37. La ballata del Cavalier Idiota e del Cavalier Cuor di Pietra
☙ 𝙳𝚞𝚎 𝚖𝚎𝚜𝚒 𝚍𝚘𝚙𝚘 ❧
Cyran
Il fazzoletto di pizzo pruriginoso intorno al collo mi stava facendo dannare. Mi grattai nervosamente la gola, scegliendo alla fine di perdere il conflitto e lasciar vincere quello stupido pezzetto di stoffa. Me lo strappai dal resto del completo elegante e mi aprii la camicia di due bottoni. No, d'accordo, quattro bottoni, abbastanza per far ammirare al resto del mondo i miei stupefacenti pettorali scolpiti. Certe cose gli Dei le donavano per essere sfoggiate. Non farlo sarebbe stato sacrilego, vero?
Mi allisciai il farsetto verde smeraldo e con la coda dell'occhio notai che la graziosa serva mi stava roteando attorno per sistemarmi il merletto che sporgeva dai polsini. Avrei voluto strappare anche quello, comunque.
«Sicura che 'sta roba non è uguale a quella dei musicisti?» rimbrottai, memore dell'ultimo completo che l'alta società mi aveva costretto ad indossare. Anche quel farsetto era verde. Chissà se stavolta l'orchestra era vestita come me...
«Oh, non ne sono al corrente, Messer Rouge.» tubò la fanciulla, mentre mi accarezzava languidamente un bicipite. «Però, sapete, c'è ancora un po' di tempo prima dell'inizio della cerimonia...» propose, sbattendo le ciglia castane, mentre io distoglievo lo sguardo facendolo vagare all'interno della stanza.
«Nah.» fu tutta la mia risposta dopo una lunga pausa di silenzio e suspense, alzando le spalle. Un tempo non avrei rifiutato. Anzi, un tempo avrei chiamato stupido-coglione chiunque avesse rifiutato una simile offerta. Ma le cose erano diverse da un anno prima.
«Siete un rozzo! Un villano! Un idiota, proprio come dicono tutti!» strillò, prima di darsela a gambe, sbattendo violentemente la porta. Schioccai la lingua, incrociando le braccia.
«Ma guarda un po' questa...» borbottai, ravvivando la mia chioma, all'indietro sul capo, con una manata svogliata, prima di tornare a rimirarmi nello specchio. Lo sapevo pure io che ero un idiota: volevo terribilmente riuscire a farmi una bella sveltina, davvero, perché sarebbe stato tutto molto più facile. «Che cazzo, lo so anche io!» sbottai, fissandomi negli occhi, prima di distogliere lo sguardo.
Erano passati due mesi da quel giorno. Due mesi da quando avevamo perso Rhod, due mesi da quando avevamo salvato la principessa. Due mesi da quando non ero riuscito ad avere più una conversazione decente con Francis. Ormai non esisteva più nessun gruppo di avventurieri, uniti da una missione di salvataggio estremamente pericolosa: Abracadabra era sicuramente morto, Francis era immerso nel suo ruolo da perfetto futuro maritino e André... Meglio non soffermarsi su questo punto.
Il ritorno ad Akra era stato più tranquillo del previsto: avevamo navigato velocemente per le acque infestate nel Triangolo delle Bermuda, io avevo bruciato due o tre draghi marini; quando l'Oceano era tornato sicuro, un marinaio aveva catturato un volatile e passato giorni ad addestrarlo perché portasse un messaggio a destinazione. La comunicazione confermava la buona riuscita della missione.
A quel punto, un'intera flotta della marina reale ci aveva accolti e accompagnati fino al porto di Wicarema. Era stato un breve punto di ristoro, ma necessario perché facessimo un rapporto completo di ogni dettaglio della nostra avventura al sovrano di Akra, a capo della flotta. Ci eravamo accordati tutti, principessa compresa, di non dire nulla né sulla natura della principessa, né sul coinvolgimento di Rhod nella vicenda. Non era giusto che fosse ricordato come un colpevole. Lui si era sacrificato per noi: era un eroe.
Ovviamente, Francis mantenne il segreto sulla nostra "relazione", di cui anche la principessa era all'oscuro. E io non potei far altro che assecondarlo. André, invece, a malapena aveva parlato... Di qualsiasi cosa.
Dopodiché, la tappa era diventata Minartias: con l'intera delegazione di Akra al seguito, arrivare senza intoppi era stato un gioco da ragazzi. Il che era ridicolo, viste tutte le disavventure che io e i miei compagni avevamo dovuto affrontare in quel viaggio.
Ci erano voluti quasi due mesi, fra il viaggio navale e quello via terra. Eravamo arrivati nella capitale solo da cinque giorni. Minartias ci aveva accolto con un'intera parata e una folla in festa. Coriandoli, striscioni, fiori lanciati e fuochi d'artificio: eravamo diventati delle autentiche celebrità. Ben presto, avrebbero scritto la nostra storia in prosa e in versi, avrebbero cantato le nostre avventure e fatto circolare quei racconti con un titolo tipo "Per Arrivare a Lei - storia del salvataggio di Aeline di Akra".
Ed era veramente ciò che volevo. La gloria che cercavo. Ma allora perché non mi sentivo un vincitore?
Aprii le braccia davanti allo specchio, atteggiando le labbra in un sorriso seducente. «Sei un eroe, gran gnocco che non sei altro!» ghignai in maniera grottesca, indicando la mia immagine. Pochi secondi dopo sbuffai, ficcandomi le mani nelle tasche. «No, sei un coglione.» brontolai, andandomi a sedere sul bordo del letto sfarzoso, come l'intera stanza che mi circondava.
Non riuscivo a smettere di pensare a Francis. A dirla tutta, non mi andava giù il fatto che il distacco fosse stato così terribilmente netto. Non una parola d'addio, non un gesto, non uno sguardo. Dopo quel giorno, in cui avevo accompagnato André sotto coperta e lo avevo aiutato con la Lingua di Drago, il principino aveva smesso di essere "Francis" ed era diventato "Francis&Aeline", tipo una cosa sola ed inseparabile, come la resina collosa. Una cosa davvero schifosa da vedere.
Ogni volta che provavo ad approcciarlo, era sempre impegnato in altro. Sembrava che facesse di tutto per non rimanere mai da solo e mi evitava come la peste. Ad un certo punto, avevo perfino cercato di parlargli in presenza della principessa, ma lui mi aveva fissato con due serissimi occhi grigio metallo e aveva tagliato corto con "Ho da fare, Cyran!", allontanandosi.
