48 - Noi non siamo questi
Come da promessa fu Andrea a portarci fino a destinazione.
Il tragitto in auto fu teso e silenzioso ma c'era da aspettarselo viste le premesse con le quali eravamo partiti.
Di tanto in tanto Andrea lanciava occhiate alla sua destra per controllare la situazione. Adoravo quel suo modo discreto di dimostrare affetto. Lui era sempre pronto in caso qualcuno avesse bisogno del suo aiuto ed era capace di darne come nessun altro. Le sue attenzioni erano discrete ma sempre puntuali.
Andrea era speciale, era quel tipo di persona che, pure in silenzio, faceva sempre sentire la sua influente presenza. Aveva la parola giusta per ogni situazione e i suoi occhi... I suoi occhi erano capaci di leggerti dentro.
Nonostante tutto ero felice di sapere che Lei fosse nelle sue mani, era certamente una sicurezza.
Appena lui posteggiò l'auto lungo il marciapiedi che costeggiava l'intero isolato, mi lanciai fuori per aprire lo sportello anteriore.
Lei non sembrava molto sicura delle sue azioni, aspettò l'ok di Andrea prima di lasciare l'abitacolo e seguirmi.
La condussi al grande portone che poi aprii lasciando che Lei lo varcasse per prima, raggiunsi l'ascensore e feci lo stesso. Una volta dentro schiacciai il tasto 8 ed aspettai che il mezzo partisse.
Quella rapida ascesa che negli ultimi tempi avevo percorso così spesso mi sembrò nuova, quasi distante.
Distante come me e Lei.
Ognuno se ne stava in silenzio, chiuso nel proprio angolo.
Io non la guardavo, Lei non mi parlava.
Pensavo mille e mille cose, ma i miei pensieri non si tramutato in parole. Ogni frase, ogni idea mi sembrava stupida e priva di significato quindi lasciavo perdere.
Ogni volta era come se le pareti di quell'ascensore si allargassero per allontanarci sempre di più.
Appena giungemmo al piano desiderato e le porte dell'ascensore si aprirono sgattaiolai fuori in cerca d'aria.
Presi un respiro profondo e raggiunsi il portone, lo aprii, accesi la luce della sala e mi voltai verso di Lei.
-Vieni- le dissi porgendole una mano.
La mia voce tremò a causa dell'emozione. Quella era la prima parola che scambiavo con Lei.
Mi sentivo uno stupido ma non riuscivo a controllare le mie emozioni. Quella sera non riuscivo a controllare un bel niente.
Qualcosa sembrò girare nel verso giusto quando Lei afferrò la mia mano. Abbassai subito lo sguardo verso le nostre mani unite e rimasi per qualche secondo affascinato da quell'incontro.
Non avevo occhi che per quello.
La mia mano, più grande e callosa della sua sembrava avvolgerla, sembrava quasi volesse proteggerla come io non ero stato in grado di fare.
La cosa che più mi colpì però fu il calore che da quella stretta scaturì.
Mi si strinse il cuore in una morsa.
Quando alzai lo sguardo incontrai il suo che si perdeva nella vastità della sala.
Riconobbi quella sensazione, era la stessa che avevo provato io la prima volta che avevo messo piede in quella casa.
Accennai un sorriso perché anche quel piccolo particolare mi avvicinava a Lei in un modo che non credevo possibile.
-Benvenuta a casa mia, cioè nostra, cioè mia, di Adriano e Andrea- dissi incespicando su parole e concetti.
Dalla sua bocca sfuggì un sospiro sorpreso mentre i suoi occhi si spalancarono a dismisura.
-Si, è ancora un po' vuota ma la riempiremo a breve. Pensiamo di spostarci entro una quindicina di giorni-
Poi continuai.
-Sei la prima persona che porto in questa casa. Bhe almeno dopo noi tre e Alessia, credo che molto presto questa sarà anche casa sua- sembravo uno stupido ma mi sentivo davvero molto confuso.
Lei se ne stava ancora in silenzio, si guardava intorno senza dire nulla.
