di partecipare al Simposio organizzato dall'odiato fratello e mi aveva portata con sé. Lo faceva almeno una volta all'anno e quella volta non fu da meno.

Giocavo con alcune Ninfe del cielo e correvo a perdifiato per non farmi afferrare da loro, ma la mia corsa si interruppe nel momento in cui andai a sbattere contro un paio di gambe lunghissime. Alzando il capo, quasi terrorizzata nel scoprire l'identità della persona che avevo colpito accidentalmente, scorsi uno sguardo che prima di allora non avevo mai incrociato, ma che mi fece provare un senso di appartenenza e terrore allo stesso tempo. Non perché si fosse arrabbiato con me o perché mi avesse rivolto un'occhiata fulminea, bensì perché quegli occhi così glaciali mi scrutarono con attenzione, in silenzio.

Non mi disse nulla, né lo feci io.

Del resto cosa avrei dovuto dirgli oltre a borbottare un silenzioso "scusatemi"?

Muovendomi con cautela, mi ero allontanata da lui, stringendomi le manine al petto e abbassando il capo da quegli occhi attenti, incorniciati da ciuffi ribelli ebano. La sensazione che provai in sua presenza fu alquanto singolare, soprattutto per la sottoscritta che amava parlare e si mostrava ben poco timida anche davanti a perfetti sconosciuti. Con lui, tuttavia, fu diverso e non ne compresi il motivo.

Così, per sciogliere il ghiaccio che si era venuto a creare tra noi, alzai gli occhietti vispi e vivaci e mi concessi il privilegio di guardare il Cronide dinanzi a me. Mi fissava ancora, quasi incuriosito, come se non riuscisse a darsi una risposta a chissà quale grande mistero della vita. Fu allora che, pensando che lui fosse timido, decisi di chiudere le mani e gli occhi, facendo germogliare il dono divino che il Fato mi aveva concesso alla nascita. In un solo istante, sentii la vita sbocciare nel palmo delle mie mani e i delicati petali accarezzarmi le dita.

Quando sollevai le palpebre e ammirai il fiore tra le mie mani, notai che avevo fatto nascere un meraviglioso Narciso, nero come i capelli di colui che torreggiava su di me. Sorrisi e alzai ancora una volta lo sguardo sul Dio, sollevando le manine che stringevano il delicato e profumato fiore. Glielo porsi, glielo donai e sperai che lui lo accettasse.

Dopo attimi di esitazione in cui la divinità mi guardò impassibile e perplessa, vidi un leggerissimo accenno di sorriso addolcirli i lineamenti spigolosi. Si inginocchiò per poter essere alla mia altezza e allungò la mano per accettare il modesto Narciso.

Sorrisi raggiante e credetti che persino i fiori – che nascevano spontaneamente tra i miei capelli color rame – rispecchiassero quel mio stato d'animo, colorando i petali bianchi di una vivace tonalità del giallo.

Ovviamente, non seppi mai quale fu il suo nome e, quando mia madre mi vide in sua compagnia, decise di portarmi via dall'Olimpo. Da allora, non ci misi più piede e per quanto avessi domandato alla mia genitrice il motivo per il quale mi tenesse lontana dagli altri Dei, lei non si azzardava a rispondermi e cambiava argomento con estrema facilità.

Ci stavo pensando anche in quel momento. Ormai, il suo volto e la nube di mistero, che sembrava avvolgere quegli occhi luminosi come diamanti, erano diventati un pensiero fisso che non sarei mai riuscita a scacciare nonostante i tanti tentativi.

Ne ero certa.

Per quanto cercassi di convincermi che non fosse a causa sua il motivo per il quale ero arrivata fin lì, sull’Olimpo, mi rendevo conto che era soltanto una menzogna. Il solo pensiero di rivederlo, dopo tutti quegli anni, mi faceva battere forte il cuore.

Sospirai, cercando di calmare i battiti, e riportai la mia attenzione a ciò che vi era intorno a me.

Il frinire delle cicale era dolce e melodioso alle mie orecchie, specialmente se accompagnato dal fruscio delle foglie dei grandi alberi, i cui rami venivano agitati dal leggero venticello di quel giorno. Il sole, ormai, era quasi completamente tramontato, ma potevo ancora ammirare gli ultimi e caldi raggi di fine Luglio illuminare tutto ciò che era intorno a me, donando al mondo un aspetto magico.

