36. Uno per tutti
André
Nell'istante in cui il drago era caduto a terra, carbonizzato, il mondo era diventato buio.
La magia era fluita dentro di me come se fossi un semplice involucro: la potenza devastante delle fiamme magiche di Cyran e delle abilità di Rhod erano schiaccianti ed io ero diventato molto presto la zattera in mezzo alla loro tempesta. Eppure, era stato elettrizzante, come guardare il mondo dalla cresta di un'onda gigantesca.
Quando gli ultimi residui di adrenalina mi abbandonarono, lasciando il drago di radici tutto nero di carbone, fumante e definitivamente annientato, lo fui anche io. Annientato. Non vedevo più nulla. Ero diventato completamente, definitivamente cieco. Lacrime calde di sangue mi erano scivolate sulle guance e la consapevolezza di essere cieco si fuse allo strano sollievo di un lieto fine.
Francis aveva preso la Lingua di Drago. Tutto il tempo, negli ultimi quindici anni, a desiderare di conquistare quel fiore leggendario... E adesso non potevo neanche vederlo. Eppure, quando lo avevo preso nella mano, avevo percepito una sensazione di rassicurante calore. Salvezza. Avevo un futuro, adesso: un futuro insieme a Rhod, che era molto di più di quanto potessi osare sperare.
Era inevitabile promettere a Rhod che sarei resistito finché non fossimo tornati alla nave. Avrei assunto la pozione curativa creata con la Lingua di Drago e sarei sopravvissuto. Dopo, ovunque fossi andato, sarei stato libero dall'ombra di Padre, dalla sua fattoria, dai miei fratelli morti, da Sun, dalle fiamme, dal senso di colpa per essere un sopravvissuto, dal dolore fisico. Libero. Sarei stato libero ed insieme a Rhod, finalmente.
Perciò, anche se non potevo vedere niente del mondo che mi circondava, sistemai il fiore nel taschino della mia camicia sozza di fango, sangue e sudore e cercai con la mano le piccole dita del mago, che subito individuarono le mie, intrecciandosi fino a far combaciare i palmi.
Barcollai, rischiando di inciampare in tutto ciò che picchiava contro la punta del mio stivale, ma ogni volta mi raddrizzavo prima di cadere. Non osavo ammettere di essere diventato cieco: sapevo che, altrimenti, mi avrebbero lasciato fuori. E io non potevo lasciare che Rhod entrasse in quel mostruoso castello senza di me. Anche senza occhi, avrei cercato di essere di supporto, piuttosto che un intralcio.
«Una volta la p-p-principessa m-mi ha de-detto... Di non g-guardarlo negli o-o-occhi. Pe-perché è c-così che t-ti p-p-prende.» sentii balbettare Rhod, mentre superavamo l'ingresso del castello e io sentivo un netto cambiamento nell'aria. Nell'odore. Quel luogo puzzava di muffa stantia, di cose lasciate al chiuso a deperire, di marcescente.
La puzza che aveva la cantina della fattoria, dove Padre gettava alcuni dei cadaveri dei suoi bambini cattivi, dopo aver finito con i suoi esperimenti falliti. Mi fece venire i brividi fino in fondo alle ossa: aver perso la vista mi costringeva ad aggrapparmi a tutti gli altri sensi, che invece avrei preferito ignorare.
La porta di chiuse di botto, con violenza, alle nostre spalle. E io avrei davvero voluto chiedere che cosa ci fosse intorno a noi. Che cosa vedessero. Era debole, fiacco, spossato e infastidito dal fatto che fosse tutto buio, come se avessi semplicemente gli occhiali appannati. Ma non importava quanto mi strofinassi le palpebre. Non vedevo comunque nulla.
«Andiamo avanti... L'importante è restare uniti.» disse Francis. Per tutta risposta, strinsi con maggior saldezza le piccole dita di Rhod, che sparivano nella mia presa. Non avevo paura di nulla, anche se non potevo notare le minacce in arrivo: l'importante era che Rhod restasse insieme a me.
Eppure, quella stessa speranza venne spezzata quando udii prima di tutti gli altri un inquietante rumore di pietre che stridevano e si spostavano sul pavimento. Stava per accadere qualcosa di brutto. Spalancai le labbra, ma la mia voce si bloccò nell'istante in cui un'altra si sovrappose dentro alla mia testa, rimbombando fra le pareti del mio cranio.
Se ƞσƞ νʋσi cɦe qʋestɑ iɱpɾesɑ si tɾɑsʄσɾɱi iƞ ʋƞɑ tɾɑƍeɗiɑ, lɑsciɑ ɑƞɗɑɾe lɑ ɱɑƞσ ɗel ɱɑƍσ e sɑltɑ iƞ ɑνɑƞti, ɑɗessσ!
Prima ancora che potessi realmente decidere cosa fare, il mio corpo si mosse da solo: saltai in avanti. La mia mano si separò da quella di Rhod e nello stesso, preciso istante, una voragine si spalancò dove mi trovavo prima. Sentii lo schianto di un muro molto vicino a me: Francis gridò il nome di Cyran, da molto lontano, mentre i muri si plasmavano e le pietre si spostavano, intessendo un labirinto intorno a noi, o almeno così potevo supporre dai rumori e dai boati che riecheggiavano fra le pareti vuote. Cercai di tornare indietro, dove credevo fosse caduto Rhod, ma all'improvviso non seppi più orientarmi.
Qual era il nord? E quale il sud? Da che punto eravamo entrati? Era tutto buio e rumoroso e vuoto... E all'improvviso, uno dei miei piedi affondò nel vuoto, rischiando di farmi precipitare in avanti, in un fosso che non sapevo quanto fosse profondo. Da laggiù, molto più lontano, sentii riecheggiare la voce di Rhod, che diventava sempre più lontana: «ANDRÈ!»
Fui sul punto di accucciarmi sul bordo del fosso e lasciarmi andare, ma ancora una volta il mio corpo si bloccò contro il mio volere e quella voce familiare tornò ad invadere lo spazio privato all'interno dei miei pensieri. Era intensa, forte, autoritaria ed impositiva.
