25. Fidarsi è bene ma non fidarsi è meglio
André
Rhod era la creatura più bella che avessi mai visto.
Il suo corpo nudo era rischiarato dal dondolio di una singola fiammella che giocava leziosamente con la sua ombra, man mano che gli sollevavo la camicia da notte sopra la testa, scompigliandogli la chioma nocciola e quelle due treccine accanto alle tempie, che corsero ad accarezzargli le guance perfettamente rotonde.
Era un'opera d'arte incastonata in mezzo al letto, scolpita fra le lenzuola, intagliata nella luce della candela che gli colorava l'epidermide perlaceo d'arancio. Le piccole labbra a forma di cuore boccheggiarono di vergogna, mentre io lo fissavo da capo a piedi, incantato dalla sua figura, dalla glabra levigatezza della sua carne pura, mai violata da un pelo, da un neo, da una cicatrice, da una lentiggine. Da mani sconosciute.
Al contrario di me.
Non mi spogliai e lui capì e lo accettò, senza aver bisogno di chiedermi nulla, semplicemente guardandomi negli occhi, i suoi così vibranti di vita, così scintillanti di blu, come la luce intorno ad un fulmine, esattamente come quella che s'infiltrava dall'oblò della nostra stanza facendolo sussultare ogni volta. Le sue spalle minute e arrossate balzavano scostandosi dal materasso con un cigolio delle molle, le braccia allungate fra me e il lenzuolo tirato sopra le gambe, celando le sue grazie dal mio sguardo.
Non aveva bisogno di nascondere niente, comunque. Lasciai che per qualche minuto cercasse riparo sotto alla seta bianca mentre le nostre labbra s'incontravano ancora e le mie mani, ebbre della sua pelle anche se non avevamo neppure iniziato, vagarono sul suo petto stuzzicandogli ogni centimetro libero, tastando ed imparando a memoria le forme, le distanze e le vicinanze, sorseggiando il vento intorno a lui per respirare il suo stesso ossigeno, la stessa aria che avrebbe consumato di lì a poco per parlare, balbettare, gemere.
«D-d-dì qu-qual..qualcosa.» biascicò infatti, la faccia paonazza come una camelia selvatica in procinto di sbocciare e un pizzico di magia che per il nervosismo del momento gli crepitava intorno alla testa come un'aureola azzurra di potere condensato, mal trattenuto.
Io però non riuscivo a parlare. Sapevo che la mia mancanza d'espressione, in un momento come questo, potesse essere frustrante, ma sapevo anche che il suo corpicino e la sua voce mettevano a dura prova ogni mia capacità d'autocontrollo. Mi coprii le labbra dietro una mano, gli occhi virati di lato e un impercettibile rosa ad imporporarmi gli zigomi. Era lui a causarlo, specialmente perché stava imparando a capirmi ed ero consapevole che potesse leggere i miei sentimenti, adesso. Ogni frammento nascosto d'imbarazzo, brama, lussuria: era tutto lì, in quell'ingannevole traccia di colore sulla mia pelle smorta.
Se fossi stato in salute vedermi sarebbe stato più piacevole: spalle larghe, corpo tonico, liscio, privo di deturpazioni, muscoli scattanti, respiri veloci, sguardo attento. Mi sarei tolto la camicia da notte e l'avrei fatto mio, velocemente, senza indugiare un momento.
Ora, non ero sicuro di farcela. Prendevo ogni giorno i miei rimedi erboristici, ne sperimentavo di nuovi, mescevo e sminuzzavo instancabilmente contro il pestello in cerca di medicine che durassero davvero, che mi dessero abbastanza forza per non rallentare il gruppo, per non dare nell'occhio, per trascinarmi instancabilmente sul ronzino da un'avventura ad un'altra senza mai vacillare, senza mai cedere.
«Ti voglio.» esaudii la sua richiesta dicendogli quello che pensavo davvero. Mi ero tolto gli occhiali ma lo studiavo oltre lo sguardo sfocato senza nemmeno strizzare le palpebre, quasi il desiderio fosse in grado di sopperire alle mie mancanze e alla miopia. «Sei il mio ultimo desiderio.» sussurrai, criptico ed illeggibile, con gli occhi verdi resi arcani, magici quasi quanto i suoi, grazie alla luce della fiamma.
La sua fronte s'increspò come una pergamena stropicciata dopo un errore di scrittura, ma non gli diedi alcuna spiegazione per ciò che avevo appena mormorato: mi inclinai sopra di lui per soffiargli sulle labbra, per leccarle, carpirle e baciarle ancora, le mani rovinate premute sul suo visetto minuto, fra i suoi capelli, le treccine attorcigliate come un filo di lana intorno alle dita. E poi ribaltai la situazione, con un ultimo scatto, con un briciolo di forza che mi rimaneva: a cavalcioni sopra di me, il suo corpo nudo premuto sulla mia camicia da notte, tanto sottile che riuscivo quasi a sentire il contatto che si creava fra noi. Le mie mani si posarono possessive sulle natiche rotonde, perfettamente delineate, sode, alte.