Era diventato insopportabile. Non che non lo fosse già da prima, ma non era più "insopportabile" in quel modo che mi piaceva tanto. Era come se all'improvviso fosse diventato quel futuro re che era destinato ad essere e si fosse dimenticato di quello che eravamo noi. Un po' come me ne ero dimenticato io sul Dirigibile d'Argento.
Il destino era proprio bastardo!
Quanto alla principessa... Era una cosina veramente irritante, per quanto fosse perfetta. Era proprio quello il punto: pareva che lei e Francis fossero destinati a stare insieme, come se gli Dei li avessero creati per andare in coppia. Si vedeva che ce la stava mettendo tutta per superare il suo trauma e il principino le stava vicino per aiutarla ad andare avanti. Intanto, si impegnava per trattare tutti con garbo, gentilezza e misericordia.
Era una di quelle ragazze che ti facevano venire una voglia matta di tirare loro le trecce. Non la sopportavo proprio, anche perché era praticamente immune al mio fascino. Avrei mentito nel dire che non avevo cercato di sedurla, col mero scopo di allontanarla da Francis. Ovviamente non aveva funzionato. Quella maledetta aveva occhi solo per il mio principino.
Due battiti contro la porta, secchi e precisi, mi distolsero dai miei pensieri. «Siete pronto, Messer Rouge?»
«Voi che ne dite?» esclamai, girando la maniglia per trovarmi faccia a faccia con un trio di guardie reali, a cui ammiccai come un paraculo, con un paio di alzate delle sopracciglia. Gli uomini mi guardarono senza scomporsi di una virgola, anche quando si soffermarono sul colletto strappato.
«Prendete le vostre cose. E' ora.» mi avvertirono. Mi limitai ad infilare i soliti vecchi stivali - non commentarono nemmeno su quello - e poi uscii dalla stanza, scortato da loro. Notai un gruppo speculare al mio, con tre guardie e un ospite, che ci precedeva, venendo dalla lussuosa stanza accanto alla mia. Fra le tre figure scorsi spalle larghe, un farsetto di seta bianca e una coda bassa e dorata che dondolava fra le scapole.
«André!» esclamai, alzando la voce per farmi sentire. Ero quasi convinto che fosse un miraggio. Non lo vedevo da una settimana, al punto che ero convinto avesse lasciato il palazzo, invece era ancora lì. Perfino durante il viaggio era stato come non averlo vicino: non parlava, non si muoveva granché, a volte pensavo che non respirasse.
L'uomo, che stava camminando insieme alle guardie lungo il corridoio, frenò il passo. Non si voltò subito, tant'è che a chiunque altro sarebbe venuto il dubbio di essersi confusi. Ma io sapevo che fosse il fioraio. Si voltò a guardarmi da sopra una spalla, puntando un occhio verde scintillante su di me. Sì, adesso vedeva. E non solo quello.
André Sion era rifiorito. La pelle aveva perso quel pallore da cadavere ed aveva assunto un piacevole colorito sano. Le cicatrici erano scomparse. Le dita mancanti gli erano ricresciute. Il colore dei suoi occhi, dei suoi capelli e dei suoi denti si era rinvigorito, quasi splendesse. Si era persino irrobustito: il fisico da spilungone allampanato vantava spalle e braccia muscolose. Non certo come le mie, ma in un modo comunque notevole rispetto a com'era prima.
Sia donne che uomini sembravano improvvisamente consapevoli della sua presenza, al punto che, forse, avrei dovuto iniziare a preoccuparmi e a valutarlo come un potenziale avversario. Non che fosse realmente un problema: né a me, né a lui importava rimorchiare. Un gran spreco, nel caso di entrambi. In due, in una taverna, avremmo fatto strage di cuori.
L'erbacoso si limitò a mandarmi un brevissimo cenno del capo. Non importava che fosse completamente risanato. C'era qualcosa di ben peggiore in lui, rispetto a prima: nei suoi occhi e sulla sua faccia aleggiava una vacuità talmente gigantesca che dava l'impressione di non avere l'anima. Era vuoto. E privo di espressione, molto peggio di quanto fosse mai stato. Sembrava una statua o un manichino capace di muoversi, quasi mi faceva impressione.
«Bah.» brontolai, lasciandolo andare e camminandogli dietro insieme al mio gruppo di guardie. Man mano che ci avvicinavamo, il chiasso e il concitato chiacchiericcio aumentavano di livello. Oggi era un grande giorni per "i tre eroi di Akra", come ci avevano rinominato. Poi, le porte della sala del trono si spalacarono davanti ai nostri occhi.
Un lunghissimo tappeto rosso era srotolato lungo la sala e collegava l'ingresso fino al solenne scranno di pietra. Ai rispettivi lati, una folla spaventosamente gigantesca si accalcava riempiendo la stanza fino a scoppiare. Erano membri della corte, nobili, borghesi e anche membri eletti della capitale, come facoltosi mercanti, influenti teatranti o famosi bardi. Centinaia di occhi si posarono su di noi ed io mi impettii come un gallo, mentre il mio sguardo cercava una sola persona in tutta quella ressa.
Uno squillo di trombe spacca-timpani ci annunciò. «MESSEEER ROUGE E MESSEEEER SION!»
Sfilammo lungo il tappeto rosso. Con la coda dell'occhio, mentre cercavo Francis, colsi sorrisini lascivi, sguardi d'intesa, baci volanti. Qualcuno ci lanciò dei fiori addosso e io aprii le labbra in un sorriso smagliante. Ma dove diavolo era il principino?
Ci fermammo a pochi metri dal trono, io e André affianco, sei guardie erette come un muro fra noi e il re, in attesa. Allontanai gli occhi dalla folla e guardai il vecchiaccio lì seduto, che ci aspettava. E accanto a lui... Lo vidi.
Francis Levou era stupendo. Non che non lo fosse anche prima, ma durante il nostro viaggio avevamo poche occasioni di lavarci a fondo, indossare degli abiti puliti e stirati e ricevere anche la messa in piega. I suoi capelli erano morbidi e gonfi come riccioli di caramello fuso, le sue guance erano punte da un pizzico di colore che rendeva vivace il suo volto da eterno bambino innocente.
Eppure, la giacca d'argento, a doppiopetto, con le rigide spalline dorate e diverse spille lucidate all'altezza del cuore, gli dava un'aura austera. Il fioretto che pendeva al suo fianco, tutte le fibbie lucidate, l'espressione solenne e un cerchio d'oro intorno alla fronte, completavano un quadro capace di renderlo un perfetto principe ereditario, un meraviglioso futuro re.