Ŋσƞ sɑltɑɾe. Desiɗeɾi cɦe i tʋσi ɑɱici νɑɗɑƞσ iƞcσƞtɾσ ɑ ɱσɾte ceɾtɑ?
Un altro brivido mi scosse dalla testa ai piedi. «Chi sei? Chi parla?!» Ma nell'istante in cui lo domandavo, sentendo la mia voce riecheggiare in maniera inquietante all'interno della Fortezza, capii chi fosse. Era la voce del musico, il finto mago, Marshall. Dell'uomo che aveva dato la vita a Cyran Rouge. La voce di un Dio, che mi parlava direttamente dentro alla testa. Lo shock fu in grado di ammutolirmi.
Tʋ νʋσi sɑlνɑɾe il ɱɑƍσ cɦe ɑɱi e iσ νσƍliσ cɦe tʋ sɑlνi lɑ ɱiɑ cɾeɑtʋɾɑ. E sei l'ʋƞicσ cɦe è iƞ ƍɾɑɗσ ɗi ʄɑɾlσ.
La sua creatura... Cyran, immaginavo. Mi rialzai velocemente in piedi, stando attento a non cadere nel vuoto, piuttosto incollando le spalle contro il muro, l'unica punto di riferimento nel buio, dettato dalla cecità, che mi circondava. «Io? Perché non tu? Sei un Dio, chi c'è meglio di te per affrontare il pericolo che ci aspetta?» Me ne infischiai delle formalità: che mi fulminassero per la mancanza di rispetto. Non lo meritavano. Gli Dei non avevano mai fatto niente di buono, per me. Avrebbero potuto sforzarsi loro, per una volta, di tirarci fuori dai guai.
Peɾcɦé ƞσƞ tʋtti ƍli Dei pσssσƞσ eƞtɾɑɾe ƞel teɾɾitσɾiσ ɗi ʋƞ ɗeɱσƞe. Deνi esseɾe tʋ ɑ sɑlνɑɾe lɑ sitʋɑziσƞe: ɦɑi peɾsσ lɑ νistɑ e, peɾ qʋestσ, il ɗeɱσƞe ƞσƞ pʋσ̀ cɑttʋɾɑɾti. Sɑɾσ̀ iσ i tʋσi σccɦi. Lɑsciɑti ƍʋiɗɑɾe ɗɑ ɱe.
Un demone. Sapere che eravamo finiti nel covo di una creatura così profondamente mostruosa e pericolosa, mi spinse a prendere pragmaticamente in mano la situazione. Non c'era tempo per esitare. «Dimmi che cosa devo fare.»
Peɾ pɾiɱɑ cσsɑ, ɗeνi sɑlνɑɾe lɑ pɾiƞcipessɑ.
❧❧
La torre in cui si trovava Aeline di Akra era altissima. Arrancavo sulla scala a chiocciola, i gradini che salivano in una spirale di pietra e che sembravano non finire mai: il Dio che mi parlava nella testa mi diceva che dovevo sbrigarmi, che quella era una lotta contro il tempo. Ma, uno scalino dopo l'altro, il fiato si spezzava, la testa girava e rischiavo di cadere all'indietro, rotolando per la gradinata come un sacco di patate.
Se qualcuno, un giorno, mi avesse detto che sarei finito per salvare la principessa del regno più famoso del Continente Meridionale, non ci avrei creduto. Per quanto ne sapevo a causa delle rivelazioni di Rhod, la fanciulla doveva essere morta, invece la divinità sosteneva che non fosse così e che, se non avessi preso la ragazza, Francis e Cyran non mi avrebbero mai seguito fuori da quel castello.
Bisognava andare per gradi. E bisognava sbrigarsi.
Sentivo il sangue pulsarmi dentro alle tempie, mentre con una spalla strisciavo lungo la parete a cono, tutta una curva che si arricciava su se stessa e saliva. Un piano dopo l'altro, verso la sommità della torre. Il sudore grondava e mi appiccicava i vestiti luridi alla pelle, il sangue mi colava dal naso e mi si seccava sulle labbra, lo stomaco si contraeva in continui spasmi che mi imploravano di inginocchiarmi a vomitare.
Ma tenni duro, finché il mio stivale non incontrò l'ultimo gradino e sentii, nello spostamento d'aria sulla mia faccia, che si era appena aperta una grande sala. Sotto alle mie scarpe sentivo qualcosa che scricchiolava, un rumore simile alle foglie secche che venivano calpestate, ma avevo la netta impressione che si trattasse di altro. Forse insetti. Forse ossa. Odore di marcio e di fiori - tanti, tantissimi fiori - mi stordì l'olfatto. «E' qui?»
Sì. Dσbbiɑɱσ sνeƍliɑɾlɑ. Ripeti qʋestɑ ʄσɾɱʋlɑ: ʋtʋɱɑt ɑl ƞɑɱ ʮɑ zɑqʮɑtsiɑ
«Utumat al nam ya zaqyatsia.» pronunciai ad alta voce quell'incomprensibile scioglilingua e il silenzio si tramutò in una serie di fruscii di stoffa. Un sospiro improvviso, come un'anima che torna dentro al corpo, come una persona quasi morta per annegamento che torna a respirare. Brancolai in quella direzione, con le braccia allungate in avanti come una mummia per il timore di scontrarmi con qualcosa. Qualcuno.
Un paio di mani piccole e sottili strinsero le mie. «T-tu... chi sei?» esordì una voce graffiante e secca, come se avesse urlato troppo, o non parlato per anni, di una ragazza. Non avevo idea di come fosse fatta, ma quel contatto di dita contro dita mi suggerì, con una profonda consapevolezza, che era la persona giusta.
«Voi siete la principessa di Akra.» sussurrai. «Pensavo foste morta. E' stata la formula magica? Vi ha... riportato in vita?» Esisteva una magia in grado di farlo? Insomma, Rhod moriva e tornava costantemente, ma in un certo senso era parte della sua maledizione. Non erano mai morti definitive. Eppure, quella che Rhod aveva descritto su Aeline era una dipartita definitiva, senza vie di ritorno... A meno che non si fosse sbagliato. A meno che i suoi non fossero solo sogni strani.