Non sapevo che pensare.
Stavo per lasciarmi sopraffare dal panico.
-Ti piace?- chiesi per spezzare quel silenzio.
-Si, sembra grande-
Rabbrividii.
Perché la sua voce doveva arrivarmi così fredda?
-Lo è in realtà- dissi provando a sorridere con scarsi risultati -avevamo bisogno di spazio dopo anni di alloggi freddi e impersonali, però non siamo riusciti a staccarci quindi abbiamo optato per qualcosa di grande. Vuoi, vuoi vedere il resto?-
Lei annuì.
-Dai, seguimi-
Lei fu subito al mio fianco, con la mano ancora stretta nella mia.
Era così naturale quel contatto. Quello sfiorarsi intimamente che mi faceva correre brividi lungo le braccia. Era bello sapere di essere solo con Lei proprio lì, in quella che avevo scelto come mia casa.
La condussi lungo tutto il piano inferiore, sempre in silenzio senza usare parole che sarebbero andate sprecate.
Giunti alla grande scala le parlai.
-Questa è la zona giorno, noi però abbiamo voluto esagerare e ci siamo concessi anche l'attico al piano di sopra-
Ancora una volta non ebbi risposta ma non mi importava, stavo bene comunque in quel momento.
Una volta raggiunto l'ampio corridoio le spiegai che lì ci fossero quattro camere da letto e due bagni. Subito aprii una delle porte e l'idea di averla portata nella mia stanza mi fece battere forte il cuore.
Non era ancora niente di che, me ne rendevo conto. C'erano solo una serie di mobili senza alcun complemento d'arredo. L'unico mio vanto era la chaise longue posizionata ai piedi del letto. Adoravo l'idea di potermici rilassare e magari addormentare nei giorni più pesanti.
Le lasciai la mano, finalmente sarebbe stata libera di muoversi a proprio piacimento, ed andai a posizionarmi proprio accanto alla chaise longue, seduto sul pavimento.
Per un attimo la vidi persa quindi le feci cenno di raggiungermi.
Non se lo fece ripetere due volte ma si accomodò a qualche centimetro da me come se la troppa vicinanza potesse bruciarla.
Finsi di non aver notato quella sua reazione, preferii concentrarmi su quello che avevo da dirle.
-Questa è la mia stanza- le raccontai -poi ci sono quelle di Adriano e Andrea, l'altra la lasceremo così, per eventuali ospiti-
-Perché mi hai portata qui?- chiese d'improvviso.
-Perché volevo che vedessi casa mia, la prima casa che ho realmente comprato io, con i miei guadagni. Volevo mostrarti una cosa mia, era importante per me-
Lei non disse nulla quindi continuai.
-Sai, quando ti ho vista con i ragazzi mi sono sentito uno schifo, ho pensato che loro stessero facendo quello che avrei dovuto fare io. Vederti lì con loro mi ha dato una scossa, al loro posto ci sarei dovuto essere io... Cavolo!-
Mi concentrai sulle mie mani, ferme sul mio grembo.
-Ti ho portata qui appena ho potuto perché non volevo perdere altro tempo, non volevo perdere anche questa occasione per fare la cosa giusta-
Presi un respiro.
-Volevo portarti qui da subito, avrei voluto tu facessi parte di tutto questo-
Il suo sguardo non si mosse da quel suo bracciale, lo maledissi per un istante e maledissi me stesso per aver perso troppo tempo.
-Vuoi tornare da Andrea?- le chiesi.
-No- rispose trasalendo.
Quella sua negazione mi fece credere di avere ancora una speranza. Un inconsapevole sorriso raggiante prese posto sul mio viso.
Abbandonai tutta la negatività che mi ero portato dietro e tornai a vedere la luce.
Mi gustai quel silenzio tra noi che non era più teso, era solo... Silenzio.
Non ci guardavamo e nessuno di noi aveva da dire nulla di importante. Ce ne stavamo lì seduti sul pavimento di una casa vuota, lontani ma protagonisti di una strana vicinanza.