Al suo fianco, con un delicato braccio infilato nella piega del suo gomito, c'era la principessa. I lunghi capelli fra l'azzurro marino e il verde acqua erano acconciati in una treccia laterale, intrecciata con fiori rosa. Una coroncina a fiori d'argento e cristallo le cingeva il capo ed indossava anche lei un abito coordinato a quello di Francis: eccola là, la fantastica, melensa-fino-al-disgusto, coppia reale.
Guardami, sibilai nella mia testa. Guardami. Ma lui non lo fece nemmeno una volta. Mentre io lo scrutavo con un'intensità tale da potergli scavare un buco nel petto, il re attaccò col suo noiosissimo discorsetto su quanto amasse sua figlia, su quanto fosse stato doloroso e difficile per lui averla persa per tutti quegli anni e su quanto fosse stato fortunato ad averla riabbracciata. Due palle infinite, insomma.
«Ed è stato solo grazie a questi tre uomini. Tre eroi, con abilità diverse ma un'assoluta capacità di collaborazione. Tre persone sensazionali, capaci di sfidare l'impossibile e arrivare nella terra dove mai nessuno si sarebbe inoltrato. Hanno affrontato avversità oltre ogni dire e superato innominabili incubi, riuscendo in un'impresa che mai nessuno avrebbe creduto possibile. Uno di loro, per rendere possibile il ricongiungimento di un'amata figlia con la sua famiglia, si è sacrificato per la causa. Il suo nome era Rhoderick Hywel ed era il mago più promettente dell'intera corte di Minartias.» Una profonda pausa seguì le sue parole. «Vorrei che osserviate un minuto di silenzio in suo onore.»
Così fecero tutti e il silenzio si fece assordante come un grido. Feci scattare gli occhi su André, ma lui continuava a guardare fisso davanti a sé. Immoto ed immobile, impassibile. Sapevo che Rhod era già stato omaggiato, insieme a tutti coloro che avevano perso la vita durante il viaggio - tipo la maggior parte dei marinai di Wicarema -, perché il suo nome era stato scolpito su un monumento nella piazza principale di Minartias. Indelebile. Ma durante quella cerimonia, il riconoscimento della sua morte fu ufficiale e mi fece inaspettatamente male.
Rhod era un amico. Avevamo avuto i nostri piccoli litigi, ma ci eravamo aiutati molte volte a vicenda. Lui mi aveva insegnato come controllare le mie fiamme e mi aveva salvato la vita molte volte. Il fatto che non fossi riuscito a dare fuoco a quel demone e che avessi lasciato nella Fortezza il maghetto, da solo, era una sconfitta personale. Ce l'avevo a morte con il mio creatore per non aver alzato un dito in merito. Ero così incazzato.
E non osavo immaginare, oltre quella faccia vacua, come dovesse sentirsi André. Almeno il mio Francis era ancora vivo. Certo che eravamo proprio dei grandissimi sfigati.
Senza che me ne accorgessi, il Re aveva ricominciato a parlare. «... Principe Francis Levou di Gilerines, promesso sposo di mia figlia e futuro re di Akra, per il potere conferitomi dalla corona, ti consegno la medaglia al valore militare, a dimostrazione del tuo coraggio, della tua tenacia e della tua astuzia.»
Il principino si piegò in un profondo inchino, rialzandosi così che il vecchio sovrano potesse appuntargli la spilla al petto, in cima alle altre che la giacca sfoggiava. Dunque, il fanciullo dagli occhi-belli tornò al suo posto, vicino alla sua promessa consorte.
Le sei guardie, poste dinanzi a noi, avanzarono fino ad aprirsi a ventaglio, rivolgendoci sguardi severi, cerimoniali. «Inginocchiatevi di fronte a Sua Maestà.» La pressione della situazione era troppo grande e l'atmosfera troppo importante per mettermi a fare il cretino. Mi inginocchiai ai piedi del trono e così fece André, con le teste chine, in attesa. Sentii il suono metallico della spada che veniva estratta dal fodero.
«André Sion di Patrow, erborista e guaritore di corte, per il potere conferitomi dalla corona, ti nomino...» la punta della spada toccò la spalla destra di André e poi la spalla sinistra. «... Cavaliere di Akra.» Poi passò a me. «Cyran Rouge di Oltreoceano, mercenario dell'esercito di Akra e regni confinanti, ti nomino...» avvertii il tocco della spada, prima che proseguisse «... Cavaliere di Akra. Adesso alzatevi e lasciate che la folla vi acclami.»
E così facemmo. Mentre mi sollevavo in piedi, sentii il Re sussurrarmi a bassa voce: «E stavolta, non dare fuoco a niente.» Poi il rombo degli applausi e delle grida di giubilo sovrastò ogni altra cosa. Mi voltai a guardare la folla, aspettando di sentire il fremito di trionfo riempirmi l'anima.
"Sei un eroe!" era proprio quello che aspettavo di sentirmi dire, quando mi ero iscritto alla selezione per i valorosi prescelti che avrebbero preso parte al salvataggio. Ci ero riuscito. Ero stato in grado di raggiungere l'obiettivo, perfino superarlo, visto che non immaginavo sarei stato nominato Cavaliere. Eppure, niente. La soddisfazione non arrivò.
Il fulcro delle celebrazioni, poco dopo, si spostò nella sfarzosa sala banchetti, che non era però quella a cui avevo dato fuoco quasi un anno prima. L'enorme tavolata imbandita era ad U e al suo centro, su due grandi troni, sedevano i sovrani. La regina, con una complicata acconciatura fatta di ciocche azzurrine come quelle della figlia, teneva al fianco la principessa e le parlava in continuazione, con fare amorevole che sfiorava l'ossessivo. Francis invece era seduto al fianco del Re e parlavano tantissimo di finanze, imposte e una roba così noiosa che mi sarei cavato gli occhi con un cucchiaio.
Io, André e i più importanti funzionari di corte eravamo seduti di fronte a loro. Al centro della sala alcuni ospiti ballavano, mentre un esercito di bardi allietava la serata con canzoni allegre, ma con testi terribili, per lo più intessendo le lodi della principessa e cantando del presunto "amore" fra lei e il principe di Gilerines. Avrei spaccato sul loro minuscolo testino di gallina il loro liuto.
Intanto, camerieri sciamavano avanti ed indietro riempiendo i bicchieri di alcolici costosi - che una taverna se li sognava - e lasciando maestose pietanze. Quando un grasso, lucente e oleoso tacchino arrosto venne posato al centro della tavola, il sovrano si alzò in piedi, battendo la posata contro il bicchiere di cristallo. Fece segno ai menestrelli di fare silenzio e in breve tempo l'intero banchetto ebbe occhi solo per il Re.