Ŋσƞ pʋσ̀ ɱσɾiɾe ciσ̀ cɦe è ƍiɑ̀ ɱσɾtσ.
«No. Ero svenuta e tu mi hai risvegliato.» La voce della principessa si sovrappose a quella della divinità dentro alla mia testa. Che cosa voleva dire? Non può morire ciò che è già morto. Ignoranza e timore mi strinsero lo stomaco. «Non so chi tu sia, ma se sei arrivato qui, allora sai che razza di mostro mi tiene prigioniera! Dobbiamo fuggire!»
«Sono un amico di Francis. E non andiamo da nessuna parte senza i miei compagni di viaggio.» dissi, stoico. Adesso che avevo perso la vista, forse la mia espressione era ancora più apatica del solito. Ma più probabilmente, la paura e la preoccupazione di sapere Rhod in pericolo, rendevano il mio volto più sincero di quanto non fosse mai stato.
«Francis è qui?!» esclamò, profondamente scioccata.
«Sì. E temo che morirà, se non ci muoviamo subito.» Non servì dire altro. Non le chiesi come fosse stata rapita, perché fosse tenuta prigioniera o che cosa avesse passato. Lei non mi chiese il mio nome o il mio ruolo nel suo salvataggio: si limitò a tenermi forte la mano, con la paura di essere separata da me, il terrore di tornare sola in una gabbia di pietre marce e morte. La sentivo tremare forte e in lei riconobbi il vecchio me stesso, il bambino disperato che voleva solo scappare lontano dalla fattoria, a qualsiasi costo.
Ma lei non avrebbe fatto il mio stesso errore: non avrebbe lasciato indietro nessuno.
Corremmo giù per le scale e fu solo grazie alla principessa se non rotolai sui gradini. «Dove sono? Dov'è lui? Dov'è Francis?» ansimò Aeline, senza fermarsi: la sua gonna stava svolazzando vicino alle mie gambe ed ogni tanto la calpestavo, rischiando di far inciampare e cadere entrambi.
Allɑ ʄiƞe ɗei ƍɾɑɗiƞi, iɱbσccɑte il cσɾɾiɗσiσ ɑ siƞistɾɑ. Velσce, il ɗeɱσƞe li ɦɑ qʋɑsi ɾɑƍƍiʋƞti!
«A sinistra! Seguimi!» avvisai, anche se ero io che seguivo lei, lasciandomi trascinare. Non sapevo in che stato fosse la ragazza, ma i suoi movimenti erano scattanti, energici, non come quelli di una persona che era stata segregata per anni. Chissà quand'era stata l'ultima volta che aveva mangiato. L'ultima volta che aveva visto il sole.
Non mi concessi di soffermarmi su questi pensieri e continuai a correre, seguendo le indicazioni analitiche e puntuali della creatura dentro la mia testa.
Lʋi li ɦɑ pɾesi. Cσɾɾi, ʋɱɑƞσ! Cσɾɾi!
E fu esattamente quello che feci. L'adrenalina pompò nelle mie vene e il mio sangue si fece energia liquida. Non sapevo nemmeno dove stavo andando: correvo alla cieca di fronte a me e adesso ero io che trascinavo la principessa. Ma lei strattonava il braccio, gridando: «FERMATI! Stai correndo contro un vicolo cieco!» Immaginai che avesse compreso, sin dal primo momento, che fossi cieco.
Ŋσƞ νi ʄeɾɱɑte. Ʋƞɑ pσɾtɑ ɑppɑɾiɾɑ̀ ɗi ʄɾσƞte ɑ νσi ʄɾɑ tɾe... ɗʋe... ʋƞσ.
«Una porta!» annunciò la ragazza, inconsapevole degli avvisi della divinità che parlava unicamente a me, in via telepatica. Non dovette nemmeno muoversi per aprirla. Si spalancò da sola, con una ferocia improvvisa, sbattendo violentemente sui cardini. Dall'interno, ci investì un'aria talmente rancida che mi sentii lacrimare gli occhi.
«Non lo toccare!» il grido di rabbia di Francis mi investì, proprio mentre Aeline sussultava di orrore, come se la causa di tutti i suoi incubi e di tutti i suoi mali fosse lì, in quella stanza. Ed era proprio così. Il demone era insieme a noi.
Prima che potessi fare qualcosa e, senza che nemmeno potessi vederlo, il mostro toccò la fronte di Rhod. Dopodiché tutti, in quella stanza - Cyran, Francis, Aeline, Rhod ed io -, fummo investiti da un fiotto devastante e soverchiante di ricordi.
❧❧
Rhod Hywel era stanco.
Stanco di essere sempre quello sbagliato. Stanco di essere sempre l'emarginato, il diverso, il balbuziente, lo sfigato. Le persone lo scansavano come se fosse un lebbroso, nel suo paesello, perché tutti lo sapevano. "Rhod lo iellato ti farà uccidere!" si dicevano fra di loro. Le mamme avvisavano i figli, i padri bisbigliavano, certi bambini lo picchiavano. Perché tanto, anche se ammaccato, ritornava come nuovo!
E l'odio del mago cresceva a dismisura, fino a sentire la pressione di una brama violenta di sangue scuotersi dentro di lui, ma cercava di soffocarla, pur sapendo che un giorno sarebbe esplosa.
Nessuno si sforzava di capirlo. Ma Rhod voleva soltanto un amico. Un amico, o una persona a cui confessare come si sentiva... Anche se a volte balbettava talmente tanto che non riusciva nemmeno a parlare. Era così umiliante. Chi mai avrebbe potuto voler parlare con lui? Figuriamoci amarlo!
Nemmeno i suoi genitori lo volevano. In fondo, aveva rovinato loro la vita. Era vero, Rhod veniva dal regno di Melisande, un piccolissimo puntino sulla mappa, situato alle pendici di Akra. Ma era nato a Skys Hollow, nelle capitale del regno di Darlan, per la precisione nel Continente Occidentale. Anche conosciuto come Continente Magico, prima che il Re di quell'Impero iniziasse la sua campagna di sterminio contro tutto ciò che era "magia".
