4. Come beccarsi una freccia in gola e non restarci secchi
Rhod
Strinsi l'indice e il pollice fra loro, tanto forte da far sbiancare i polpastrelli. Tenni le palpebre chiuse, le gambe incrociate, il capo chino, le braccia sollevate a mezz'aria. Il pavimento in parquet scuro fluttuava sotto di me di diversi metri, o meglio, ero io a fluttuare di diversi metri dal parquet. Una piccola sfera di vetro, un'altra di pietra e un'altra ancora di legno, galleggiavano intorno a me in senso orario, seguendo attentamente i miei comandi. La finestra era aperta, lasciava entrare un lento sibilo di vento e le urla esaltate provenienti dalle sale d'allenamento del palazzo reale.
Ma io allontanai i rumori dalle orecchie, le sensazioni sulla pelle, e focalizzai tutte le mie energie sul movimento che producevano le sfere intorno al mio corpo, sull'aria che si curvava per sorreggere il mio peso. Ed ero così concentrato, che neppure mi accorsi della freccia.
Entrò dalla finestra, aperta abbastanza da facilitarne l'ingresso e, con una precisione micidiale, mi si conficcò nella gola.
Chiaramente, se fossi stata una qualsiasi altra persona al mondo, il destino non avrebbe di certo fatto in modo che una freccia, proveniente da un combattimento a diversi metri in basso rispetto alla mia stanza, mi colpisse precisamente la gola. Ma quel fato era beffardo con me. Maligno.
La prima volta che morii fu a cinque anni. Attraversavo la strada, un lento carretto della frutta percorreva il sentiero e, per uno strano caso del destino, non mi vide arrivare. La mia vita cessò sul colpo: troppe fratture per un solo piccolo corpo. Eppure, quando furono sul punto di bruciare i miei resti sulla pira funebre, io mi alzai in piedi, tutto intatto. Nessuno ebbe il coraggio di parlarne. Poi però non passò molto dalla seconda morte, quando la vipera mi morse a sei anni. O quando una capanna mi crollò addosso, oppure quando mi strozzai con il pranzo, oppure... Oppure.
Avevo sperimentato così tante morti, così svariate, che ormai non riuscivo più a ricordarle tutte. Ma forse era giusto così. Ero nato mago, avevo avuto in dono incredibili qualità, e per questo anche io dovevo avere un punto debole. Tuttavia, perfino per uno che ne aveva vissute di tutti i colori, morire innumerevoli volte all'anno poteva considerarsi una prova dura da affrontare, sopportare. Non ci si abitua mai alla morte.
Mi ero unito alla corte del re perché mi aveva promesso protezione. Potevo rimanere chiuso in una stanza, diminuire le mie probabilità di decesso ed avere un lavoro fiorente e di tutto rispetto. In realtà, salvarmi la pelle era più che sufficiente, mi bastava. Morire faceva provare un dolore particolarissimo, inenarrabile, non importava quante volte fossi in grado di rialzarmi.
Comunque, il programma della mia mattinata si mostrava prevedibile: sveglia alle sette e trenta, colazione alle otto, allenamento alle nove, morte alle nove e trenta e resurrezione alle dieci. E accadde tutto molto velocemente. Non appena la freccia mi si conficcò nel collo, la sfera di vetro cadde a terra e si spaccò in milioni di pezzi acuminati; la sfera di pietra si schiantò contro la libreria, che con un frastuono tremendo cadde in avanti e si sfracellò contro il suolo; invece, la sfera di legno cozzò contro una pila infinita di tomi magici, sparpagliandoli con terribili tonfi fra i vetri rotti.
Quanto a me, mi limitai a precipitare a tutta velocità contro il pavimento, mentre il dolore mi si espandeva dalla gola in fitte lancinanti e mi mozzava l'aria. Atterrai con un rumore sinistro sui vetri infranti, i pezzi di legno della libreria cozzarono contro la mia testa, i frantumi dei vetri mi entrarono nella pelle, la punta acuminata della freccia nella mia gola stridette contro il pavimento. Poi divenne tutto nero.
Tecnicamente, se ti becchi una freccia in gola, non puoi non restarci secco. Invece, a svegliarmi una ventina di minuti dopo non furono le mie incredibili capacità di resurrezione, ma dei semplici colpi alla porta. Sobbalzai.