Era piacevole stare lì con Lei, finalmente mi sentii nel posto giusto e fu come se tutti i cocci di un qualcosa di importante tornassero a riassemblarsi nel verso giusto.
-Tra poco questa pace sarà un miraggio- mi lasciai sfuggire.
Lei, forse per la prima volta, si voltò verso di me, confusa e buffissima.
-Quando ci trasferiremo, qui ci sarà un casino incredibile- le spiegai -ormai li conosci anche tu i ragazzi, scommetto che non ci saremo mai solo noi tre, quest'appartamento sarà un porto di mare-
-Voi non avete fatto molto per renderlo un posto intimo- e il suo volto si illuminò di un sorriso ironico.
Fu bello sentirla parlare, fu come sentirla per una nuova prima volta.
-In effetti no- risposi imbarazzato da tutto l'insieme delle cose che mi aveva regalato nell'ultimo minuto.
Poi ancora silenzio.
Ero troppo emozionato e nemmeno capivo il perché.
La sua vicinanza, il suo sorriso, i suoi occhi, tutto.
Lasciai andare la testa all'indietro fino a posarla sul materasso, un fiume di emozioni ad invadermi la mente.
Ed eccolo, era giunto il momento di parlare, di essere chiari una volta per tutte.
-Scusa- sussurrai.
E di nuovo in quella parola avrei voluto racchiuderne altre mille.
-Non c'è bisogno che ti scusi, non serve- disse Lei.
-Serve a me, tu non puoi capire come mi sento-
-Ma a me non devi spiegare niente, davvero-
-Io ne ho bisogno-
La mia frustrazione venne tutta fuori in quella frase.
Sembravo un disperato.
Mi presi la testa tra le mani, massaggiai i capelli e con le dita e cercai di mettere insieme un discorso che in realtà non aveva un filo logico.
-Mi sento una merda- ecco, forse quella era l'unica grande verità -sono stato un egoista. Ti ho fatta venire perché volevo che fossi con me, volevo portarti qui, agli allenamenti e invece ti ho lasciata sola-
Un respiro.
-Cavolo che stupido che sono stato. Adriano e Andrea si sono presi cura di te come invece avrei dovuto fare io. Saresti dovuta stare nella mia stanza, sarei dovuto essere io a farti ridere-
-Mi hai lasciata in buone mani- disse.
E a quelle parole sentii lo stomaco rivoltarsi su se stesso. Quelle parole che volevano calmarmi ebbero un effetto totalmente contrario.
-E' questo il punto! Io non avrei dovuto lasciarti in nessuna mano. Non l'ho fatto anzi, non volevo che tu fossi con qualcun altro. Il merito è tutto dei ragazzi, loro hanno capito, io no... Io l'ho capito tardi, solo quando ho letto la tristezza nei tuoi occhi quando volevo costringerti a parlarmi, a dirmi cose che avrei dovuto capire da solo... Eppure avrei dovuto rendermi conto che qualcosa non andava. Tu mi hai dato tutti i segnali e io sono stato cieco-
-Calmati- sussurrò Lei.
-Ma come faccio a stare calmo?- quasi urlai -Ti ho fatto stare male-
-Non sei tu ad avermi fatto male, non hai nessuna colpa-
-Non giustificarmi, non me lo merito. Io lo vedo che le cose tra noi non sono normali, lo vedo dove ho sbagliato. Lo so bene, noi non siamo questi-
E la rabbia mi bruciò il petto.
Avrei voluto piangere o, meglio ancora, lanciare tutto all'aria.
-Noi siamo qualcosa di strano, noi non siamo niente e siamo tutto, ci siamo infilati in qualcosa di troppo grande-
Metabolizzai le sue parole e mi voltai trovandomi di fronte uno sguardo dolce coperto però da un velo di tristezza.
-E cos'è questa cosa?- le chiesi.
-Non lo so- disse scuotendo la testa mantenendo sulle labbra una sorta di sorriso.
Ancora una volta tra noi scese il silenzio.