Nascere mago era un crimine punibile con la vita. E mettere al mondo un tale abominio significava macchiarsi delle stesse colpe. Chissà se sua madre e suo padre, quando era nato e sprizzava scintille di magia intorno al proprio corpicino, avevano pensato di ucciderlo e farlo sparire, così da nascondere il loro "crimine". Probabilmente era quello che volevano fare, se solo la levatrice non fosse una testimone inoppugnabile.
Perciò avevano comprato il primo biglietto per il Continente Meridionale ed erano fuggiti in fretta e furia. Poi, quando Rhod aveva tre anni, erano iniziati gli incidenti. Le prime morti. Se i suoi genitori avevano pensato che, in fondo, potevano anche accettarlo in famiglia, si erano pentiti di tutte le loro scelte davanti alla sua maledizione.
Avevano avuto dei figli, dopo di lui - figli amati e benvoluti - e all'improvviso Rhod era diventato di troppo. Al punto che, quando fu finalmente in grado di badare a se stesso, venne cacciato di casa. Su due piedi. "E non tornare!" aveva detto sua madre, sbattendogli la porta in faccia.
Ma forse Rhod poteva sfruttare la propria solitudine e trasformarla in ambizione. Aveva troppa paura di esporsi, troppo timore per affrontare la gente. Eppure, la sua magia era tanto potente che non poteva essere ignorata: si spostò ad Akra, un regno cosmopolita e ricco di possibilità, immergendosi nella grande e fiorente Minartias, la capitale. Svolgere piccoli favori per nomi in vista come famosi cantori e facoltosi nobili lo aveva portato a farsi un nome.
Non era più soltanto Rhod lo iellato. Era Rhod il Mago.
Eppure, la sua sfortuna non era diminuita. Anzi, andava via via a peggiorare, mentre il destino lo tempestava di morti violente e dolorose. Avrebbe voluto che fosse facile come cadere dalle scale e spezzarsi l'osso del collo, ma il Fato gli riservava cruente sorprese. E ad un certo punto, quando raggiunse il limite della sopportazione, capì che doveva fare qualcosa. Trovare una soluzione.
Per farlo, si conquistò un impiego nella famosa Biblioteca dei Savi, un luogo ricco di cultura e di tomi antichi, arcani, in molti salvati dai roghi e dalle operazioni di censura del Continente Occidentale, contrabbandati dai pirati.
Rhod era sicuro che, in quell'immensa raccolta di sapere, ci dovesse pur essere qualcosa in grado di aiutarlo. Per forza. Solo, non aveva idea che la risposta lo avrebbe spinto a cambiare il destino di un regno, a rovinare la vita di una principessa e ad incontrare l'unico uomo che avrebbe mai amato in tutta la sua vita. Non lo immaginava neanche.
Si servì di un incantesimo semplice, ma prezioso: una magia di localizzazione, che lo avrebbe aiutato a capire quale, fra quelle migliaia di volumi ricchi di potere, potesse aiutarlo. Fu una vera sorpresa quando gli svolazzò incontro, timidamente, un piccolo tomo con su scritto "Incantesimi base per veri principianti". Quasi gli salì sulle labbra un risolino nervoso: il destino lo stava prendendo in giro, ancora una volta. Come avrebbe potuto risolvere una maledizione con un libro per novellini?
Eppure, quando il libro gli atterrò fra le mani e le sue dita toccarono la copertina consumata, una visione gli attraversò gli occhi. Un ricordo vecchio di anni, ma che era sempre rimasto lì. Aggrappato a quelle pagine. Ad aspettarlo.
...
...
Un pianto irrefrenabile scosse la camera da letto più sfarzosa del palazzo di reale di Minartias. Doveva essere un pianto di gioia, doveva essere un giorno felice, invece la regina piangeva disperatamente stringendo al petto una neonata morta. Nata e morta quello stesso giorno.
«Mi dispiace, Vostra Altezza...» mormorò la maga di corte, una anziana signora che era rimasta accanto a lei in ogni momento del parto, sperando di poter salvare quella creatura che la Regina portava in grembo, pur sapendo che fosse impossibile. Quella era la seconda bambina nata morta che la regina dava alla luce.
«No, non la lascerò andare! La mia Aeline...» pianse la donna, appoggiando la guancia macchiata di lacrime contro il visetto gelido del fagotto che teneva fra le braccia. La neonata stava diventando rigida e rendersi conto di questo dettagli la fece tremare dall'orrore e dal dolore.
«Dovete farlo, Altezza.» disse con gentile pazienza l'anziana, senza cedere alla compassione, trattando piuttosto la donna con il massimo rispetto. «Ho cercato di dirvelo. Avete la magia dentro di voi e il vostro prezzo è quello di non poter dare la vita.» Le accarezzò lentamente le spalle. «Non serve riprovarci tutte le volte, non dovete torturarvi così.» Posò le mani sulla neonata, cercando lentamente di toglierla dalle mani della Regina. La neonata stava diventando grigia ed era meglio che non restasse ancora per troppo tempo fra le braccia di colei che l'aveva partorita.
«LASCIALA!» ringhiò la Regina, rabbiosa e scossa dal dolore, stringendosi la piccola al petto. Ma quell'impeto di possessività si sgonfiò in un'altra ondata di lacrime. «Se non posso avere figli, che cosa ne sarà di me?» ansimò, tirando su col naso. «Che funzione avrò per questo regno? Mio marito avrà tutto il diritto di buttarmi via...»
L'espressione della maga di corte si fece rigida. Orride, vecchie usanze nobiliari. «Nessuna Regina è costretta a diventare un mezzo di riproduzione. Siete una donna forte, una stratega brillante e vostro marito vi apprezza per questo. Ci sono molti altri modi per avere una discendenza, non servono per forza i legami di sangue.»
«No! Non voglio nessun altro bambino, mai!» sibilò la nobile, nervosa, continuando ad accarezzare il minuscolo cadavere. «Io la amo, non posso abbandonarla... Non posso lasciarla andare. Non mi importa del prezzo che dovrò pagare, farò qualunque cosa!»