Sospirò, incurvato sul mio petto, la fronte appoggiata sulla mia spalla, la schiena inarcata come una parentesi chiusa contro di me, un movimento che s'incrementò quando con la mano cercai la sua nudità, che mai avevo lambito prima d'ora. Il suo respiro bollente sul collo, le mani che si aggrapparono alla mia schiena, che mi sciolsero la coda con uno strattone, mi sfidarono a fare molto più.
Mossi le dita con una lentezza straziante, dalla punta fino alla base, sentendolo sussultare in tutta risposta come se avesse sentito un altro fulmine spaccare il cielo e bruciare la terra, invece l'unico rumore da noi percepito era il picchiettare persistente della pioggia contro alla finestra. Sorrisi, impercettibile, acquistando velocità col braccio, ricevendo come risposta un movimento impacciato e spontaneo del suo bacino, che aveva incominciato ad ondeggiare senza che io facessi nulla, assecondando il moto della mia mano.
«Rhod... Rhod..» lo chiamai, sussurrai, mormorai ripetutamente mentre quel corpicino tremava di piacere fra i miei grandi palmi graffiati come mai nessuno aveva fatto prima d'ora. «Non posso aspettare...» La mia stessa virilità, ora scoperta visto che avevo sollevato la camicia da notte fino ai fianchi, si era animata per ricercare attenzioni e aveva istantaneamente trovato posto fra i suoi glutei, godendo dello strofinio che il contatto creava.
«N-n-nemm..eno ... mmh.. i-io» sospirò con le labbra appoggiate al mio collo, lasciandosi massaggiare le natiche sode dai miei movimenti impacciati ma vogliosi, molto più sinceri della mia espressione, impenetrabile, con lo sguardo appannato, liquido di piacere, sfocato dalla miopia e dal desiderio. L'umidità creata dal contatto delle nostre intimità mi facilitò il lavoro quando insinuai un dito oltre il suo cerchio di muscoli. «Aah!» E quello fu il primo dei tanti gemiti che seguirono quando io proseguii imperterrito.
Non lo davo a vedere, ma ci stavo prendendo gusto. Rhod balbettava anche nei suoi gemiti, in un modo estremamente carino, non sapevamo nemmeno se le pareti delle nostre lussuose stanze fossero abbastanza spesse da contenere i nostri ansimi, ma non c'importava. Niente disturbava la bolla di pace e piacere che avevamo creato fra noi, non restava che l'eco lontana dei fulmini e il lampeggiare azzurro della luce che si fondeva alla penombra dell'unica candela che avevamo acceso.
Un terzo dito dentro il maghetto mi fece contrarre lo stomaco dal desiderio primordiale di sostituirmi ad esse, di attaccarmi con le labbra ad uno dei suoi capezzoli rosei ed entrare in lui con un solo movimento fulmineo dei fianchi per riempirlo del tutto. Ne avevo bisogno. Lo avevo ardentemente desiderato anche quando eravamo stati tanto vicini a questa situazione, dopo l'attacco degli orchi. Ma avevo avuto paura. Stavolta c'erano soltanto sentimenti positivi ad affollarmi la testa. Perciò allontanai la mano con cui tentavo di abituarlo al mio ingresso e smisi di aspettare.
Gli accarezzai la guancia, mi attorcigliai una delle treccine intorno all'indice e con un leggero ma deciso movimento dei fianchi gli feci capire di issarsi appena sulle ginocchia, così che io potessi trovare un punto d'accesso. Eravamo molto impacciati. Il maghetto era abbastanza piccolo perché potessi immaginare fosse la sua prima volta, con un uomo ma anche con una donna e, quanto a me... Ero stato troppo impegnato con le conseguenze del passato per preoccuparmi di amore o sesso. Non c'era stato mai nessuno e il sapore di questa prima volta non aveva niente di strano o di vergognoso: sembrava che l'avessimo già fatto prima, ma con la meraviglia che avresti davanti a tutte le cose nuove.
Allineai la punta della virilità e feci forza per entrare in lui, aiutandomi e al tempo stesso aiutandolo tenendogli i fianchi, così da accompagnarlo verso il basso. Ero certo che con più calma e le erbe giuste avrei potuto creare un olio o una lozione per rendere le cose più facili e meno dolorose per Rhod, ma quello che stavamo facendo non era pianificato: era frutto di un impeto passionale che avevamo colto, finalmente, creando un inizio felice dopo tanti esordi inquieti.
Gli asciugai una lacrima con la punta del pollice spazzandola via e poi gli baciai gli zigomi tondi, le pieghe accanto alle labbra, il centro delle labbra - morbido, caldo centro del mio mondo - e approfondii quel bacio scivolando dentro di lui fino a toccargli il fondo schiena col bacino. Restai così per poco, secondi preziosi che gli servirono ad abituarsi, poi lo invitai con colpetti dei fianchi. «Dammi una mano...» sussurrai nel suo orecchio, quasi non riconoscendo la mia voce per quanto fosse roca, per quanto la bramosia l'avesse mutata. Io purtroppo non avevo abbastanza energie per far tutto da solo, così aspettai che fosse il maghetto a muoversi, dondolandosi su e giù sopra di me con lentezza estenuante.