Io avevo già staccato un cosciotto arrosto dal piatto di portata e lo tenevo sollevato per le mani, accingendomi a sbranarlo. La noia mi metteva fame. «Miei cari ospiti! Vi invito tutti a levare i calici in alto, per la notizia grandiosa che sto per comunicarvi!» Masticai lentamente, con la testa da un'altra parte. Che altro avrebbe fatto? Innalzato un tempio un onore della figlia? Dato una medaglia a tutte le bambine che sarebbero nate in quell'anno e si sarebbero chiamate col nome di Aeline?
«Aeline e Francis, miei cari, alzatevi in piedi.» Così fecero i due interpellati. «Ho preferito mantenere il silenzio per rispettare i caduti, ma adesso che stiamo ormai festeggiando il ritorno di mia figlia, sono lieto di annunciarvi che tutti i preparativi sono ultimati. Fra tre giorni, lei e il suo promesso convoleranno a nozze!»
Grida di gioia mi esplosero nelle orecchie, mentre il pezzo di tacchino mi andava di traverso. Tossii così forte che il pezzo volò dalla mia gola al mio bicchiere e io ed André fummo gli unici a non alzare i calici. Invece, sollevai gli occhi su Francis.
Fu solo allora che, dopo giorni che parvero interminabili, finalmente, i nostri occhi si trovarono dai due capi opposti del tavolo. Occhi grigio tempesta e arancio lava restarono a fissarsi, mentre quella frase "Fra tre giorni, lei e il suo promesso convolaranno a nozze" riecheggiava nella distanza che li separava. Mi aspettavo che il re si mettesse a ridere, dichiarando che fosse solo uno scherzo.
Invece, ero certo che quel vecchio volpone stesse pianificando il matrimonio da due mesi, sin da quando aveva saputo che la principessa era stata tratta in salvo. Maledetto a lui e a tutti quelli alla quale si accompagnava. Continuai a guardare Francis, aspettandomi che si tirasse indietro. Che dicesse la verità: che non amava quella melensa ragazzina e che amava me. Totalmente e perdutamente, come aveva già detto. Però non lo fece. Qualsiasi cosa si aspettasse, distolse lo sguardo.
Pochi istanti dopo, André si alzò in piedi. «Scusate, non mi sento molto bene. Mi congedo.» tagliò corto, con l'aria per nulla dispiaciuta o mortificata all'idea di piantare all'inizio della festa i sovrani, pur essendo l'ospite d'onore.
«Ma aspetta! Non hai nemmeno assaggiato il tacchino!» brontolai: mi abbandonava proprio quando avevo più bisogno di lui, dannato traditore. Sbuffai, ma nulla lo fermò, né i sovrani fecero una piega. Volevo urlare contro Francis e afferrarlo per le spalle, dicendogli che stava facendo la più grande cazzata della sua vita. Senza André, nulla mi avrebbe trattenuto.
Ma poi i bardi ricominciarono a suonare. «Stasera è la sera,
la grande storia degli eroi è arrivata e voi siete qui per festeggiarli,
ma credete davvero che basti omaggiarli?» iniziò a cantare uno di loro, strimpellando il suo liuto.
«Cyran lo chiamò il papà,
ma Cavalier Idiota è la sua vera identità!
Misterioso è il suo passato,
ma non chi si è passato!»
Scoppi di risa esplosero per la sala, mentre io affilavo gli occhi e posavo il mio cosciotto di tacchino sul piatto. Il bastardo stava cercando di provocarmi? O forse aveva finito le battutine idiote della serata e parlava di me perché ero l'unica persona interessante in sala? In ogni caso, sarebbe finito con la faccia sfondata con un pugno.
«E' certo che da Akra fu cacciato,
Con grande umiliazione, a calci in culo esiliato!
A colpi di cannone, la flotta alleata colpì,
A colpi di fianchi, la moglie del generale ghermì!»
Sentii qualche nobile borbottare ma molti altri ridere di gusto, mentre il Re sghignazzava contento e Francis si massaggiava la radice del naso fra indice e pollice. A quel punto, avrei dato fuoco a quel bastardo menestrello. Mi bastava un semplice battito di palpebre.
«Questa è la storia del Cavalier Idiota,
E fuori dalle taverne, anche a voi oggi è nota!
Grasse risate mi avete regalato,
Riserverò nuove sorprese per il vostro palato.»
Mi ero già alzato in piedi, non che sapessi quale nuove sorprese lo stronzo di un bardo avesse in serbo per gli ospiti. Io di certo non avevo molto di cui divertirmi, ma avrei riso anch'io quando lo avrei appeso per le mutande al lampadario.
«Vi racconterò la storia del Cavalier Cuor di Pietra,
Ma attenti: il debole di cuore su questi versi arretra!
Il suo nome è André Sion, fioraio di corte,
Baciato dalla malasorte!
Il papà cattivo lo prese con sé...»
La furia che mi travolse fu di un tipo completamente diverso rispetto al fastidio provato in precedenza, quando lo scemo cantore mi prendeva in giro coi suoi versi. Non aveva alcun diritto di parlare della vita e del passato di André. Pareva che, adesso che eravamo divenuti delle celebrità, fossero tutti affamati di dettagli di ogni tipo sulle nostre vite, a maggior ragione quelli scabrosi.
Ma col cazzo che avrei lasciato che quel pezzo di merda ne parlasse nella sua "ballata". Non c'era assolutamente niente di divertente. Abbandonai la tavolata senza dire una parola, gli strappai il liuto dalle mani e glielo sfondai in testa. Le corde saltarono, schiaffandogli due segni rossi sulla fronte, mentre lo strumento rotto gli restava appeso intorno alla gola come una collana.
«Piantala di raccontare cazzate sul mio amico, non ne hai il diritto!» ringhiai. «Tra l'altro, è un erborista! Solo io posso chiamarlo fioraio. Vaffanculo.» Fu una gloriosa uscita di scena: il bardo era così intontito, umiliato e scioccato che non disse una parola. Io, invece, uscii a testa alta dalla sala banchetti e me ne tornai in stanza.
Mi strappai il farsetto di dosso, scaraventandolo a terra, prima di lasciarmi andare sul letto, piegando le braccia dietro la mia testa per poi fissare il soffitto, più incazzato che mai. André non aveva più un'anima. Rhod era morto. Francis avrebbe sposato la principessa. E io ero rimasto solo. Che ne era del gruppo? Che ne era del "tutti per uno"?