Era davvero disposta, ad ogni costo, a salvare la piccola Aeline, grigia e rigida fra le sue braccia. Ecco perché, nonostante i dolori del parto, si ritrovò quella stessa notte a scivolare fra i silenziosi ed imponenti corridoi della Biblioteca dei Savi, la più famosa del regno, in cerca di risposte che la vecchia maga di corte sembrava avere. Le mani della Regina sfiorarono i tomi, sfilando alcuni titoli interessanti per impilarli fra le proprie braccia.
Sfiorò attentamente "Incantesimi base per veri principianti" col cuore in gola: non aveva mai appreso correttamente la magia. Lei era una nobildonna, d'altronde, non aveva bisogno di coltivare arti magiche per puntare ad una vita facoltosa. Ce l'aveva già. Eppure, pur non praticando le proprie abilità, era comunque vittima del prezzo da pagare: non avrebbe mai potuto partorire qualcosa di vivo.
Nemmeno lei lo sapeva, finché non era successo la prima volta e la maga di corte aveva svelato l'arcano. Adesso, immaginava che nemmeno imparare degli incantesimi basilari l'avrebbero salvata. Aveva bisogno di altro, aveva bisogno di... Un'attrazione viscerale la spinse a far cadere il libro "Incantesimi base per veri principianti" dalle mani. Si alzò in piedi, quasi in trance, percorrendo i vecchi corridoi alla ricerca di qualcosa.
Qualcosa che cadde da solo da uno scaffale. Un libro nero come la notte, oscuro come gli incubi. Si chinò a raccoglierlo, sussurrando il titolo: «Magia nera... demoniaca.»
«Non lo fate, Vostra Altezza.» La maga di corte era dietro di lei, ad osservare con orrore ciò che la regina stringeva. «Ve ne prego. Giocare con la necromanzia è un'empietà che porta a conseguenze terribili... Gli Dei ve la faranno pagare.» sussultò. «Se non lo faranno i demoni.»
Ma la Regina era già diretta sulla via del non ritorno. «E' troppo tardi, ormai. La mia Aeline non può morire.»
E così... Fu. La principessa di Akra non morì. In fondo, non può morire ciò che è già morto. Ma a volte, le cose morte possono comunque riuscire a vivere.
...
...
Rhod alzò gli occhi dal libro "Incantesimi base per veri principanti", stupefatto.
La principessa Aeline di Akra era nata morta ed era stata riportata indietro. Meglio ancora: la Regina aveva trovato un modo per raggirare il proprio prezzo da pagare e, nonostante il destino non la credesse in grado di generare vita, contro ogni previsione lei aveva avuto una figlia. Una figlia che anche adesso viveva, per quanto ne sapeva Rhod.
Un bibliotecario silenzioso, uno dei suoi colleghi, arrivò al suo cospetto. Vedendo il mago con lo sguardo perso nel vuoto, sussurrò verso di lui: «Trovato ciò che cercavi?»
Ma il brunetto chiuse con uno scatto deciso il volume, cercando di non sorridere in modo sinistro in direzione del bibliotecario. «Ho t-t-tu-tutto q-quello che-che m-mi s-s-se..serve.» Anche se non lo possedeva ancora. Ma sapeva dove trovarlo e avrebbe lavorato duro per raggiungere il proprio scopo.
Gli ci volle un anno intero per riuscire ad affermarsi al punto da entrare nella schiera dei maghi di corte, come il più giovane ma anche il più talentuoso. E ci volle soltanto una notte per trovare, nelle numerose biblioteche del palazzo reale, il tomo di Magia nera demoniaca. Lo stesso libro che, in futuro, un mercenario di nome Cyran Rouge avrebbe svogliatamente sfogliato scambiando un gruppo di paesani con ridicoli cappelli rossi per una specie particolare di demoni, ritratti all'interno di quello stesso libro.
Magia nera demoniaca, quindi.
Rhod Hywel aveva aspettato il momento giusto. Aveva meditato, pianificato e si era preparato, calcolando ogni mossa. Il giorno in cui decise di agire, fu quello in cui la città era in festa: si sarebbe svolto il fidanzamento ufficiale fra Aeline di Akra e Francis di Gilerines. C'era gran fermento e nessuno si sarebbe accorto di ciò che avrebbe evocato. O del servo che aveva ucciso - il suo primo omicidio - così da avere un sacrificio umano.
Lasciò sgocciolare copiosamente il sangue sull'intricato marchio tracciato sul pavimento e scie scarlatte ne seguirono il disegno. Con le dita scrisse nell'aria simboli complessi, non sbagliando nemmeno un passaggio, benché le sue mani tremassero.
«Istalas bajasta, kueda' ana, mizea nurahs!» invocò le parole dell'incantesimo e il vento iniziò a vorticare violentemente nella stanza, mentre la luce calava, le candele si spegnevano, la puzza di marcescente invadeva la stanza. «Vieni, Ba'alzebul, Signore delle Mosche!»
Le tenebre scivolarono lente come fumo all'interno della stanza, mentre sinistre crepe spaccavano le pareti. E, da quelle spaccature, iniziarono a fuoriuscire farfalle e falene nere, orrende, che svolazzavano intorno a lui e si trasformavano in mosche, che cadevano a terra rattrappite, morte e sofferenti. Rhod sapeva che il demone era lì con lui. La sua pelle era accapponata, il proprio sangue gocciolava dal naso e un senso di nausea gli violava le viscere.
«Voglio fare un patto con te, grande Baal!» esclamò il mago, senza balbettare neanche per un istante, come se quell'energia malefica fluisse in lui e lo rendesse perfettamente calmo. «Ti offro la mia potenza! Una parte dei miei poteri... E in cambio, ti chiedo solo di liberarmi dal peso della mia maledizione!»
La testa gli scoppiava, ma era colpa dell'evocazione: il demone lo metteva alla prova e Rhod non avrebbe ceduto. In fondo, era stato lui a chiamarlo. E sapeva il suo nome, perciò poteva controllarlo. Non cedette nemmeno quando una malefica risata, simile ad un ringhio e al tempo stesso al ronzare di una zanzara, lacerò l'aria.