La velleità dell'incontro dei nostri corpi mi rese più forte, più resistente, abbastanza perché trovassi la forza di sollevare il bacino e spingermi di rimando contro di lui. I nostri gemiti sovrastarono il rumore del temporale che infuriava fuori dal Dirigibile d'Argento e un pizzico di me finalmente capì perché il mercenario fosse tanto ossessionato dal sesso: non era tanto l'atto in sé, quanto il piacere che ne scaturiva e l'emozione di provarla insieme alla persona di cui più t'importa al mondo. Una cosa che lui, però, non poteva capire.
Finché tutti i pensieri non svanirono. Con velocità maggiore affondai nel corpo del maghetto fino in fondo e lui, cavalcando l'onda dell'amplesso che stava travolgendo entrambi, perse il controllo ed iniziò a farci fluttuare, sollevandoci a diversi centimetri dal letto. Non fu abbastanza per distrarmi. Serrai furiosamente le dita contro alla sua vita e con un ultimo colpo più vigoroso di tutti gli altri venni in lui, con un sospiro rumoroso che si fuse al suo gemito.
Poi atterrammo sul letto, rimbalzando con un cigolio rumoroso di molle che per qualche secondo rovinò il momento. Ma tutto tornò meravigliosamente sereno, specialmente quando Rhod abbandonò la testa sul mio petto, e la mia fu sulla sua, e lui si addormentò sereno molto prima di me, rimasto sveglio a pensare e ad imprimermi il momento appena vissuto ed assaporato dentro alla testa, alla memoria. Avevo pensato di vivere il resto della mia vita dentro alle mura del castello del Re di Akra, invece me ne sarei andato senza rimpianti. Era una consapevolezza piacevole. Così mi assopii.
Non seppi quanto dormii ma non feci incubi. Non ci furono incontri passati, né ombre oscure a gravare sopra di me. Ci furono solo gambe nude, intrecciate, respiri vicini, palpiti all'unisono, capelli lunghi e corti sparpagliati fra i volti e un velo di sudore ad inumidirci entrambi. Ci fu la soddisfazione di essere al sicuro.
E poi ci fu il boato.
Spalancai gli occhi così in fretta da essermi già infilato gli occhiali ancor prima di essermi del tutto svegliato. «Co-co-cosa è st..st.. stato?!» balbettò Rhod, mentre si tirava a sedere. Io ero già in piedi, di fronte all'oblò che si affacciava nella nostra stanza.
L'impenetrabile scorza della mia apatia si crepò quando, in un sol fiato, risposi.
«Un fulmine.» Mi voltai per guardarlo negli occhi. «Stiamo precipitando.»
❧❧
Cyran
Immaginate di fare il più grande sbaglio della vostra vita. Poi, immaginate il contrario. Cioè di fare della vostra vita tutto un grande sbaglio... Lo facevo ogni giorno, anche se ogni mia azione era il prodotto di una specie di eroica battaglia contro quello che volevo e quello che, invece, voleva ciò che avevo dentro ai pantaloni. Sì, essere uomini e dare ascolto al cervello era dura, almeno nel mio caso lo era sempre stato.
Stavolta però non si trattava né del cavallo dei miei pantaloni, né della ragione che mi mancava la maggior parte delle volte: esistevano altri motivi per cui mi ero svegliato nel letto di una donna di cui non sapevo nemmeno il nome. Bisognava ammetterlo: era un'altra tacca da aggiungere alla mia infinita lista di tacche incise sulla cintura, questo sì, ma era anche un modo per dimenticare. Mi capitava spesso di ruzzolare fra le coperte con sconosciute e sconosciuti dopo una batosta come mercenario - capitava anche ai migliori! - ma stavolta...
Scossi la testa, mettendomi a sedere a gambe aperte sull'orlo del letto, gomiti sulle ginocchia, testa incurvata verso il basso, grugnendo tutta la mia disapprovazione in un verso arrabbiato. «Cazzo.» borbottai, strofinandomi le mani callose fra le ciocche, senza badare al fatto che dietro di me le coperte si stavano muovendo e il corpo sottile della nobile, che non aveva nulla di piacevole, nemmeno mezza lentiggine, neanche una ciocca di capelli fulvi, si stava svegliando. «Cazzo cazzo cazzo.» borbotto, a denti stretti.
«Tesoro..?» sussurrò la voce stridula della femmina: com'è che era fatta di faccia? Aggrottai la fronte e mi girai a guardarla. Già chiamarmi tesoro era un brutto segno... Di solito quelle che mi nominavano così facevano parte della specie: "ti ho avuto per una notte, ora sei mio", erano quelle che piangevano i lacrimoni più grossi! Ma a parte ciò, lei era una di quelle che avevano riso di Lui. Il principino. Avrei dovuto prenderla per le spalle e scuoterla, invece eravamo prevedibilmente finiti in un letto. Non sarei cambiato mai.