«E' successo qualcosa? Tutto bene?» Una voce limpida e al tempo stesso flebile mi arrivò alle orecchie. Fui sul punto di rispondere, ma poi ricordai il piccolo dettaglio di avere una freccia in gola. Abbassai gli occhi sull'estremità che fuoriusciva dal mio collo. Con non pochi problemi, spezzai la punta che avevo davanti. Poi chiusi gli occhi e, sperando di non provare troppo dolore, tirai. «Signore?» Altri colpi. Mentre mi sfilavo la camicia, mi salì un risolino sulle labbra. Signore! Nessuno mi avrebbe chiamato in quel modo. Non certo dopo aver visto la mia altezza e aver saputo la mia età. Chiunque ci fosse dietro a quella porta, lo ringraziai sottovoce. Ancora un colpo e dopo, silenzio.
Dopo essermi tolto alla svelta le schegge dalla schiena - o almeno quelle che riuscivo a raggiungere - ed essermi tamponato il sangue alla bell'e meglio, indossai una camicia qualunque, corsi davanti alla porta e ci posai l'orecchio. Se ne era andato? A distogliermi dal dubbio fu un'altra voce, dal timbro piatto e impostato.
«Signor Hywel, il sovrano chiede di voi.» E poi un solo colpo appena accennato contro il legno della porta. A passo felpato ed impercettibile, mi spostai verso la maniglia ed aprii di qualche centimetro, insinuando un occhio per studiare la situazione. La prima figura che notai fu quella di un messaggero, i tipici calzoni marroni e la monotona casacca arancio che solo loro potevano indossare, e non perché stessero bene, anzi. Il tipo mi fissava apatico, per nulla sorpreso dalla mia reazione cauta e forse un po' timorosa.
Ma dietro di lui, si ergeva la figura longilinea di un ragazzo, che mi fissava con un luccichio incuriosito appena percettibile. Richiusi di botto la porta.
«Il sovrano pretende la vostra presenza adesso.» sottolineò il messaggero, con una sfumatura seccata che trapelava dal tono pieno di monotona e finta cortesia. Perché avevo chiuso la porta in quel modo? Rimasi perplesso dai miei stessi gesti. Tuttavia, mi posai una mano sul petto, sentendo il cuore battere forte. Dopo, mi lisciai rapidamente i capelli castani e mi riassettai il colletto della camicia. Soddisfatto da quei piccoli gesti, posai una mano sulla maniglia. Sapevo che, presto o tardi, il momento di lasciare le confortanti mura dei miei appartamenti sarebbe arrivato, speravo solamente che non accadesse così presto. Presi un profondo respiro e aprii la porta.
«P-p..portat-temi dal re.» Senza volerlo, la mia voce si incrinò. Ne rimasi profondamente deluso e abbassai lo sguardo al pavimento. Il messaggero allora si voltò verso di me e il misterioso ragazzo, che ancora stava fermo, in piedi. Non osai guardarlo, pieno d'imbarazzo per la mia debole entrata di scena.
«Seguitemi.» E girò sui tacchi per farci strada, senza ammettere altre repliche. Ma io non mi mossi e, dopo qualche attimo d'incertezza, sollevai lo sguardo verso il giovane, che fino a quel momento era rimasto in silenzio, nel suo mutismo.
Era bello, ma di una bellezza strana, quasi sciupata: i lisci capelli biondo candido, raccolti in un morbido codino sulla nuca, erano striati di grigio come un campo di grano appassito, la pelle madreperlacea gli donava un pallore quasi spettrale, gli occhi orlati dalle ciglia bionde erano di un chiarissimo verde, mi ricordavano quei pericolosi acidi verdi che ribollivano sul fondo di qualche vecchia pozione dimenticata; era alto, mi sovrastava di parecchi centimetri, ma per nulla muscoloso: nonostante questo, la sua figura era longilinea, piacevole a guardarsi. Lo pervadeva un'aria distinta e un po' stralunata, come se si trovasse in mondo tutto suo, in cui gli altri non erano ammessi. In cui io non ero ammesso.
I suoi occhi verde acido mi soppesarono a lungo. Poi, inaspettatamente, si mosse verso di me. Sobbalzai e arretrai verso il muro, coprendomi appena il volto con le lunghe e sottili treccine che mi scendevano dai corti capelli nocciola, all'altezza delle tempie, cingendomi i lati del viso. Imbarazzato e impaurito allo stesso tempo, non fiatai nemmeno. Ma lui allungò una mano diafana verso di me e mi sfiorò la nuca. Quando sentii il suo tocco freddo posarsi su una ciocca dei miei capelli, un brivido mi corse lungo la schiena. Dopo, la sua mano si ritrasse. Strofinò due dita fra loro, come se stesse tastando qualcosa di interessante e, dopo lunghi attimi di silenzio, parlò.