Il cielo sopra le nostre teste sembrava una tavolozza di colori magnifici, tonalità sia calde che fredde che accostate le une alle altre dovevo ammettere non stonavano affatto. Se da una parte si potevano ammirare i colori caldi del tramonto, un mix perfetto di rosso, arancio e giallo; dall'altra parte si poteva già iniziare a intravedere il blu scuro della notte e alcuni puntini luminosi.

Erano stelle.

Quanto amavo guardarle, forse perché mi ricordavano tanti piccoli diamanti lucenti e quando pensavo a queste rare e preziose pietre non potevo fare a meno di pensare a lui...

Arrossii nel ricordare il suo volto e mi lasciai sfuggire un rantolo gorgogliante che, fortunatamente, Euridice non sentì, troppo presa a guardarsi intorno.

Da quando avevamo messo piede sull’Olimpo, non faceva altro che scrutare con attenzione ogni Dio o semidio che affollava il Tempio di Zeus.

Non che non ne capissi la necessità: nel momento in cui avevo trovato l’invito a quel simposio, avevo deciso che avrei partecipato, con o senza l’approvazione di mia madre.

Piccolo spoiler, lei mi aveva proibito di andarci e io ero sgattaiolata via prima che rientrasse a casa, nel mondo dei mortali.

Euridice aveva tutto il diritto di temere mia madre, la meravigliosa Dea Demetra.

Abbassando lo sguardo dal cielo sulle nostre teste, puntai i miei occhi sulla figura della mia amica. I suoi grandi occhi verdi come smeraldi guardavano con stupore qualunque cosa intorno a noi. Le sue mani gentili giocherellavano con dei papaveri rossi, gli stessi fiori che le abbellivano i capelli castani lisci e setosi. Aveva preferito raccoglierli per l’occasione, ma alcune ciocche le incorniciavano il viso delicato, risaltandone i tratti armoniosi.

A differenza sua, io avevo deciso di lasciarli sciolti. Sarebbe stato difficile scegliere un'acconciatura che non sgualcisse i fiori bianchi che sbocciavano tra i miei capelli. Inoltre, amavo lasciarli liberi di ricadermi sulle spalle in una cascata color rame.

«Sento che ho commesso un errore ad assecondarti in questa follia» esordisce, guardandosi ancora intorno, questa volta un po' preoccupata. Il senso di meraviglia nel guardare lo splendore di quel viale fiorito e magico dell'Olimpo era passato completamente in secondo piano. «Perchè sappiamo bene entrambi che si tratta di follia.»

Feci spallucce, cercando di trattenere un sorriso. «Mia madre non saprà mai che siamo venute qui, a meno che non glielo diciamo...» Lasciai intendere il seguito, lanciandole una rapida occhiata complice. 

Euridice sembrò spaventata al solo pensiero. «Dalle mie labbra, non uscirà mai questa confessione. Sarebbe come decidere di condannarsi a morte.»

Non riuscii a evitare di ridere.

La bella ninfa, che mi stava seguendo in quella avventura, aveva talmente tanta paura di mia madre, la severa Dea Demetra, che non dubitavo della sua lealtà, soprattutto in quell'occasione.

«Non preoccuparti» tentai di rassicurarla, guardando i vari fiori e siepi che si trovavano ai lati del sentiero che stavamo percorrendo. Come qualunque cosa sull'Olimpo, anche questi erano contornati da un lieve alone dorato — magico — che rendeva la vegetazione immortale o più come gli dei.

«Pensi che possa prendere parte a quest'evento?»

Scossi il capo, distogliendo l'attenzione dai fiori per guardare ciò che c'era davanti a me. Eravamo quasi arrivate al Tempio di mio padre, Zeus, in cima al Monte. Potevo scorgere le sagome delle altissime colonne che si stagliavano al cielo, quasi a voler toccare le prime stelle della notte. 

«Dubito che decida di venire» affermai. «Questa sera aveva una cena importante con Calliope e altre ninfe della terra per risolvere il problema dello scarso raccolto di Atene. Il simposio organizzato da mio padre era l'ultimo evento a cui avrebbe voluto partecipare.»

Il ché era vero. Mia madre detestava così profondamente mio padre che evitava qualunque evento in cui ci sarebbe stata anche solo una remota possibilità di incontrarlo.