Un deciso ticchettio di nocche contro i vetri della mia porta-finestra mi spinsero a drizzarmi dalle coperte. Non sapevo esattamente cosa aspettarmi, visto che il rumore veniva dal mio balcone, ma l'ultima cosa che mi aspettavo era di incrociare la faccia rossa e rugosa di Marshall-il-cantore, con i suoi rasta bionda e la sua statura bassa e tracagnotta.
«Figliolo caro!» cinguettò la divinità, con gli occhi che ardevano come fiamme anche attraverso l'illusoria maschera umana che indossava. «Sai, posso ancora incenerire tutti quelli che ti hanno deriso al banchetto. Mi basta uno schiocco di dita!»
«Ptf, non farai proprio niente del genere.» brontolai, incrociando le braccia. «E si può sapere perché mostri ancora quella brutta faccia?»
Il Dio si accarezzò i dreadlocks biondi con la punta delle dita. «Mi ci sono affezionato! E' stupendo vedere quanto i mortali diano importanza all'aspetto fisico. Nessuno presta attenzione a quello che faccio con questo aspetto mediocre, mi fa sentire... Mmhh... onnipotente.» sorrise, ironico, muovendosi nella stanza come se ne fosse il padrone.
«Ma se lo sei già!» esclamai, esasperato. «Che sei venuto a fare?! Non ti voglio vedere. Soprattutto non dopo che hai abbandonato il mio amico nei Regni del Caos.» sibilai, incalzando verso di lui. Velocemente, la sua figura si ingrandì a dismisura, fino a superarmi in altezza, raggiungendo i due metri e mezzo. Era mastodontico, mentre mi fissava con sussiego dall'alto in basso.
«Meno arroganza, Cyran. O dimentichi con chi stai parlando?» I suoi occhi lampeggiarono, mentre l'aria intorno a lui crepitò come prima di un temporale. Sembrava elettrica. Inghiottii a vuoto. «Vi avevo avvertito di non entrare nei Regni del Caos. Solo tu avresti potuto affrontarlo, ma sapevo che i tuoi amici, come li chiami, non ce l'avrebbero fatta. E questo avrebbe creato problemi fra noi.» Strinsi i denti davanti alla sua sufficienza. «In ogni caso, non ho mai promesso che avrei salvato quel mago.» Fece una lunga pausa. «Ma non ho neanche mai detto che l'avrei abbandonato.»
Mi drizzai dentro agli stivali. «Che cosa vuoi dire?»
«Ti sei divertito a sguazzare fra i mortali?» chiese, senza rispondere alla domanda. «Perché adesso non hanno più niente da offrirti. Quell'esserino che tanto ti piace si sposerà fra pochi giorni. Vuoi restare pateticamente a guardare?» Il mio creatore mi sorrise come una iena. «Ti meriti molto di più. E sai che ti aspetta un futuro glorioso.»
Di nuovo con questa storia. Alzai gli occhi al cielo. «Fra tre giorni, una nave salperà e lascerà Akra.» Fui davvero sorpreso - sorpreso e turbato - quando notai che quella specie di padre che avevo mi stava rivolgendo un compassionevole sorriso. «Torna a casa, Cyran. I giochi con i mortali sono finiti. Mi hai dimostrato di essere valido anche senza i miei insegnamenti.» Sospirò profondamente. «Torna a casa. Ti aspetterò.»
Con un ultimo crepitio di scintille, la divinità scomparve e il silenzio calò nella stanza. Lasciando dentro di me amarezza e comprensione. Aveva ragione. I giochi coi mortali erano finiti. Ma almeno, se avessi potuto dare solo un ultimo addio... Me ne sarei andato senza rimpianti.
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Francis
Aeline mi salutò con due baci sulle guance, a cui risposi con un gentile bacio sulla fronte, prima di svignarmela nelle mie stanze. A volte, la sua presenza diventava così asfissiante che non riuscivo a respirare. Ma non potevo nemmeno accettare di lasciarla da sola: dopo tutto quello che aveva passato, dirle che sposarla non era quello che volevo sarebbe stato orribile da parte mia.
Avevo passato due interi mesi a consolarla, standole vicino come meglio potevo. Gli amici non abbandonano così qualcuno, non ti lasciano nel momento del bisogno. Anche se era esattamente ciò che avevo fatto con André: sapevo che Rhod se ne era andato. Sapevo che era grazie a lui se avevamo raggiunto Akra sani e salvi. Nell'istante in cui aveva scelto di sacrificarsi per noi, l'avevo perdonato per quello che aveva fatto. Era stato lui ad evocare il demone, era lui la causa del rapimento di Aeline.
Eppure, Rhod ci aveva salvato tantissime volte la vita. E, alla fine, aveva pagato il prezzo più alto di tutti: stavolta, non sarebbe tornato da questa morte. Segretamente, quando Aeline si addormentava fra le mie braccia e io fissavo dall'oblò l'oceano, piangevo la perdita di quel caro amico. E la perdita di Cyran.
Il pensiero mi spezzò il fiato, come se qualcuno mi avesse tirato un pugno nello stomaco. Avevo tenuto duro per tutti questi giorni perché non mi ero concesso il lusso di pensarci. Ogni volta che lui si avvicinava, io mi allontanavo. Ogni volta che qualcuno mi parlava di lui io cambiavo argomento. Ogni volta che ci trovavamo nella stessa stanza facevo in modo che non fossimo vicini e che i nostri occhi non s'incrociassero mai.
Ma stasera avevo fallito. Sapevo già del matrimonio: era la prima cosa che il Re di Akra mi aveva comunicato quando ci aveva parlato in privato negli alloggi a Wicarema. Non c'era l'effetto sorpresa, durante il banchetto... Ma non ero riuscito a tenere i miei occhi lontani da Cyran. Non ero riuscito a non pensare a lui.
E questo perché, se lo avessi fatto - se avessi pensato a lui e lo avessi guardato - avrei sentito le zanne del pentimento lacerarmi l'anima. E sarebbe sembrato impossibile fare il mio dovere: non lasciare Aeline e sposarla per il suo bene e per il bene di Gilerines, la mia famiglia e il mio popolo. Era amicizia ed era politica. Non potevo agire diversamente, non importava quando amassi Cyran.
Sospirai, togliendomi la giacca elegante per piegarla ordinatamente su una poltrona, sotto cui sistemai gli stivali. Scalzo e in camicia leggera, girovagai per la lussuosa stanza che mi apparteneva da anni in quel palazzo, sin da quando ero stato ospite per la prima volta ed ero ancora un bambino. Non c'era tutto ciò che amavo, come a Gilerines, casa mia, ma c'erano molte cose che avevo apprezzato.