«Sciocco, sciocco mago...» tuonò la creatura con milioni di voci, ognuna proveniva da uno degli insetti nella stanza, ed erano centinaia. «Non mi serve la tua offerta.»
Rhod rimase sbigottito, raggelato, come una statua di ghiaccio. Non c'era niente che i demoni volessero di più del potere e lui stava offrendo quello che aveva su un piatto d'argento. Perché Baal avrebbe dovuto rifiutare?
«Perché c'è qualcuno di molto più potente di te, in questo castello...» rispose il demone, leggendogli il pensiero, con macabro entusiasmo. «... Lei mi aspetta. La mia sposa. E quando farò un patto con lei, saremo uniti nell'anima e nel corpo. E distruggeremo ogni cosa.»
Lo stomaco di Rhod fu sul punto di rimettere, perché capì immediatamente di chi il demone stava parlando: della principessa Aeline. Riportata in vita dalla magia demoniaca. Non viva, non morta. A metà strada.
«BA'ALZEBUL, TORNA DA DOVE SEI VENUTO!» urlò Rhod, immediatamente, capendo l'enormità dell'errore che aveva commesso solo quando era troppo tardi. Ma poteva ancora cacciarlo. Sapeva il suo nome e l'aveva evocato lui. Perciò, lui l'avrebbe rispedito indietro. Velocemente, ripetè al contrario la formula pronunciata durante il rito. Ma invece che scomparire, le farfalle riempirono quella stanza, come un'infestazione. Quella notte, gli abitanti di Akra parlarono della più grande infestazione di farfalle carbonaria.
«Ma io non sono Ba'alzebul, mago. Non sai neanche tu quello che hai evocato.» ringhiò il demone, con una risata raccapricciante che assomigliava ad un latrato. Solo allora Rhod iniziò a sentire la paura strisciargli dentro. Aveva risvegliato qualcosa di terribile. Qualcosa di persino più antico del demone che credeva. E aveva ucciso una persona, spinto dall'odio e dal dolore che aveva vissuto nei suoi anni di vita.
Aveva fatto una cosa terribile. E adesso, a pagare il prezzo della propria empietà, sarebbe stata la principessa di Akra.
«TI FERMERO'!» urlò, in preda all'ira, al furore, alla collera più devastante. La magia era il suo elemento. Nessun demone poteva azzardarsi a prenderlo in giro. «E ti darò la caccia, per sempre, finché non sparirai da questo mondo!» sibilò Rhod, più coraggioso di quanto non fosse mai stato, più arrabbiato che con tutte le persone che lo avevano deriso, picchiato, umiliato, emarginato, abbandonato. Sentì la magia crepitare fra le sue mani con una potenza senza eguali.
«Allora non servirà altro che cancellare ogni cosa.» disse il demonio. E, prima che Rhod potesse capire cosa la creatura intendesse, una scia di falene gli si ficcarono nelle orecchie, affilate come pugnali. Qualcosa nella sua testa fischiò e si ruppe, frantumandosi come un pezzo di vetro.
Il mago cadde a terra, strizzando gli occhi e tenendosi il capo fra le mani mentre gridava, un verso lacerante e terribile, che lasciò dentro di sé un grande rumore. Non si rese conto del momento in cui aveva smesso di urlare. Non si capacitò nemmeno del motivo per cui lo aveva fatto.
Si limitò a raddrizzarsi, abbandonando la posizione fetale per mettersi seduto sul pavimento. Attorno a sé, il mondo era silenzioso. Le candele erano spente. La finestra era spalancata e solo qualche foglio svolazzava nella stanza come uno spettro. C'era, a terra, solo qualche gocciolina di sangue insieme ad un libro con la copertina annerita, la scritta un po' consumata, spaginato.
Rhod si massaggiò la testa, confuso. Non ricordando più del proprio obiettivo. Non ricordando quello che aveva fatto, chi avesse ucciso e chi condannato. L'unica cosa che rimase di quella notte, fu una piccola falena nera posata sulla punta del suo stivale, che lo fissava.
...
...
Il ritorno alla realtà fu uno shock per tutti. Capii di essere ritornato soltanto perché il mondo era diventato di nuovo uno sfondo nero, privo di immagini e di colori. Ero di nuovo cieco ed ero di nuovo nella tana di un antico demonio.
«Oh Dei... Rhod. Sei stato tu.» gemette Francis, stravolto dall'orrore. La cosa peggiore di quella storia grottesca era che fosse tutto così... reale. «E' colpa tua.» Ma il principe non lo disse con tono accusatorio. Piuttosto, con dolore, come se fosse stato colpito.
Ma io non avvertii gli stessi sentimenti contrastanti che Francis stava provando. Non avevo nessun motivo al mondo per accusare Rhod. Non avevo alcun diritto di farlo, dopo che un sacco di bambini erano morti bruciati solo perché io potessi salvarmi. Anche Rhod, dopo tutte le sue sofferenze, aveva raggiunto un tale livello di esasperazione che aveva scelto di rischiare il tutto per tutto, pronto a fare dei sacrifici. Non sapeva come sarebbe andata a finire.
«I-i-io... n-non lo sa-sa-sapevo...» balbettò, scosso. Avrei voluto vederlo, in questo preciso momento. Osservare la sua espressione, stringere la sua mano. Dirgli che qualsiasi cosa gli altri pensassero, io ero dalla sua parte. Lo sarei sempre stato.
Così feci un passo avanti e, quello, fu l'errore di cui mi sarei pentito nei mesi successivi.
«No!» sibilò la principessa, che ancora mi stringeva la mano, cercando di strattonarmi all'indietro. Ma era troppo tardi: il mio corpo scontrò la materia fluttuante di centinaia di ali di farfalla che mi vibrarono contro la pelle, le guance, la carne, con un tale attrito che mi fecero male.
«Tu, patetico umano, stai cercando di portare via la mia sposa?» Una forza superiore, oscura e violenta mi afferrò per la gola e mi sollevò da terra, strappandomi dalla presa della ragazza per scaraventarmi contro un muro con talmente tanta brutalità da sentire, dentro di me, qualcosa fare crack. Il dolore esplose nel mio petto mentre il corpo mi si afflosciava per terra.