Euridice mi lanciò un'occhiata perplessa, ma finalmente rilassò le spalle. «Spero che sia così.»

Le feci l'occhiolino, sorridendole. «Conosco mia madre abbastanza da sapere che non sarebbe venuta nemmeno se non avesse avuto altri impegni. Il suo odio per mio padre non le permette di tornare sull'Olimpo già da vari anni.»

«Non hai ancora scoperto il perché del suo rancore?» Euridice era palesemente curiosa.

Io non ero da meno.

Scossi il capo. «No, e non vuole parlarne.»

Si picchiettò l'indice sul mento con fare pensieroso. «Non so cosa darei per scoprire questo suo piccolo segreto. È da quando eri piccola che non faccio altro che fantasticare su cosa sia davvero successo tra loro.»

«Credo che non lo scopriremo mai.» A meno che non avessi chiesto a mio padre, ma era l'ultimo argomento che avrei affrontato se avessi ha avuto modo di trascorrere un po' di tempo con lui.

Desideravo così tanto conoscerlo. 

Per tutta la mia infanzia non aveva mai avuto modo di essere la figura paterna che desideravo e avevo bisogno di avere. Non credevo dipendesse dalla sua volontà. In questo caso, davo la colpa a mia madre per avermi tenuto lontana dal mio mondo e dai miei stessi simili. Mi aveva condotto nel regno mortale e non mi aveva mai permesso di farvi ritorno. 

Quella sera, dopo ben quattordici anni, ne avevo avuta l'occasione. È l'idea di essere lì mi eccitava.

Stavo per rivedere mio padre e, forse, anche il mio Narciso nero. 

Il cuore perse un battito e poi iniziò abbattere all'impazzata alla sola idea di incrociare nuovamente il suo sguardo magnetico e cristallino. 

Si sarebbe ricordato di me? Oppure sarei stata una delle tante Dee a cui forse non avrebbe minimamente dato attenzione?

«Sei agitata?» mi riportò alla realtà Euridice.

Mettendomi una mano sul petto, come se volessi calmare il mio cuore impazzito, sorrisi alla mia amica con gli occhi pieni di speranza ed eccitazione. «Vorrei vederlo.»

Non servì specificare a chi mi riferissi.

Lei lo sapeva già.

Lo sguardo della ninfa si addolcì e un sorriso sincero ricambiò il mio, incurvando quelle belle labbra carnose. «Sono certa che lo rivedrai.»

Sospirai e, leggera come una farfalla, quasi non continuai il percorso saltellando e canticchiando.

Giungemmo al Tempio del Dio dei fulmini e, seduto sulle scale, vedemmo Orfeo che attendeva Euridice. 

Era un bel ragazzo, con una cascata di capelli ricci e biondi, il viso aggraziato e un paio di iridi verde foglia che brillavano sul suo incarnato abbronzato e baciato dal sole. Era il figlio di Calliope, la ninfa della terra amica centenaria di mia madre, e del Dio Apollo. Questo faceva di lui un semidio e, per tale ragione, gli era concesso l'ingresso sul monte Olimpo, un luogo in cui i comuni mortali non sono ammessi.

Quando aveva saputo che io ed Euridice avremmo preso parte al simposio di mio padre, le aveva dato appuntamento su quelle scale.

Le guance della mia amica si imporporarono di rosso e, seppur timidamente, fece cenno di saluto con la mano al ragazzo. Si voltò a guardarmi e, senza che ci fosse bisogno di dire nulla, annuii con la testa e le diedi una piccola spinta, facendole fare un paio di passi nella direzione del Semidio di cui sapevo si fosse innamorata. 

Nel momento in cui gli fu dinanzi, Orfeo le distolse una ciocca di capelli che gli era finita sul viso e le baciò la fronte. 

Il viso della mia amica andò in fiamme e sghignazzai sottovoce, cercando di non farmi sentire da loro. 

Solo quando se ne furono andati, trassi un profondo respiro e gli immitai, salendo la breve scalinata e facendo il mio ingresso nel Tempio.

Lì ammirai i divanetti in velluto dorati che erano sparsi in tutta la sala, i vasi traboccanti di fiori variopinti che abbellivano e davano colore all'ambiente, senti il profumo di spezie e bacche e osservai come dei, semidei e ninfe conversassero e ridessero tra loro, sovrastando l'armonia prodotta dalle arpe suonate dalle ninfe della musica.