I servi avevano tenuto tutto in ordine ma, al tempo stesso, non avevano spostato niente. Mi accorsi che nello scaffale della libreria c'era ancora il volume sulla storia della Tavola Rotonda tirato in avanti, come se avessi appena finito di leggerlo. In quel periodo, erano appena iniziate le selezioni per unirsi al gruppo di salvataggio per la principessa. Ricordavo ancora quando, senza sapere il nome di Cyran, lo avevo chiamato Lancillotto Abbronzato. Bei tempi, quelli.
Sfilai il libro, sfogliandolo con un sorriso nostalgico. Avevo proprio ragione: lui era come Lancillotto, specialmente adesso che era diventato un Cavaliere. E, a ragion di logica, io ero come Ginevra. Avevamo avuto un amore clandestino che andava contro la corona. Com'è che finiva la loro storia? Alla fine scappavano insieme?
Sfogliai velocemente le pagine, sibilando un lamento fra le labbra. Alla fine, Lancillotto e Ginevra conducevano Artù alla morte e, sulla tomba del sovrano, si giuravano di non rivedersi mai più. Mentre lei si dedicava ad una vita di clausura, lui diventava un eremita. Molti anni dopo, quando Ginevra stava ormai per morire, Lancillotto fece di tutto per raggiungerla in tempo, così la donna pregò di spirare prima dell'arrivo di lui, solo per poter rispettare la promessa fatta al marito defunto. Così fu. Lei morì e i due amanti clandestini non si rividero mai.
Non sapevo se era più terribile questo finale, o la versione in cui Ginevra moriva giustiziata per tradimento e Lancillotto non arrivava in tempo a salvarla. Chissà se Aeline mi avrebbe fatto giustiziare per tradimento...
Qualcuno bussò alla porta e io fui grato a chiunque mi avesse appena salvato da quegli oscuri pensieri. Ero abbastanza sicuro che si trattasse di Aeline, che spesso veniva di notte per paura degli incubi. Poi però sentii due vocine femminili: «Shh, zitta! Rovinerai la sorpresa!»
«Ma io non ho detto niente! Sei tu che stai facendo chiasso!» disse l'altra, mentre io richiudevo il libro di scatto e sentivo le labbra tirare verso l'alto, in un sorriso raggiante.
«Mantenete la calma, principesse! Sono sicuro che vostro fratello sarà molto sorpreso di vedervi.» sussurrò una terza voce, maschile e adulta. Che mi parve stranamente familiare, ma non avrei saputo dire con precisione dove l'avessi già sentita.
«Sì, in effetti sono piacevolmente sorpreso!» esclamai, spalancando la porta. Mi chinai, ginocchia a terra e braccia spalancate: la reazione fu spontanea ed istintiva. Le due bambine si gettarono nel mio abbraccio, squittendo urletti di gioia. «Rosalinde! Clarisse!» Le strinsi a me, commuovendomi un po'. Una parte di me credeva che non le avrei mai più riviste. «Ma guarda come sei cresciuta!» esclamai, accarezzando le trecce della mia sorellina, la più piccola. «E tu, Rosalinde? Sei diventata una donna!» Aveva raggiunto i quattordici anni, quella ragazzina.
«Lo sono sempre stata!!» arrossì lei, lisciandosi le gonne rosa confetto, perfette con la sua lunga chioma color caramello.
«E voi siete...» Mi alzai in piedi, fronteggiando l'uomo che le aveva accompagnate. Fu allora che rimasi di sasso, davanti a quella bellezza occidentale. Il ragazzo, con la pelle resa dorata dal sole e i capelli color grano bruciato, quasi biondi, mi puntò con gli occhi nocciola chiazzati di verde. «... Axel?» Il ragazzo con cui avevo bevuto sul Dirigibile d'Argento, dopo che Cyran mi aveva piantato in asso per una nobildonna. L'uomo con la lettera di Gilerines, che piangeva per il suo amore perduto: Lyle, non mi ero dimenticato il suo nome.
«Francis?!» esclamò, sgranando gli occhi. «Siete voi il principe di Gilerines?» Stropicciai le labbra in un sorriso di conferma, ma anche divertito per l'assurdità del destino che ci faceva incontrare di nuovo. «Allora lasciate che mi presenti correttamente, questa volta.»
Si posò una mano sul cuore, inchinandosi. «Sono Axeldrion Gardner, il vostro nuovo scudiero.» Ecco il perché della lettera, immaginai. Lo stavano assumendo a corte: che sorpresa. «Mi sono offerto di accompagnare le vostre sorelle, insieme alla loro scorta, fino ad Akra. Non volevano aspettare il giorno del matrimonio per vedervi.»
«Esatto!» disse Rosalinde. «E' vero!» fece eco Clarisse. Axeldrion rise sommessamente.
«Ma entrate, non restate sulla porta, vi prego. Non mi aspettavo neanche che queste due piccole pesti fossero sveglie a quest'ora... Ma non dovrei sorprendermi.» sospirai e mi feci da parte. Offrii alle piccole i biscotti avanzati dalla colazione e lasciai che mi subissassero di domande, Rosa specialmente sul matrimonio, affamata di storie d'amore. Clarisse, la piccola e anche più perspicace, mi osservava invece corrucciata, come se non fosse convinta della cosa.
E lo faceva anche Axel: evidentemente si ricordava di come mi ero ubriacato e delle mie lacrime. Sapeva che c'era qualcosa di sbagliato in quel matrimonio, ma la posizione che aveva non gli consentiva di fare troppe domande. Solo quando le piccole si addormentarono sul mio letto, si azzardò a chiedere. «Scusate se mi permetto, ma... L'uomo del Dirigibile? Quello che guardavate dal bancone del bar?»
Strinsi le labbra e restai in silenzio. Forse no, non doveva permettersi. «Non fate il mio stesso errore, principe.» Alzai di scatto gli occhi su di lui. Il verde dentro alle iridi nocciola parve perdere un po' di colore. «Ho capito l'importanza di ciò che avevo solo quando l'ho perso.» Aprii la bocca, pronto a ribattere, ma senza argomentazioni. La richiusi e lui si alzò. «Porto le principesse a dormire. Le loro scorte sono qui fuori e si staranno chiedendo che fine abbiamo fatto.»