I nostri sguardi però si incontrarono quasi congelandoci in quella bolla di serenità che si era creata, sempre in bilico tra emozioni e sensi di colpa.
I miei sbagli mi pesavano addosso come macigni, le mie colpe tendevano ad allontanarla da me.
In quel momento però non volevo pensarci. Volevo lasciarmi andare a quella sensazione di leggerezza che sembrò avvolgerci.
C'eravamo solo io e Lei, un sorriso ed un muso lungo a dividerci.
Ma fu solo un attimo e l'incantesimo fu spezzato da un'ombra che travolse i suoi occhi.
Fu come se qualcosa l'avesse spaventata, un pensiero molesto, un ricordo doloroso.
Distolse lo sguardo e lo portò verso il pavimento, il sorriso sparì dal suo viso e un'espressione di dolore prese il suo posto.
-Vuoi andare?- le chiesi non sapendo cos'altro dire.
Lei annuì.
Avrei voluto trattenerla ma non me avevo il diritto. Avevo già fatto abbastanza del male ad entrambi.
In quell'occasione dovevo essere io a mostrarmi maturo.
Mi sollevai da terra e, dopo aver sistemato i pantaloni, le porsi una mano per aiutarla ad alzarsi.
Lei la guardò per un attimo poi si tese e la afferrò.
La aiutai ad alzarsi ma quando fu al mio fianco non le lasciai la mano. Aumentai la forza impressa in quel contatto come per legarla a me indissolubilmente. Percorremmo a ritroso tutto l'appartamento fino ad arrivare al portone dove fui costretto a staccarmi da Lei per cercare le chiavi e richiudere casa.
Continuammo a camminare in silenzio fino all'ascensore. Io vi entrai e mi sistemai sul fondo ma, al momento del suo ingresso, Lei inciampò rischiando di cadere rovinosamente sul pavimento marmoreo.
Ebbi l'impulso di tendermi in avanti, di lanciare le mie braccia verso di Lei.
Accadde tutto in un attimo, quasi fossimo al centro di una pellicola di bassa lega.
Chiusi gli occhi per paura di non farcela ma, per mia fortuna, i miei riflessi pronti mi premiarono.
Riuscii ad afferrarla, ad impedirle di cadere.
Ancora una volta il destino l'aveva posta tra le mie braccia.
Riaprii gli occhi e Lei fece lo stesso.
Alzò incredula lo sguardo verso di me.
-Ciao- le sorrisi.
Lei non accennava a muoversi ed io non avevo la minima intenzione di forzarla. Rimanemmo così a fissarci per un po', incastrati sull'uscio dell'ascensore, quella era la cosa più vicina ad un abbraccio, l'unico vero punto di contatto che ci saremmo potuti concedere in quell'occasione.
Finalmente, dopo un tempo che sembrò infinito, i suoi occhi si illuminarono e si concesse di ridere. Quel suono, quella luce... Quanto mi erano mancati.
Decisi di approfittare di quel momento. Ero sulla strada giusta, non potevo permettermi di lasciarmelo scivolare tra le dita.
-Ho la capacità di farti cadere sempre ai miei piedi- la presi in giro -stavolta almeno sono arrivato in tempo-
Lei annuì, senza smettere di sorridere.
-Anche questo sarà un segno del destino- continuai -lo prendiamo come un nuovo inizio?-
-Tu e le tue strane idee sul destino- fu il suo turno di giocare con me.
Io le sorrisi, avevo davvero bisogno di un momento come quello.
La aiutai a rialzarsi e, senza pensarci su, le presi la mano, stringendola nella mia.
Non le chiesi il permesso, non ne avevo più bisogno.
Mossi lentamente il pollice sul suo dorso senza un vero motivo, volevo solo che mi sentisse forte impresso sulla sua pelle.
Rientrammo entrambi in ascensore e cominciammo la discesa.
Ancora una volta avvolti dal silenzio.
Un silenzio colmo di parole non dette, di sguardi, di scariche elettriche.
Un silenzio carico di sorrisi, quelli che entrambi portavamo impressi in volto.
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