Ero proprio un coglione. Bisognava ammetterlo, c'erano molte cose che mi meritavo dalla vita: soldi, sesso, belle donne e begli uomini, avventure e gloria, onori infiniti. Fra queste cose però, giusto ai margini, lì sulle virgole nascoste, fra una ricompensa e un'altra, mi meritavo anche un boccale di birra in faccia.
"Conto così poco per te? Sono come gli altri?"
In effetti era stata una sfida all'inizio. Era lì, sul piatto d'argento, condito e fumante, in attesa di essere semplicemente morso. A portata di denti. Era esattamente come gli altri, nulla lo rendeva diverso, anche se all'inizio era sembrato così: era soltanto una sfida più grande delle altre. Il principe vergineo già promesso a qualcun altro, estremamente fedele e religioso. E io, la perdizione vivente, avrei vinto quel gioco.
Strinsi le mani fra i capelli e poi feci scontrare palmo contro pugno, facendo scrocchiare le nocche con un rumore soddisfacente. "Mi hai spezzato il cuore."
Cazzo, spezzare cuori era la mia specialità! Non c'era niente di meglio di una bella scopata lasciandosi dietro qualche ragazza a sospirare e piagnucolare il mio nome in attesa di un mio possibile, lontano, imprevedibile ritorno. Ma allora perché non mi sentivo un vincitore? Perché non mi sentivo appagato come qualsiasi altra volta? Avevo avuto quello che volevo. Avevo vinto. Che diavolo potevo volere di più?
Mi alzai in piedi cercando i pantaloni sul pavimento, che infilai con uno strattone abbottonandoli rapidamente. Prima di trovare la mia immancabile cotta di maglia la donzella si era già alzata, arrivandomi alle spalle per avvolgermi con le braccia che mi accarezzarono il petto, con un certo fare lascivo che avrei certamente approvato, in altri tempi.
«Te ne vai..? Non ti va di fare un secondo round?» cinguettò, mentre le mani scivolavano verso il basso, calando oltre il bottone dei pantaloni. Io ero davvero un fan dei secondi round, contro nemici e amanti, ma non stavolta. La strattonai via per i polsi, scocciato, ficcandomi la cotta di maglia e ravvivandomi i capelli all'indietro, il mio solito vanto, scandagliando velocemente la stanza alla ricerca dello spadone. Che non era quello dentro ai miei pantaloni: rifiutare il secondo round non significava ammettere di avere la spada meno affilata! «E dai, non andare v... UAH!»
Uno scossone fortissimo la fece cadere sul letto a gambe all'aria, mentre io avevo finito per ficcare la spada dentro alle assi del parquet per reggermi saldamente all'elsa, senza farmi sbalzare via. Più che uno scossone era un boato: come se le viscere delle nuvole fossero appena state strappate dal cielo, un grido, più che un brontolio. Mescolate alle urla degli ospiti appena fuori dalla stanza della donna in cui mi ero divertito per la notte.
«Che cosa è stato?!» la dama cercò di mettersi a sedere fingendo di avere un decoro che aveva perso nell'istante in cui aveva accettato le mie avances e si tamponò la fronte con il lenzuolo, emulando un qualche fazzoletto di pizzo che avrebbe altrimenti avuto.
«Non temere bambina, me ne occuperò io.» sfoggiai un sorriso sicuro, staccando via lo spadone dal pavimento per appendermela sulla schiena al solito appiglio nella cotta di maglia. Prima ancora che potesse fermarmi, avevo già le dita sulla maniglia. «Salvo sempre la situazione.» Anche se per lo più sventavo un disastro con uno più grosso e il resto del mio gruppo riusciva ad impedire che il guaio si propagasse.
Su quelle emblematiche parole, aprii la porta e uscii a grandi passi nel corridoio, cercando di capire quale genere di minaccia rappresentasse il botto che sicuramente tutto il Dirigibile D'Argento aveva sentito. Il pavimento ondeggiava e le pareti si inclinavano da un verso e dall'altro, come se il nostro mezzo avesse perso le sue particolari capacità di fluttuare nell'aria e ora stesse sbandando fra le nuvole.
Un furioso viavai di servi trafelati e nobili che battevano contro le porte di amici, parenti o conoscenti per avvisare di chissà quale disastro mi fece capire che era grave. Abbastanza da acciuffare al volo con la mia solita mancanza di tatto un inserviente per sbatterlo al muro, inchiodandolo. «Dimmi che succede.» Perentorio, saldai la presa sul bavero della camicia di un già terrorizzato servetto in livrea.