Sopra la nostra testa non c'era nessun tetto, solo il manto stellato della sera. La sala era rischiarata dalla luce di piccoli soli tra le colonne, potere di cui sapevo appartenesse ad Apollo. Ed eccolo lì: a ridere per qualunque cosa avesse detto o fatto Dioniso, già sbronzo. Sapevo che fosse lui dal modo in cui si vestiva. Il suo peplo leopardato e i grappoli d'uva tra i capelli rossi lo rendevano unico. Bevve un altro sorso di ambrosia dal suo calice e si voltò a baciare una ragazza quasi completamente svestita al suo fianco. Anche lei aveva dei lunghi capelli rossicci e solo una gonna velata a coprirle il corpo dal bacino in giù. Nient'altro.

Quella doveva essere Arianna.

C'era qualcosa di peccaminoso nel modo in cui le loro labbra si incontravano e le loro lingue si toccavano, così tanto peccaminoso che mi imbarazzai e fui costretta a distogliere lo sguardo. Tossendo piano per sciogliere il groppo che avevo in gola.

«Danno sempre spettacolo, non ci fare caso.»

Mi voltai rapidamente alla mia sinistra e incrociai lo sguardo di una Dea bellissima — perché i suoi occhi di un azzurro chiaro, seppur tempestati di piccole sfaccettature violacee, non potevano non rivelare la sua identità: tutti i discendenti di Urano e Crono si contraddistinguevano per le loro iridi color cielo — e mi chiesi chi quest'ultima fosse.

«Come?» riuscii solo a dire, ancora sorpresa che mi avesse rivolto parola.

La dea fece cenno con il calice verso Dioniso e Arianna e ne bevette a sua volta un sorso. «Non sanno cosa voglia dire essere... indiscreti.»

Lanciai uno sguardo ai due Dei, che nel frattempo avevano trasformato il bacio in qualcosa di molto più... intimo, e lo distolsi rapidamente, con le gote arrossate. «Questo mi fa supporre che non lo siano affatto.»

L'accenno di un sorriso le incurvò un angolo delle labbra piene. «Ecate.»

Dea degli incantesimi e degli spettri, braccio destro del Dio Ade nel regno dell'oltretomba: ecco chi era la ragazza dai capelli corvini e la carnagione diafana che mi aveva rivolto parola.

A essere onesta, non mi sarei mai aspettata di conversare proprio con lei, quella sera. Non perché fosse indesiderata la sua presenza sull'Olimpo, bensì per il semplice fatto che mia madre ed Euridice mi avevano sempre parlato di lei e del suo re, di come fossero restii a partecipare a eventi come quelli. Preferivano il silenzio, la tranquillità e le tenebre che l'oltretomba aveva loro da offrire.

Mi ero sempre chiesta come facessero a vivere senza il sole, senza la luce calda e avvolgente del giorno. Senza la vita che la natura aveva da regalare. Senza qualunque cosa potesse donare gioia e felicità. Perché ero abbastanza certa che lì, in quel regno di spettri e anime infelici, non ci fosse nulla di tutto questo.

Mi morsi il labbro e, con un po' di titubanza, dissi: «Persefone».

Persefone, non Core come mia madre o Euridice mi chiamavano. Le dissi il mio vero nome, quello che sentivo non mi appartenesse.

Ecate mi scrutò con attenzione, soffermandosi sui fiori bianchi tra i miei capelli color rame e sugli occhi grigi come i nuvoloni carichi di pioggia. «So chi sei» affermò, senza esitazione. Senza il minimo calore nella voce pungente. «L'ho sempre saputo.»

Inclinai il capo di lato, i capelli che mi ricadevano sul lato sinistro e mi sfioravano i fianchi con le loro punte.

Non capii cosa intendesse dire, né come facesse a conoscermi. Ero certa di non averla mai vista prima e che lei non avesse mai visto me.

Stavo per porle la domanda, ma qualcosa attirò alla sua attenzione e la mia. 

Euridice si fece largo tra i presenti, mettendomi in allarme. «Core! Dobbiamo andare via!»

«Perchè mai? Cos'è accaduto?» mi affrettai a chiederle.

«Tua madre» fu rapida a dire, cercando di riprendere fiato. «È diretta qui, sull'Olimpo.»

Una voce alle mie spalle mi fece gelare. «Ti correggo, mia cara: io sono già qui.»

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