«NON. TOCCARE. ANDRÈ!» La furia di Rhod si scatenò: il vento vorticò impetuoso all'interno della stanza, mentre sentivo le pietre creparsi e l'intera Fortezza tremare su se stessa. Non sapevo che cosa stesse succedendo, né quali attacchi si stessero verificando.
Ma sentii chiaramente Cyran che urlava: «TUTTI CONTRO IL MURO!» E poi un'intensa puzza di bruciato. Ringhi e latrati, versi tremendi simili a quelli di un animale furioso, insieme a gemiti dovuti allo sforzo, come se qualcuno stesse trattenendo sulle spalle il peso intero del mondo. Era Rhod.
«André.» Il tono di fatica e l'allarme nella sua voce mi fecero gelare il sangue.
«No.» Sapevo che stava per fare qualcosa che io non avrei mai voluto. Lo sapevo. Lo sentivo. Qualcuno mi afferrò per un braccio e mi strattonò: sentii le braccia del resto del gruppo che mi stringevano, mi sorreggevano, mi tenevano in piedi.
«Fuggi e vivi.» Un boato tremendo fece vibrare l'aria. «Vivi per me!» urlò il mio mago, con la voce spezzata dalle lacrime, nell'istante in cui i suoi palmi combaciarono con forza, col suono di uno schiaffo.
«No! NO! RHOD!» Fu un istante brevissimo. La divinità che avevo ancora dentro alla testa mi permise, soltanto per dei secondi fugaci, di riavere indietro la vista. Mi consentì di vederlo e di dirgli addio.
Rhod aveva le guance piene di lacrime, tanto che una delle due treccine, che scendevano lunghe ai lati del volto, gli si era appiccicata contro uno zigomo umido. Gli occhi spalancati, blu elettrici come il colore di un fulmine, sprizzavano energia, rabbia, paura. Senso di colpa. Dolore. Perdita. Mentre mi guardavano.
Sciami di falene ronzavano contro di lui, ma il mio amato le ignorò: invece, mosse le mani nella nostra direzione e un'onda d'urto violenta ci spinse tutti fuori dalla stanza, oltre la porta da cui io e Aeline eravamo entrati. Ma lui era ancora dentro.
«NOO! RHOD! NO NO!»
Proprio quando le porte stavano per richiudersi grazie al suo incantesimo, nel minuscolo spiraglio rimasto aperto, vidi i suoi occhi puntarmi e le sue labbra muoversi.
"T i a m o"
Poi un esercito di falene lo assalì e lo sommerse, coprendolo fino alla testa, e proprio mentre io cercavo di correre da lui la porta mi si chiuse in faccia con un botto fragoroso. «NO! NO NO NO! NON DI NUOVO!» Mi gettai a spallate contro la porta, picchiando il legno massiccio con i pugni e con i palmi, urlando e piangendo e gridando a squarciagola il suo nome. La cecità era tornata e il dolore era ormai dimenticato, mentre mi schiantavo ferocemente contro la porta, ignorando che mi stessi facendo male, ignorando tutto.
Rhod era dentro col mostro e io non lo avrei abbandonato. Non avrei lasciato che qualcuno si sacrificasse di nuovo per me. Non avrei permesso che l'unica persona che amavo al mondo mi fosse portata via, al costo di restare vivo.
Dovevo aprire la porta. Dovevo liberarlo, salvarlo, portarlo via da lì. Dovevamo scappare insieme.
Eppure, i nostri corpi furono violentemente sbalzati all'indietro, lontano da quella stanza sigillata e dalla porta chiusa, sospinti attraverso i corridoi come se un campo di forza invisibile ci stesse scacciando bruscamente dal castello e spingendo verso l'uscita. E io lo stavo perdendo. Non importava quanto scalciassi e mi contorcessi, né quanto Cyran e Francis mi trattenessero. «Lasciatemi andare! LASCIATEMI! Rhod è ancora dentro! LUI E' LÀ DENTRO!»
«E' troppo tardi, André.» disse Francis, con la voce rotta dal pianto, stringendomi in un abbraccio in cui io però non riuscivo a stare, agitandomi. «Siamo fuori.»
Lo sapevo anche io, che eravamo usciti dalla Fortezza: l'aria scorreva sulla mia pelle in maniera diversa e l'odore sgradevole di chiuso e di marcio era stato sostituito dalla puzza di bruciato proveniente dalla carcassa del drago sconfitto. «Devo andare a salvare Rhod.» annunciai, divincolandomi dalla sua stretta e barcollando fino a tornare in piedi, riuscendo a farlo per pura forza di volontà, nonostante fossi distrutto. Annientato, annichilito.
«Tu non andrai da nessuna parte, André Sion.» La voce imperiosa della divinità creatrice di Cyran si annunciò a tutti. Il Dio primigenio del fuoco si palesò con uno scintillio nell'aria, un baluginio dorato che riuscii ad avvertire anche attraverso la mia cecità. «Uno si è sacrificato per tutti. Rhoderick Hywel sapeva cosa stava facendo e lo ha trattenuto perché voi poteste fuggire. Adesso che siete fuori da quell'antro orribile posso agire e rispedirvi a casa.»
«NO! Voi andate, io resto qui!» ringhiai, furioso e determinato come non lo ero mai stato in tutta la mia vita. Ero sempre stato schiavo degli eventi, sempre inerme ed impotente. Avevo lasciato che un mostro mi adottasse, che mi facesse ciò che gli pareva. Avevo permesso che uccidesse i miei fratelli e avevo lasciato che tutti morissero perché io potessi sopravvivere... Ma questa volta avrei fatto qualcosa.
«Se resti qui, morirai di certo!» ansimò la principessa, mentre Francis le dava man forte.
«Non m'importa ciò che un umano desidera. Non perderò altro tempo.» disse il Dio, mentre luce e calore ci circondavano, come se qualcosa si preparasse... A farci andare via.