«Un fulmine ci ha colpito! Perdiamo quota!» strillò, alzando le mani in segno di resa, sudando come un maiale in attesa di essere arrostito e ficcato su uno spiedo con una mela in bocca. Oppure come uno di quegli avventori di taverna che dopo aver accettato una mia sfida a carte capiva di aver fatto il peggior errore della sua vita, preparandosi a perdere perfino le mutande. O a ricevere un pugno in faccia dopo aver ribaltato il tavolo, quando scoprivano il mio trucco preferito per barare. Ehi, nessuno aveva mai detto che fossi un giocatore pulito!
«E non avete un cavolo di modo per far funzionare questo coso lo stesso?» staccai una mano dalla sua giacca per puntare con l'indice il soffitto, ma era un'indicazione generica verso il Dirigibile, poi ripresi a tallonarlo.
«No.. Non lo so signore! Non credo! Non ci resta molto! Lasciatemi andare per favore!» gracidò, il che mi fece capire che il tessuto era talmente tirato dentro al mio pugno che lo stavo strangolando. Grugnendo, pieno di disapprovazione per le inutili risposte, lo mollai sul pavimento senza tanti complimenti e capii che dovevo agire in fretta. Il ferro dei miei stivalacci faceva un rumore eccessivo sul pavimento e sembrava che ad ogni passo il Dirigibile sprofondasse di più, così diminuii la pressione della mia camminata continuando ad avere fretta.
Ecco perché odiavo le cose volanti: potevano essere sputi, draghi, o enormi mezzi di trasporto dove io ero infelicemente piazzato sopra. Precipitavamo verso morte certa, ma forse uno come me, che aveva affrontato di tutto nella vita, l'avrebbe spuntata ancora una volta. Diamine, avevo il dono di scamparla anche quando non volevo. La cosa però era diversa per gli altri e forse, loro, stavolta non si sarebbero salvati.
Raggiunsi velocemente la stanza del principino, che poi era anche la mia prima di essere giustamente sbattuto fuori. Meritava di essere protetto, ero stato assoldato dal Re di Akra - certo, assoldato - anche per quello, eppure i miei piani erano stati scombinati molto prima di essere messi magnificamente in atto. Volevo soltanto la gloria, come poteva andare sempre tutto così male? «Cazzo...» La porta era spalancata e se lui fosse stato dentro alla stanza, probabilmente sarebbe già emerso per bacchettarmi sull'imprecazione appena sbottata. E invece non c'era.
Tirai un calcio alla porta che fremette come una delle mie avventure di letto quando ci davo un po' troppo dentro, sbattendo contro il muro lì vicino con un brutto cigolio. Mentre continuavo a dare sfogo alla mia frustrazione calciando le pareti, probabilmente peggiorando la caduta del Dirigibile, cercai di fare appello alla dannata memoria per ricordarmi quale fosse il numero della stanza del maghetto e del fioraio. Probabilmente avevamo le porte al fianco e io nemmeno lo sapevo... Non che me ne fregasse qualcosa.
In quel momento, una voce fin troppo familiare risuonò per tutti i lussuosi corridoi: era più roca di come me la ricordassi, ma forse era per colpa dell'apparecchio metallico da cui veniva fuori, probabilmente per mezzo di una magia meccanica che io non avrei mai capito nemmeno se spiegata venti volte.
«Ehm-ehm, devo dirlo qua dentro? Sicuro che mi sentono?» Un qualche verso incomprensibile dall'altra parte e continuò. «Qui parla...» Esitazione, era chiaro che lo fosse, ma non capii perché. Probabilmente l'angoscia di una situazione così pressante lo schiacciava. Di solito era così bravo a chiacchierare a raffica. «Il principe di Gilerines, Francis Levou in persona. Posso assicurarvi che arriveremo sani e salvi a terra, per ora posso solo consigliarvi di restare calmi... E non muovervi troppo!» La conversazione si interruppe bruscamente con un fischio rugginoso, come se qualcuno vi avesse posto fine con la forza.
«Merda...» quel principino Pel di Carota ce la metteva tutta per ficcarsi nei guai cercando di fare l'eroe, quando non sapeva nemmeno badare a se stesso... Il ricordo di un'ondata di birra in faccia mi fece pensare che, forse, un poco stava imparando a farlo. Ma non abbastanza.
Lasciando la porta della stanza spalancata come l'avevo trovata andai a zonzo per il Dirigibile, ignorando i commenti di qualche dama isterica che mi strillava "non muovetevi!". Quando arrivai in una sala da tè piena di tavolini di mogano ribaltati, acciuffai per una spalla un servo nascosto dietro ad un mobiletto con un servizio di ceramica rotto quasi sollevandolo da terra.
«Da dove si parla per far suonare quei cosi?!» Indicai un megafono ben piazzato all'angolo della stanza, in alto, posto in modo così strategico che era quasi difficile vederlo. «Avanti dimmelo! Subito!» In realtà non gli avevo dato nemmeno i secondi necessari a rispondere, stava sudando come l'altro servitore. Facevo questo effetto alla gente quando non volevo farci sesso, né ispiravo loro pensieri che conducevano ad un letto, un materasso, una stalla, un appezzamento di terra in cui rotolarsi nudi.