«Sangue.» Era la stessa voce limpida che mi aveva risvegliato dalla morte. Rialzò lo sguardo su di me, ed io mi sentii inchiodato dai quegli occhi verde acido, tanto da non riuscire a muovermi. «C'era del sangue sui tuoi capelli.» disse, senza scomporsi minimamente.
Poi si voltò e iniziò a seguire il messaggero, che era già lontano di parecchi metri e non si era girato neppure un attimo per assicurarsi che lo seguissimo. Solo allora mi accorsi di aver trattenuto il fiato per tutto il tempo e, riprendendo a respirare, lo seguii in silenzio.
***
La stanza in cui eravamo stati scortati si chiamava Sala delle Strategie. Non era molto grande, ma di certo non c'erano troppi limiti allo sfarzo del palazzo di Akra: i muri di marmo, il mobilio in scuro legno di mogano, le tende di velluto rosso, la luce soffusa proveniente dal grande lampadario di ferro battuto. Il sole entrava appena dalle piccole finestre strombate, mescolandosi alle fiammelle tremolanti delle candele rosse diffuse un po' ovunque. Al centro della sala, su un tavolo finemente decorato da arzigogolati intagli, si stagliava una scacchiera ed un'enorme mappa dei regni.
Ai lati del tavolo, due figure, una di fronte all'altra, si scrutavano intensamente, senza però spiccicare parola. Il primo mi fu riconoscibile dal modo di vestire e dalle numerose spille che sbandieravano lo stemma del suo regno: il principe di Gilerines. Era un tipetto dal viso grazioso e dall'aria serena, con i capelli fra il biondo e il rossiccio, fulvi come il pelo di un gatto, e due spaventosi occhi grigi. L'altro invece, intuii fosse il cavaliere che aveva vinto la gara del re: una fasciatura, da cui spuntavano gli scompigliati capelli corvini, gli cingeva il capo. Continuava a fissare con quei suoi occhi arancio fuoco il principe, ostentando una sfacciata insistenza, come a volerlo sfidare a fare qualcosa che solo loro sapevano.
«Il re arriverà a breve.» esclamò il messaggero, scomparendo dalla sala per abbandonarci lì. Prima ancora di fare un passo, il principe voltò lo sguardo verso di noi e scattò in piedi, quasi ci considerasse la sua salvezza dagli sguardi del cavaliere corvino. Si avviò a grandi passi verso di me e mi prese la mano, con un sorriso smagliante sul volto.
«Sono Francis Levou, principe di Gilerines.» E strinse la mano anche al biondo al mio fianco. «Sono lieto di fare la vostra ammirabile conoscenza.» Sembrava trasudare allegria e paroloni complicati da tutti i pori, ma il suo sorriso tradiva una nota di preoccupazione. Era comprensibile, se si considerava che l'obiettivo della missione altro non era che la sua promessa sposa.
«Sono André Sion, l'erborista di corte.» rispose il biondo con un lieve cenno del capo verso il principe. Per un attimo mi chiesi se non avessi sentito male e, quando capii invece che le mie orecchie funzionavano correttamente, realizzai che l'uomo che aveva creato i composti e le basi di tutte le mie pozioni non era altri che lui: l'erborista. Nel petto mi salì l'irrefrenabile voglia di avvicinarmi a lui per dirgli: è con me che collabori sempre, è per me che crei i tuoi lavori! Ma rimasi in silenzio, a pensare quanto potesse essere interessante la punta della mia scarpa sinistra.
All'improvviso, la porta si spalancò e fece il suo ingresso il re di Akra: un uomo dall'aspetto decisamente meno regale del previsto, avrei osato dire quasi banale, con i capelli ingrigiti e delle grandi rughe che lo facevano sembrare di venti anni più vecchio. La sua guardia personale richiuse la porta e lui, senza tante cerimonie, ci fece cenno di sedere.
Inaspettatamente, il primo a cui si rivolse fui proprio io.
«E' un sollievo sapere che hai accettato di unirti alla missione, Rhod Hywel. Sono sicuro che sarai di fondamentale importanza per il successo di quest'impresa.» disse, con un sorriso tirato. Non sembrava affatto un re: solo un comune padre che voleva rivedere sua figlia. Cercai di scacciare la spiacevole sensazione della gola secca e della bocca impastata, e formulai correttamente la frase nella mente tre volte, prima di dirla ad alta voce.
