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Capitolo 14

Luogo sconosciuto

Non so da quanto tempo mi trovo qui.

Mi rammento di quella mattina quando mi hanno seguito e mandato fuori strada, certo, ma da allora ho perso completamente il senso del tempo.

Il primo ricordo che possiedo è l'odore di gomme bruciate e il sangue che mi gocciola sul viso. Nell'incidente che quei due hanno provocato, infatti, ho riportato varie ferite superficiali e un trauma alla testa che mi ha lasciato intontito e confuso per un po'.

Da quando mi sono ripreso, ho studiato il posto in cui mi hanno rinchiuso, senza trovare una via d'uscita. Dopotutto si tratta di una stanza completamente bianca dotato di una branda e un wc. I pasti mi vengono dati attraverso la parete di sinistra: una parte di essa è girevole e così il vassoio entra ed esce dalla mia prigione. Il cibo non è neanche malaccio, però non mi hanno mai fornito di posate, il che è davvero ridicolo da un certo punto di vista.

Forse credono che io voglia scavare un tunnel con un cucchiaio.

Comunque sia, questa gabbia è a prova di evasione. Così ho deciso di starmene tranquillo e godermi il soggiorno, sperando che non finisca male. D'altronde non posso fare altro.

All'inizio della prigionia, quando le mie ferite era guarite ho cominciato a tenermi in esercizio con flessioni e altre attività ginniche, ma, dopo un po', la noia ha preso il sopravvento.

Mangio, dormo e respiro.

Sono bloccato in un circolo vizioso. Senza alcuna speranza di uscirne. Credo che Connor e il capitano si sono accorti della mia assenza e stiano indagando, però non spero in un salvataggio.

Non a breve termine, almeno.

Sbuffo e mi sdraio sulla branda, chiudendo gli occhi. In momenti come questo, quando vengo preso dallo sconforto, mi piace rifugiarmi nella mia mente, fra i miei ricordi più cari.

Layla correva a perdifiato nelle gallerie che erano state costruite dopo la catastrofe di cui mio padre mi aveva raccontato più e più volte. Quella bambina dagli occhi color ambra era una vera peste: si metteva nei guai di continuo, proprio come quella volta.
I corridoi in pietra sfociavano in varie parti della città, ma avevamo il divieto di andare in superficie. Proibizione che a Layla interessava poco o nulla. Da quando i suoi genitori erano morti, lei si era chiusa in un ostinato silenzio e faceva sempre quello che le pareva.
Quel giorno la stavo rincorrendo perché papà voleva parlare a entrambi delle sue scoperte e io non volevo perdere l'occasione di ascoltare, finalmente, la storia del Mondo. Così mi ero messo a caccia di Layla e sapevo dove si stava recando: un ingresso ormai in disuso, dove, alle volte, ci riunivamo con gli altri bambini. Non appena la raggiunsi, lei stava già aprendo il portellone per uscire. Io la ghermii per una caviglia e la feci ruzzolare giù dalla scaletta, procurando lividi a tutti e due.
«Che vuoi, Ian? Lasciami andare. Tanto a nessuno interessa di me» mi disse, in tono di sfida, con occhi colmi di lacrime.
«Stupida» replicai, accucciandomi di fronte a lei «Tutti pensano a te. A partire da mio padre. Ma tu non lasci entrare nessuno. Credi che per me sia facile? Credi che non pensi alla mamma ogni istante? Però ci sono persone che mi, ci, vogliono bene, Layla. Non sei sola.»
La piccola Layla scoppiò in un pianto a dirotto e io l'abbracciai stretta.

Quanto mi manca quella combinaguai.
L'ultima volta che ho visto Layla, i mostri ci stavano attaccando e decimando e noi siamo stati costretti a dividerci. Ogni volta che penso a lei spero che sia riuscita ad attraversare un varco e che abbia trovato la sua felicità.

Quando posai gli occhi su quella figura minuta, tremante e arruffata, non potevo immaginare che sarebbe diventata così importante per me. Eppure la prima volta che vidi Liv, percepii d'istinto la sua forza e la sua tenacia nonostante avesse vestiti a brandelli e un'aria stravolta. I suoi occhi smeraldo erano stupendi e così tristi da spezzarmi il cuore.

Chissà ora che starà facendo.
Pochissime volte penso a quella donna proveniente da un'altra epoca perché farlo mi ferisce ancora. Lei mi ha sempre respinto dolcemente, ma io non sono mai riuscito a rassegnarmi. Uno dei momenti più brutti della mia vita è stato il suo sacrificio: quando si è buttata in quella varco per salvarci, io avrei voluto egoisticamente fermarla e mandare al diavolo il mondo.

Un sibilo inquietante mi riporta al presente, alla mia detenzione forzata. Una leggera nebbia sale dal pavimento inondando la stanza in una manciata di secondi. Dapprima provo a trattenere il fiato, però poi cambio idea e lascio che il gas mi addormento, sperando che le cose non peggiorino.

Appena apro gli occhi, scopro che ho torto come sempre. Difatti, mi ritrovo sdraiato su un lettino con gli arti spalancati: forti cinghie mi intrappolano polsi e caviglie, mordendomi la pelle, mentre la testa è bloccata da una struttura in metallo.

Tento di liberarmi, però ogni sforzo finisce nel nulla. Non riesco neppure a girare la testa di lato tanto mi hanno immobilizzato. Così provo ad affidarmi agli altri sensi: alle narici mi giunge un lieve odore metallico, ma a parte questo non riesco a trovare alcun indizio circa il mio nuovo luogo di prigionia.

Nuovo in quanto non riesco a scorgere il soffitto quindi, va da sé, che ho appena traslocato di residenza.

«Urrà per me» brontolo, a denti stretti, a causa della trappola che mi serra la testa.

Un ticchettio risuona potente nel silenzio che mi avvolge e un brivido mi corre lungo la schiena. Avverto una presenza al mio fianco e non so come reagire. Fare lo sbruffone potrebbe compromettere la mia attuale situazione quindi forse è meglio usare la gentilezza.

«Grazie dell'ospitalità» esordisco, abbozzando un sorriso.

«Di nulla. Grazie a lei per aver accettato l'invito, signor Worton. È così che si fa chiamare, vero?» replica una voce ovattata, priva di inflessioni o accenti particolari.

«Quindi mi conosce» osservo, ripercorrendo tutte le persone che ho incontrato dopo aver attraversato il varco «Io conosco lei?»

«Lo tenuta d'occhio per molto tempo» mi risponde il mio carceriere mentre la sua voce si fa sempre più chiara «Lei non mi conosce, anche se si potrebbe dire di sì.»

Confuso dall'enigmatica frase, tento nuovamente di voltare la testa per vedere il volto di chi mi tiene prigioniero, ma questa fatica mi viene risparmiata: un'ombra oscura la luce che proviene dall'altissimo soffitto e mi occorrono alcuni attimi prima che io riesca a mettere a fuoco ciò che sto fissando.

«Oh, mio Dio» mormoro senza fiato, aprendo e chiudendo la bocca come un pesce rosso.

«Sarebbe più appropriato dire "oh, mia Dea".»

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