«La sala di comando!» rispose, trafelato, aggrappandosi al mio polso.
«E dov'è?!»
«Oltre questa stanza, sempre dritto fino alla sala delle spezie, poi giri a destra e superi la porta con la targa "locali privati agli ospiti" e alla fine, l'ultima porta sarà la sala di comando!» E
Ero così intento a minacciarlo che la lunga spiegazione mi aveva martellato la testa come facevano quelle canzoni che i bardi suonavano senza dare minimo senso al testo, pensando solo alla musicalità e ai ritmi di una taverna qualunque. Alla fine cancellavi l'esistenza delle parole e tracannavi birra muovendo la testa a tempo... Tutto questo per dire: non ci avevo capito un accidenti.
«Ripeti.» Mi guardò allibito. «Hai sentito?!» Lo scossi agitando il braccio e il tizio recitò di nuovo tutta la pappardella, stavolta ascoltata meglio. C'era solo un dettaglio, piccolo e insignificante: non sapevo leggere. Ma le incisioni sulle targhe non mi avrebbero fermato, maledizione.
Camminai, anzi sbandai contro le pareti man mano che il Dirigibile barcollava sempre di più, dondolando a destra e poi a sinistra, superai porte, incappai perfino su una coppia che ci dava dentro pensando fossero i loro ultimi istanti di vita. Probabilmente era così. Avrei dovuto proporre di unirmi a loro, sarebbe stata una di quelle perfette uscite di scena per una vita piena come lo era stata la mia: morendo col sesso! Ma avevo accantonato subito l'idea. Dovevo fare qualcos'altro, di più urgente, di più impellente. Il mio stomaco si stringeva dal bisogno istintivo di trovare quel lentigginoso maestrino per accertarmi che non esplodesse col resto dell'equipaggio.
Quando trovai la porta della sala di comando avevo i capelli appiccicati alla fronte per il sudore, le guance spolverate di spezie arancioni - quella stanza maledetta! - un paio di mutandine incastrate nelle cinghie dello stivale sinistro e lo spadone sguainato, in mano. In altre parole, ero pronto per qualsiasi battaglia, notizia, scenario mi fosse spuntato davanti. O almeno così credevo.
«MA CHE CAZZO?!» sbottai invece, dopo aver sfondato le porte con un calcio e aver fatto volare le mutandine da qualche parte dentro alla stanza. Non importava. Quello che stavo vedendo era ben più clamoroso. «Che cazzo stai facendo, coglione?!»
Qualcuno me lo aveva detto, che fidarsi è bene ma non fidarsi è meglio. Se mi fossi ricordato chi era, gli avrei sicuramente dovuto un paio di botti di idromele. C'era il capitano del Dirigibile, un tizio allampanato, brizzolato, stempiato, con un'espressione inebetita davanti ad un quadrante di pulsanti, con gli occhi imbambolati fuori da una vetrata immensa che faceva vedere con inesorabile lentezza le lande verdi che si avvicinavano. Aveva le mani ferme su certi pulsanti fra una miriade di altri che mi parevano tutti uguali, si muoveva come se sapesse cosa stava facendo ma aveva lo sguardo di chi ci avrebbe fatti morire tutti, me compreso. Ma non era quello il problema.
Appena dietro di lui, in piedi alle spalle del posto di comando del capitano, c'era il fulvo principino che aveva animato una delle mie ultime notti come mai nessuno aveva fatto. Aveva le mani premute sulla spalliera della poltrona del conducente, teso. E poi c'era il maledetto Kylar Meiridion e la sua animalesca amichetta da quattro soldi proprio lì accanto, a puntare un pugnale affilato sotto al collo di Francis, mentre lo teneva fermo contro di sé con un braccio avviluppato intorno al bacino e gli alitava qualcosa dentro all'orecchio. Spostò lentamente gli occhi smeraldo sopra di me, mentre il principino faceva lo stesso.
«Cosa credi che stia facendo?» disse, con un tono chiaramente sarcastico, ammiccando verso i sacchi pieni d'oro ammucchiati vicino ai suoi piedi, di cui non mi ero accorto perché ero troppo occupato a fissare la gola d'alabastro del più piccolo e il ferro che vi premeva contro. C'erano monete che straboccavano ma anche libri dall'aria familiare e rotoli di mappe. Mi resi conto che erano gli stessi libri che avevo sfogliato molto tempo prima, quando avevo scambiato un villaggio bizzarro per un mucchio di demoni dai cappelli rossi. Erano i volumi di Bidibi-Bodibi, i libri dell'erbacoso. Ed erano, soprattutto, le mappe dei Regni del Caos che valevano l'ira degli Dei. Non potevo crederci... Erano stati loro a derubarci. Era sempre stato Kylar Meiridion, che non appena mi aveva riconosciuto nella taverna - perché non passavo di certo inosservato! - aveva realizzato che valeva la pena prendersi tutti i miei possedimenti.