«Non potevo rifiutare una richiesta dal m-mio...» Mi si bloccarono le parole in gola. Mi schiarii la voce, dopo aver preso un grosso respiro. «... Sovrano.» conclusi. Parlare di fronte ad altre persone mi innervosiva, figuriamoci davanti ad un re e ad un principe. O davanti all'erborista, che mi fissava con fare assorto e al contempo distratto. O al cavaliere, che sembrava prendersi silenziosamente gioco di me.
Il re annuì, per nulla turbato dal mio comportamento tentennante ma, quando spostò lo sguardo sul corvino dal capo fasciato, i suoi occhi si assottigliarono in un'espressione guardinga. In quel momento sembrava molto di più un re autorevole, rispetto a qualche momento fa.
«Una gara avvincente.» iniziò, sorridendogli. Doveva essere un sorriso cortese, ma assomigliava più ad una smorfia che celava una nota di minaccia. «Signor Abelarde... non ci siamo forse già incontrati?»
Il cavaliere inclinò la testa, in un modo che mi ricordò un serpente a sonagli prima di attaccare, poi un ghigno affiorò sulle labbra carnose. Schioccò la lingua.
«Vi sembra che possa avere un nome tanto orrido?» Una bassa risata. «Mi sono iscritto alla gara con un nome falso.» rivelò, senza tante cerimonie. Anzi, sembrava piuttosto compiaciuto dalla situazione. «E poi sì, vi ho già incontrato in passato, sire.» Si raddrizzò dalla posizione stravaccata in cui era rimasto fino ad allora e appoggiò i gomiti al tavolo di mogano. «Vi ricordate quel giovane mercenario che avete esiliato?» Strinse gli occhi. Sembrava arrabbiato, ma c'era anche qualcos'altro.
«Cyran Rouge.» Il re sputò quelle due parole come se fossero veleno. «Come osi» sottolineò «ritornare qui dopo quello che hai fatto?!» Sbatté un pugno sul tavolo e alcuni pezzi della scacchiera caddero di lato. La guardia personale del re rimase ferma, ma fissò la scena con circospezione e sembrò pronta a scattare come una molla.
Al contrario suo, l'erborista osservava la situazione facendo guizzare gli occhi dal falso cavaliere al re, con una faccia del tutto annoiata. Il principe Francis invece, aveva gli occhi strabuzzati, colmi di malcelato stupore ed evidente perplessità. Dal canto mio, mi limitai a sprofondare un po' di più nella sedia, desiderando di essere da qualsiasi altra parte che non fosse lì, con due tizi potenzialmente pericolosi e troppe spade nelle vicinanze.
«Oh, sire, non siate irragionevole! Ho vinto la gara, non vi basta?» Un altro sorriso provocatorio. Era a dir poco irrispettoso, ma nessuno ebbe il coraggio di zittirlo. Io non ci pensavo nemmeno. «Nel bene o nel male, voi avete un grande bisogno di me.» E si passò una mano fra i capelli, dimenticandosi di avere una fasciatura a domarli.
Il re non disse nulla, ma gli rivolse uno sguardo torvo. Tuttavia, Cyran Rouge non pareva affatto preoccupato, anzi, il suo sorriso si ampliava sempre di più. E sebbene il volto del sovrano paresse un intrico di rabbia e sgomento, chiuse gli occhi e prese un respiro, e le rughe sul viso si distesero.
«Bene.» disse, il tono di voce di nuovo calmo. «Giunti a questo punto, direi di illustrarvi il risultato delle ricerche condotte fino ad ora.» Si sporse verso l'enorme mappa, che ricopriva quasi tutta la superficie del tavolo. La sua guardia spostò la scacchiera e si fece più vicina. «I miei uomini hanno setacciato tutto il Continente Meridionale senza alcun risultato.» Indicò gli ampi territori del meridione, grandi macchie di colore, alcune frastagliate ed altre perfino rotonde. «Si sono spinti fuori dall'Oceano Cristallino» Il dito ingioiellato del sovrano iniziò un percorso dalla scritta Oceano Cristallino e si fermò davanti ad una grande porzione di terra verde. «e hanno raggiunto il Continente Magico. Hanno cercato a lungo nei suoi regni, soffermandosi specialmente nella capitale. Ma la ricerca non ha prodotto alcun risultato.»
Il re doveva essere davvero disperato se aveva inviato le sue guardie fino al Continente Magico. Quei territori erano davvero molto lontani dal Continente Meridionale e il solo sentirne parlare faceva sorgere la paura della guerra, che imperversava in quelle zone. Si diceva che il re di quel territorio conducesse una violenta espansione e che non si fermasse davanti a nulla e a nessuno.