«Certo, certo.» esclamai, sentendo il cuore dolere mentre lo osservavo andar via, con Clarisse in braccio e Rosalinde per mano, che si stropicciava stanca gli occhi. Mi diede la buonanotte e poi chiusi la porta alle loro spalle. Ci appoggiai la schiena contro, coprendomi la faccia fra le mani. Non mi rendevano le cose più facili, così. Anche io sapevo il valore di Cyran... E lo avevo già perso.
Altri due battiti contro la porta, con decisione. Aprii svogliatamente, credendo che fosse nuovamente Axel, che forse aveva dimenticato di dirmi qualcosa. Mi pietrificai quando vidi, oltre la soglia, Cyran Rouge che mi fissava dritto negli occhi, determinato.
«Adesso basta.» tuonò, superando con un passo la porta, che si richiuse alle spalle prima di circondarmi la nuca fra le mani e attirarmi in un bacio disperato. Mi aggrappai con le dita alla casacca che indossava, cercando di sottrarmi a quelle labbra calde, roventi come il deserto in fiamme, non riuscendo del tutto a farlo. Mi si piegarono le ginocchia e lui mi prese prima che cadessi, sollevandomi fra le sue braccia e scaraventandomi sul letto.
«No, aspetta...» ansimai. «Non posso. Fermati, Cyran.» Sentii le sue labbra cercare di zittirmi di nuovo con un bacio che mi avrebbe mandato in pappa il cervello, ma spostai la faccia di lato. La sua bocca si spostò sulle guance, sulla mascella, sul collo. Un bacio dopo l'altro, la mia testa si stava offuscando. Gli infilai le mani fra i capelli un po' lunghi, cercando di spingerlo via da me. «No, Cyran... Per favore.»
Si tirò indietro di qualche centimetro per guardarmi. Il suo corpo mi sovrastava, ma aveva le braccia tese intorno a me, sul letto, in modo da non schiacciarmi col suo peso. Stupendi muscoli abbronzati mi circondavano, mentre occhi di lava mi puntavano con una tale intensità che avrebbe potuto darmi fuoco. «Sposala. Sposala pure.» esclamò, irrigidendo la mascella. «Fra tre giorni me ne andrò e non ti metterò mai più i bastoni fra le ruote.» Piegò le labbra in un sorriso sprezzante. «Sarai finalmente libero da me.»
Sentivo di avere la bocca aperta. «Dove...? Dove andrai?» Ero senza fiato. Del resto, che cosa mi aspettavo? Che sarebbe rimasto a Minartias a fare il Cavaliere, risolvendo scaramucce cittadine, mentre diventava l'amante segreto del nuovo re? Andarsene era la cosa migliore che potesse fare. Ma la sola idea di non rivederlo mai più mi fece venire voglia di urlare.
Scosse il capo. «Chi se ne frega. Non ha importanza dove andrò. L'importante è che non sarò qui.» Senza che lo volessi, i miei occhi si riempirono di lacrime. Aveva promesso che sarebbe rimasto per sempre con me, a proteggermi. Ma immaginavo che, dopo averlo evitato per due mesi e aver accettato di sposare una principessa, quelle parole avessero perso il loro significato. Eppure, soltanto gli Dei sapevano quanto l'idea mi devastasse.
Mi asciugò le lacrime con il pollice. «Perché ci stai facendo questo? Hai detto che mi amavi. E lo so che sono terribilmente in ritardo, insomma, sai che razza di cialtrone sono... Ma ti amo anche io.» Piansi ancora più copiosamente, sconvolto da quella rivelazione. Era la prima volta che lo diceva. «Ti amo tantissimo, principino. Non riesco proprio a dimenticarti... Perfino quando guardo la gonna di una donna mi torni in mente e non riesco a farci più nulla. Capisci? Sono fregato, praticamente nella merda!»
Mi sentii ridere, quasi non più padrone del mio corpo. «Molto romantico, Cyran...»
«Hai riso, però.» sussurrò, accarezzandomi la guancia bagnata con la sua, viso contro viso, fronte contro fronte, nasi a contatto, labbra vicine. «Sappiamo di amarci, allora perché non combattiamo per quello che abbiamo? Perché deve finire in questo modo? Odio i finali del cazzo!»
«Oh, Cyran...» ansimai. «Aeline ha passato l'inferno. Non posso farle anche questo, non posso tradirla e voltarle le spalle, non se lo merita. E poi, la mia famiglia pianifica l'alleanza fra Gilerines e Akra da quando sono in fasce. Sarebbe uno shock. Non posso e non voglio deludere nessuno...»
«Ma stai deludendo me.» disse, con lo sguardo che si incupiva. «E stai deludendo te stesso. Cazzo, per una volta tanto, sii più egoista.» Davanti al mio silenzio e allo sguardo di puro dolore che gli rivolsi, scosse la testa. «Non importa. Ti conosco... Quando credi che ci sia una cosa giusta da fare, la segui fino in fondo, anche se va contro i tuoi stessi interessi. Anche se significa sacrificare il nostro futuro.» Il nostro futuro. Ero senza fiato.
«Non sono venuto qui per dirti di lasciar perdere tutto. So che non ci riuscirei.» continuò. Abbassai gli occhi, colpevole. «Sono venuto per dirti addio... Lasciamo che questa sia la nostra ultima notte insieme. E poi sparirò per sempre dalla tua esistenza.» Mi strinse le guance fra le mani ruvide. «Ti prego.»
«Lasciamo che questa sia la nostra ultima notte.» ripetei, sfiorandogli la fronte per indirizzargli una lunga ciocca di capelli neri dietro l'orecchio. Dopo, non sprecammo altro tempo per parlare: avevamo paura che quella notte non durasse abbastanza. Non abbastanza lunga per baciarci, accarezzarci e stringerci a sufficienza.
L'ex-mercenario mi svestì in fretta e io lo liberai altrettanto velocemente da qualsiasi cosa lo coprisse, facendo scivolare le mani sui suoi muscoli gonfi e sulla pelle così calda. Le sue labbra esplorarono ogni centimetro del mio corpo, mentre mi inarcavo sotto la scia vorace di baci e di morsi che mi stava lasciando.
«Ahh!» ansimai, quando la sua bocca succhiò la pelle sensibile nell'interno delle mie cosce e le sue dita umide entrarono dentro di me, fino a toccare punti che mi fecero gridare di piacere. Soffocai ogni suono dietro ad una mano, temendo che qualcuno avrebbe potuto sentirci passando davanti alla mia porta, non importava che fosse notte fonda. Ma con la mano libera gli infilai le dita fra i capelli e strinsi.