«Ora ti ammazzo.» Mi sembrava lecito avvisarlo in nome dei vecchi tempi. A me importava ancora qualcosa dei ricordi: era stato il mio generale. Lui mi aveva trovato dopo i disastri che avevo fatto con i villaggi che avevo ridotto in fiamme da ragazzino. Aveva visto del potenziale... E anche io lo avevo visto in lui. Mi aveva insegnato ad essere una versione simile a ciò che era lui: un bastardo donnaiolo, ma almeno umano. Solo che io conservavo la sua eredità mentre il verme se ne approfittava.
Roteai lo spadone avanzando verso di lui. «Ah - Ah! Fermo dove sei.» Premette più forte il coltello contro la carne del principino, che strinse le labbra gemendo. Una gocciolina rossa rotolò sulla pelle e il colletto del farsetto ne assorbì la discesa macchiandosi di rosso. Fui costretto a bloccarmi sul posto, esterrefatto.
«La spada, a terra. Falla strisciare verso di me.» disse la ragazza lupo arricciando il naso, in modo che gli occhiali si raddrizzassero sulla radice del naso. Grugnii un verso di disapprovazione e buttai l'arma sul pavimento calciandola via. Kylar aggiunse: «E ora alza le mani. E non pensare di fare i tuoi giochetti da piromane.» Prima di pensare che fosse stato il mio generale, dovevo ricordarmi che era il figlio di un pirata. E quei dannati ti fregavano sempre.
Sollevai i palmi mostrandoli verso di loro e con un sorrisetto infastidito commentai: «Davvero? Ti sei dato alle rapine ora?» Sorrisi sardonico. «Qual è la prossima mossa, svaligiare una taverna?» Poi mi ricordai che ci aveva derubato proprio lì, l'aveva già fatto. Sbuffò una risata.
«Oh, Cyran, sappiamo entrambi che la tua virtù non è l'intelligenza, non ti sforzare a pensare.» Che cavolo voleva dire con quello? Ero comunque abbastanza bello da sopperire alle mie mancanze. Invece lui aveva pensato bene a quel piano: sicuramente aveva preso Francis per accertarsi che io non gli dessi fuoco. «Sicuramente sono ridotto meglio di te, a far da cagnolino ai nobili!» Sorrise, accarezzando la giugulare del principino accennando proprio a lui, con una gioia maligna negli occhi. No, lui non era un ladro, era stato sicuramente per colpa della ragazza vicino a lui. Era lei che l'aveva organizzata, sicuramente. Lui era solo un soldato, brutale abbastanza da fregarsene se un ragazzo innocente moriva. Nei vecchi tempi anch'io me ne sarei infischiato. «Non che tu sia in grado di proteggerlo... Non sai nemmeno farlo da te stesso e le tue abitudini di merda!» Rise, mentre le fiamme dentro di me crepitavano.
Mi costrinsi però a restare abbastanza calmo. Non del tutto, non sarei stato io altrimenti. «Sono abbastanza sveglio da capire che puntare un coltello alla gola di un principe ti porterà parecchie rogne.» Feci un passo in avanti, sempre tenendo le mani sollevate. «Dimmi un po', che stai architettando?»
«Perché non glielo dici tu, amichetto di Cyran?» Fu una sorta di formula magica: Francis esalò un sospiro, come se avesse riconquistato l'abilità di parola, e curvò coraggiosamente il collo verso il suo carceriere per strillargli contro.
«Intanto lasciami andare, ladro zoticone! Tu...» Il pugnale gli venne puntato più forte sulla pelle.
«Rispondi solo alla domanda.»
Ci fu di nuovo una certa tensione nel viso dolce del principino. Lo stava comandando a bacchetta, come aveva fatto col capitano della nave, che la conduceva chissà dove mentre quella precipitava. La mia attenzione sull'uomo imbambolato durò un attimo, tornai a scrutare il rosso accorgendomi solo allora dei dettagli: aveva gli occhi stanchi, cerchiati da profonde occhiaie, arrossati, i capelli scompigliati; gli abiti erano gli stessi della sera precedente, stropicciati e sporchi d'alcol. Aveva perso tutta la sua impeccabile cura, la sua maniacale attenzione per il modo in cui appariva agli occhi altrui.
«Il Dirigibile sta precipitando, il capitano voleva fare ultima tappa a Wicarema per riparare il motore ed evitare una tragedia, ma loro lo stanno costringendo a proseguire ad Irem, dove saremmo dovuti atterrare.» rispose con meccanica precisione, come un burattino mosso a comando, anche se i suoi temporaleschi occhi di metallo continuavano a muoversi a destra e sinistra come in cerca di un modo per ribellarsi. Ma non c'era.
Dardeggiai un'occhiata allo spadone ormai a terra, ai piedi della ladruncola che ci aveva poggiato sopra una scarpa con fare possessivo. Se l'avesse sporcata... Il mio ultimo pensiero sarebbe stato che fosse una donna. La mia arma non si toccava, non si sporcava, non si rompeva: erano regole sacre per qualsiasi essere vivente.