«No!» gridai, sentendo la situazione precipitare e quell'orribile, sconvolgente, tremenda verità sovrastarmi. L'avrei perso. Avrei perso Rhod. Non ero pronto a perdere l'unica cosa bella della mia vita. Che senso aveva recuperare la Lingua di Drago, se non c'era lui insieme a me? «Devi salvarlo! Ho fatto quello che volevi, adesso devi fare tu la tua parte! Devi salvare Rhod!» mi sgolai, disperato, disposto ad usare ogni scusa, ogni tattica.
Ma la divinità rise, gelida. «Non l'ho mai promesso. Ma puoi sempre pregare gli Dei che ti ascoltino.»
E schioccò le dita. Il suono di quello schiocco mi rimbombò nelle orecchie, con la stessa cadenza fatale di una pendola a mezzanotte. Poi, il mondo intorno a noi cambiò: per me non ci fu alcuna variazione visiva, ma lo sentivo nella temperatura dell'aria. La calura asfissiante dei Regni del Caos aveva lasciato il posto al rigido gelo marino, mentre l'aria salmastra e tagliente mi schiaffeggiava il viso.
«Ci ha rimandato... sulla nostra nave?» esordì Cyran, mentre avvertivo i suoi stivali spostarsi sul ponte cigolante. «Non poteva semplicemente rimandarci ad Akra?! Cazzo... Vi congelerete.» brontolò, sebbene la sua voce avesse perso la solita verve. Era un tono cupo, duro.
Sentii sussurrare la principessa Aeline: «Sono libera... Sono libera. Tornerò a casa. Oh Dei... Tornerò a casa.» Pianse di gioia, commozione e per il dolore che quel rapimento le aveva causato. E anche il suo amico, il suo promesso sposo, si commosse insieme a lei. «E se un giorno quel demone verrà a prendermi?»
«Non accadrà, perché io sarò con te.» promise Francis, col tono basso e dolce, delicato. Qualsiasi cosa stesse pensando o facendo Cyran, era evidente che fosse di troppo. «E' finita, Aeline... E' finita.»
Caddi sulle ginocchia, senza fiato. Non poteva essere davvero finita. Mi rifiutavo di crederlo vero. «Oh no... Non così. Non così.» Non poteva finire così. Non poteva essere successo ancora una volta. Ero di nuovo vivo alle spese di qualcun altro. Ero vivo e la persona a cui tenevo era andata.
La mia vita era alle spese di colui che amavo.
Mi coprii la faccia fra le mani, profondamente, dolorosamente devastato, sentendo le lacrime riversarsi sui palmi e la disperazione trascinarmi in un abisso nero, fatto di ghiaccio, di morte, di sangue. Fatto dei miei incubi peggiori.
Rhod era andato. Era perso. Perso per sempre, perché ovunque fosse la nave su cui eravamo appena apparsi, stava andando dalla parte opposta rispetto ai Regni del Caos. E non sarebbe tornata indietro. Mai più. E io e Rhod non ci saremmo mai più rivisti. Sempre ammesso che lui fosse ancora... Che lui fosse ancora...
«Andiamo, André.» Cyran mi sollevò di peso, senza sforzo. «Qui fuori fa troppo freddo.» Mi aiutò a trascinarmi sotto coperta, mentre io barcollavo. Rischiai di cadere sulle scale ma Cyran mi tenne fermo, con un braccio intorno alle schiena, passato sotto alle mie spalle.
«Non vedo... Io non vedo niente...» rivelai, mentre il mercenario mi trascinava nella mia stanza e mi appoggiava sul letto. Chiuse la porta e tornò verso di me, tastando il mio petto, le tasche sulla mia camicia, alla ricerca di qualcosa.
«E' tempo di usare quella Lingua di Drago, fioraio.» Mi strinse la mano sulla spalla e perfino quel solito, odioso nomignolo, venne detto con una specie di addolorato affetto. Sapevo che il mercenario non fosse così idiota ed insensibile come molto spesso si mostrava. Forse, anche solo in parte, capiva cosa stavo passando.
In qualche modo, aveva perso Francis anche lui.
«No, Cyran. Non la userò.» sussurrai, molle sul letto, sentendo il corpo floscio, debole e privo di forze. «E' finita.» Perché sapevo, molto bene, che Rhod si era sacrificato per noi, per me, sapendo che non sarebbe tornato. Era rimasto laggiù, nei Regni del Caos e nella tana di un mostro, da solo. Anche con la sua capacità di non morire mai, non ce l'avrebbe mai fatta.
Rhod non sarebbe tornato. Quella consapevolezza mi fece stringere i denti per non urlare dal dolore, che era decisamente peggiore rispetto a quello fisico. Il dolore dell'anima ti lasciava dentro un solco così profondo che avrebbe potuto inghiottire la tristezza del mondo intero.
«Non dire cazzate! Non le dire, fioraio! Se le ripeti, giuro che ti do un ceffone e ti faccio tornare ad Akra volando!» abbaiò Cyran, che trovò ciò che cercava e si prese il fiore dalla mia tasca. «Adesso, dimmi esattamente quel che cazzo devo farci con questo fiore, perché lo farò e tu berrai quella fottuta pozione, a costo di ficcartela io in gola!»
«Hai un buon cuore, eh, mercenario?» gli rivolsi un debole sorriso, massaggiandomi il volto umido di lacrime con una mano.
«Sì, ma tu non dirlo a nessuno.» rimbrottò, alzandosi dal bordo del letto con un cigolio di molle per raggiungere la postazione su cui c'erano i miei attrezzi. Lo sentii rimestare fra ampolle e provette in tintinnii di vetro. Qualcosa, subito dopo, si ruppe. «Cazzo-»
A fatica, mi tirai a sedere, appoggiando la schiena alla testiera del letto. Vivi per me, aveva detto Rhod. Non ero pronto a farlo, a vivere senza di lui, a tornare alla solitudine di una volta. Non ero pronto al finale di una storia simile. Ma potevo buttare la mia vita, dopo che il mio Rhod si era sacrificato per salvarmi?
Perciò, presi un profondo respiro ed incominciai: «Ecco cosa devi fare.»
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