Si raddrizzò, in modo da far combaciare la sua durezza contro di me. Gli avvolsi il bacino fra le cosce e lui si strinse su di me, pelle contro pelle, finché non ebbi l'impressione di potermelo cucire addosso. Strinsi le mani sulle sue scapole, affondando un po' le unghie per quanto mi tenessi forte, mentre Cyran entrava.
«Ah, Dei... E' così fantastico.» ansimò, arrivando fino in fondo, colmandomi del tutto. Arricciai le dita dei piedi, irrigidii i muscoli e trattenni il fiato. «Tu sei fantastico.» Poi iniziò a muoversi e con una mano accarezzò la mia erezione, aumentando le ondate di piacere che mi stavano facendo tremare fra le lenzuola.
«Cyran... Ti amo.» mugolai, tenendolo forte, mentre spingeva ed usciva, ancora e ancora, sempre più velocemente. Non ci fermammo quando raggiungemmo l'amplesso, limitandoci a cambiare posizione, tenendoci mano nella mano. Facemmo l'amore per le ore di buio che ci rimasero, con intensità disperata e un bisogno così forte che potevano consumarci ed incendiarci l'uno nelle mani dell'altro.
Ci arrendemmo solo con l'arrivo dell'alba. Caddi su un lato sopra al letto sfatto, ancora stretto fra le sue braccia, il corpo dolorante e stanco, ma anche molto appagato e soddisfatto. Era solo una questione fisica, però. La mia anima era lacera come uno straccio vecchio e il mio cuore era in frantumi. Restai con le gambe intrecciate alle sue, i corpi uniti, le sue mani strette sul mio corpo, a guardarlo addormentarsi pian piano con un sorriso fra le labbra.
Io dormicchiai poco e niente, e fui il primo a districarsi da quell'abbraccio. Mi rivestii in fretta, mentre il sole si alzava nel cielo. Ancora dormiva quando mi chinai su di lui per lasciargli l'ultimo bacio, sussurrando sulle sue labbra: «Addio, Cyran.»
❧❧
André
I garofani bianchi, nel linguaggio floreale, volevano dire amore eterno e fedele. Ne stringevo un mazzo nella destra mentre avanzavo verso la grande statua al centro della piazza principale di Minartias. C'erano gigantesche aiuole fiorite, fontane maestose e gradinate circolari che convogliavano, al loro centro, in una zona d'interesse dove si trovava il monumento.
Non aveva fattezze umane, era più una specie di statua astratta, che assomigliava ad una spada o un obelisco puntato verso il cielo. Una lunga lista di nomi era incisa nel marmo e, sopra tutti gli altri, campeggiava "Rhoderick Hywel". Uno dei famosi eroi di Akra. I cittadini avevano lasciato per tutti i caduti fiori e piccoli doni, come pupazzi di pezza e ninnoli di legno.
Io ci venivo ogni giorno, ma quando era ancora l'alba e il cielo buio lentamente si rischiarava: a mezzogiorno, di solito, la zona si riempiva talmente tanto da diventare impraticabile. Ma non oggi, visto che per mezzogiorno si sarebbe celebrato il matrimonio più importante dell'intero Continente Meridionale. Tre giorni erano passati più in fretta del previsto e la data tanto chiacchierata era giunta. Ma per me non cambiava nulla.
Lasciai il mazzo di fiori in cima agli altri, accarezzando lentamente la pietra fredda. «Mi manchi.» sussurrai, concedendomi di abbracciare il dolore soltanto quando nessuno poteva vedermi, nel silenzio più assoluto di un timido mattino che ancora non era cominciato. «Mi manchi, Rhod.»
Ma non era tanto la tristezza a fare male, quanto il vuoto che il maghetto aveva lasciato. Un vuoto immenso, grande quanto l'intero continente, eppure claustrofobico e asfissiante quanto essere chiusi, come un insetto, in una scatola di latta.
Il fatto che mi sentissi fisicamente così bene, per la prima volta da quando fossi in grado di ricordare, era ingiusto. Avrei preferito stare male dentro e fuori, invece ogni malessere mi aveva abbandonato. Respiravo bene, guardavo ancora meglio. E non c'erano più cicatrici a testimoniare tutto quello che avevo passato e subito quando ero piccolo.
Cyran doveva essersene ormai andato, come mi aveva annunciato la sera prima. Francis quella stessa mattina si sarebbe sposato. Ognuno avrebbe preso strade diverse, perché ormai l'avventura era finita. Ed era tempo che andassi avanti anche io, in qualche modo. Forse fu per questo che, una volta tornato dentro alla mia stanza, mi sporsi dal balcone.
Stringevo nella mano gli occhialetti tondi che appartenevano a Padre. Non me ne ero mai disfatto. Ma quella parte della mia vita era finita... Sì, dovevo andare avanti. Presi un profondo respiro e, caricando il colpo, lanciai gli occhiali fuori dal balcone. Volarono lontano e superarono alti cespugli del giardino, lontano abbastanza perché io ne perdessi la vista. Lontano perché li perdessi per sempre.
Libero.
Potevo ricominciare, anche se non sarei mai andato avanti per davvero, senza Rhod. Chiusi il balcone e mi sedetti sul ciglio del letto, fissando impassibile, atono e vuoto il cielo fuori dalla finestra. Il sapore della libertà sapeva di cose sterili ed inconsistenti. Sapeva di nulla.
Qualcuno bussò alla porta, un tocco delicato, appena percettibile. Immaginai che fossero i servitori, venuti a lasciare un completo per il matrimonio. Francis mi voleva come suo testimone, ma non sapevo se fossi in grado di adempiere a quel compito. Perciò, preferii non rispondere. Almeno, non subito. Bussarono di nuovo, due tocchi più forti, più decisi. La ragione tornò a farsi strada nella mia mente.
«Avanti.» dissi, senza particolari inflessioni, mentre la porta si apriva. Cigolò lentamente sui cardini.
«Mmh.» mormorò. Mi irrigidii sul letto. «P-p-pensavo d-di a-a-aver sba-sbagliato s-s-stanza...» Scattai in piedi e mi voltai, scioccato, con i brividi che mi correvano dalla testa ai piedi e il cuore che saltava a precipizio dal mio petto alla gola, restando lì, incastrato. «Ciao, André.» salutò Rhod, con un timido sorriso.
E io risi, un suono che ricordava il rumore di catene che, aperte dopo anni, cadevano a terra. Libero.
Finalmente, in quella maschera di imperturbabile vacuità che mi portavo addosso da sempre, si spalancò una crepa. E le emozioni fluirono violentemente fuori.
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