Intanto, il principino continuò. «Pare che lì ci sia il contatto disposto a comprare tutta la loro merce rubata, ma hanno tempo fino a stasera.» Kylar batté una mano sulla sua spalla, ed io desiderai di staccargliela via dal polso il più in fretta possibile.
«Un'ottima spiegazione. Completa ed esaustiva, bravo!» Aveva quel classico sorrisetto di chi riusciva sempre ad averla vinta... Lo stesso sorrisetto che mi incollavo io sulla faccia, sì, ma almeno non baravo con la magia: sapevo che era in grado di controllare le persone con la sua voce, era anche il modo in cui era riuscito ad ottenere il grado di generale senza tanto sforzo. Me lo aveva rivelato lui, vantandosene: "quando il destino ti offre una succulenta possibilità, perché aspettare?" Digrignai i denti.
«Non ci arriveremo in tempo ad Irem! Ci farai ammazzare tutti, coglione!» Fomentato dalla mia rabbia alzai un pugno, avanzando di un passo, ma un'altra gocciolina di sangue dal collo del lentigginoso mi fece arretrare. Forse, se gli avessi dato fuoco al cervello, sarebbe morto prima di uccidere Francis. Ma chi sarebbe stato più veloce: il mio potere o la sua mano? Non volevo scoprirlo. «Senti, pensaci un attimo» Non ero mai stato bravo con le parole, le uniche cose in cui ero capace era il sesso e il combattimento. E ad ubriacarmi, ovviamente. Grugnii qualcosa a bassa voce, mentre i due criminali mi fissavano e il boato del temporale infuriava fuori dal Dirigibile. Dovevo dire qualcosa di convincente, o almeno distrarre l'idiota, ma ci pensò il tempaccio.
Tutto il velivolo s'inclinò bruscamente di lato, così monete d'oro, spadone, libri, carte, sedie, bulloni, si mescolarono in un guazzabuglio di oggetti confuso che roteò insieme ai corpi dei presenti, che sbatterono contro alla parete. Una chiave inglese colpì la tempia della criminosa fanciulla che si accasciò a terra. Kylar nel trambusto aveva lasciato andare Francis e ora il mio spadone giaceva fra me e il pirata. «Fermo.» mi ordinò, ma il suo dannato potere su di me non aveva effetto. Lo realizzò immediatamente: ci lanciammo sull'arma nello stesso momento, nella stessa frazione di secondo, quella che servì a posare le mani nello stesso istante sulla lama.
Mentre lottavamo per appropriarcene, i miei occhi schizzarono sulla vetrata davanti alla postazione del capitano, che privato della sua ipnosi aveva riconquistato il raziocinio ed ora, capendo in che situazione si era cacciato, stava gridando. Dai finestroni si vedeva un panorama spettacolare: vallate erbose color smeraldo e fiordi che si aprivano in strapiombi e crepacci dall'aria particolarmente letale. La terra si avvicinava e non era più tanto spettacolare. Anche perché si avvicinava nel senso di: «Prepararsi all'impatto, morte imminente si avvicina!» strillò il capitano nel suo aggeggio magico.
Lasciai andare lo spadone e agguantai furiosamente la spalla del principe, stringendolo forte contro di me in un abbraccio protettivo. Sembrava minuscolo in quel momento, contro al mio petto quasi spariva. Poi chiusi gli occhi e aspettai di sentire un colpo, un ruggito, un tremito, una spaccatura. Qualcosa. Passò un secondo, poi due. Al terzo riaprii gli occhi.
Non era accaduto nulla.
Poi, una parlantina balbettante esordì dalla porta spalancata della sala di comando. «N-n-nessuno mo-morirà oggi!» Il maghetto e il fioraio erano venuti a salvarci il culo, ancora una volta.
❧❧❧❧
*L'angolo del quinto anniversario di un'autrice ormai vecchia!*
Hola a tutti!
Ebbbbene sì signori lettori, questa storia va avanti dal 2015 (piango male), sono ufficialmente cinque anni ormai che la porto avanti... Ma confido di finirla! Sapete bene che io non abbandono, ma ritorno sempre! Intanto auguro a tutti un buon anno, mi siete mancati(?) e mi è mancato scrivere, specialmente. Spero che il capitolo vi sia piaciuto, non ho riletto la parte di Cyran perché mi porto avanti questo capitolo da così tanti mesi che non ce la potevo fare xD quindi chiedo venia quindi per i refusi, per il lessico probabilmente di cavolo... Confido di non aver fatto troppo una cacca! Alla fine mi piace anche scrivere di getto e accettare come viene ahahah (che tristezza...). Non so nemmeno se ho reso giustizia alla stupidità di Cyran come ho sempre fatto, boh.
Comunque, presto aggiornerò il resto delle storie. Si spera. Grazie a tutti per la pazienza e ancora auguri!
~ Alla prossima ~
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