«Ora capisco perché avete bisogno di noi.» Il mercenario sorrise, con un luccichio divertito negli occhi. «I territori che rimangono... C'è la zona sud del continente, quella piena di piccoli regni e di villaggi. Ma quel che davvero è importante è il Continente Sconosciuto. Non è così?» Ridacchiò piano. «Non mandereste mai i vostri uomini nei famigerati regni del Caos che si trovano dentro di esso.» Il mio stomaco si rivoltò.
Il Continente Sconosciuto alias i Regni del Caos. Se c'era un posto perfetto dove intrappolare una principessa, disseminando la sua prigione di mostri e trappole, quello era il Continente Sconosciuto. Un posto popolato dall'oscurità, da creature mai viste, da mostri di ogni genere, o anche anarchici che avevano deciso di condurre una vita al limite dell'umano. Quelli erano i Regni del Caos. Nessuno osava nemmeno parlarne. A quanto pareva, noi eravamo molto meno avventurieri, e molto più agnellini da macello.
«Sì, il Continente Sconosciuto è la vostra meta principale. Sospettiamo che Sua Altezza si trovi proprio lì.» intervenne la guardia del re, un uomo dalla stazza mastodontica e dal viso tanto brutto da pensare si fosse schiantato contro un muro. «Ed è qui che entrate in scena voi.» E mi guardò negli occhi. All'inizio pensai che quel "voi" si riferisse al gruppo che aveva formato il re. Invece fissava proprio me, esattamente i miei occhi blu.
«I..io?» Mi indicai con un dito. Sperai che si trattasse di uno scherzo.
«I maghi sanno individuare le persone, o mi sbaglio?» esclamò il principe, sbattendo gli occhi grigi.
«N-non proprio... i-indivi..Individuare le persone. Più... se-seguire delle t-tracce.» specificai, nel mio modo un po' contorto di pronunciare le parole.
«Come i cani?» domandò il mercenario, il sorrisetto derisorio sulle labbra. Abbassai lo sguardo sulle scarpe, imbarazzato, e così non riuscii a godermi a pieno l'occhiataccia che l'erborista gli rivolse.
«Va' avanti.» disse lui. Mi schiarii la voce, implorando me stesso di riuscire a mettere in fila un discorso senza bloccarmi per boccheggiare come un pesce fuor d'acqua. Tutti pendevano dalle mie labbra.
«Ho bisogno di un oggetto, qualcosa che appartiene a Sua Altezza. In quel modo posso seguire una sorta di percorso.» spiegai, senza balbettare un attimo. Quando parlavo di magia, riuscivo a sentirmi forte, sicuro, perché era qualcosa che mi apparteneva sin dalla nascita, qualcosa che mi circolava nel sangue da sempre, che mi faceva sentire sereno. Dalla magia veniva la mia debolezza, ma anche la mia potenza.
«Qualcosa come questo?» chiese il principe, prendendo dalla tasca del farsetto un piccolo oggetto. Era un fermaglio dalla graziosa fattura, realizzato da mani abili: si trattava di una camelia di porcellana e vetro soffiato sui toni del rosa pallido e verde acqua.
Me lo porse ed io accolsi delicatamente il fermaglio fra le mani, con la paura di romperlo. «S-sì, proprio una cosa del genere.» Non appena le mie mani sfiorarono la superficie fredda della porcellana, un brivido mi percorse il corpo. Chiusi gli occhi, sentendo quella sensazione investirmi totalmente, con un giramento.
"Francis!" parlò la voce di una ragazza, ma era soltanto una eco sfocata nella mia testa. "Vorrei dartelo, così potrai sempre sapere che i miei pensieri sono rivolti a te." Le parole si sovrapponevano come pezzi di un puzzle, frammenti di ricordi si ricostruivano nella mia mente. Poi, un filo invisibile, come la scia di un profumo appena percettibile, si alzò dal pavimento. Riuscivo quasi a vederlo, palpabile come un nastro di luce.
Trovala.
Scandii quel comando a chiare lettere nella mia mente, senza sapere a chi lo stessi rivolgendo. Forse a me stesso, forse al potere che si annidava dentro di me. E allora, quel filo invisibile per gli altri, ma sempre più chiaro per me, iniziò a pulsare e a dirigersi verso la porta, pronto a guidarmi verso un percorso. Verso un viaggio che si sarebbe rivelato lungo e fitto di insidie.
Sorrisi e strinsi con più sicurezza il fermaglio. «La troveremo, Sire.» dissi, e ne fui certo. Ma neanche sapevo che cosa avremmo passato per trovarla.
Nessuno ne aveva la minima idea.
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