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24. Fulmini e saette

Francis

Mi svegliai al rumore di tuono.

Aveva appena squarciato l'aria vicino alla finestra, illuminando a giorno la camera da letto di una luce bluastra, tornata velocemente ad immergersi nel buio. Era già sera, i candelabri erano tutti spenti e la musica si era fermata, lasciando il posto ad un silenzio quasi assordante, ove il mio cuore palpitava sin troppo. Tastai alla cieca lo spazio accanto al mio sul materasso, ma lo ritrovai vuoto e freddo, segno che Cyran doveva essersene andato da già un bel po'.

Mi stiracchiai mettendomi a sedere, sussultando per il dolore che mi colse all'improvviso all'altezza dei fianchi. Perfino camminare sembrava un'operazione ardua e farlo a gambe vagamente divaricate mi faceva sembrare un elefantino durante i suoi primi passi. Imbarazzante.

Incespicai verso il pacco di fiammiferi ed accesi qualche candela rischiarando l'ambiente: ero ancora sporco, perciò mi affrettai a sciacquarmi con l'acqua pulita ben conservata in una brocca vicino ad un catino d'argento. Poi mi infilai la bella camicia da notte che avevo comprato in mattinata – lieto di avere qualcosa di pulito con cui cambiarmi, cosa che non accadeva da settimane – e mi arrischiai ad affacciarmi nei corridoi, sperando di incappare in qualche nobile, che mi avrebbe visto in quelle impudiche vesti.

In effetti qualcuno c'era, ma erano tutti troppo coinvolti nei propri affari per far caso a me, una faccia punteggiata di ricci rossi che spuntava solitaria nel vano della porta. C'era un valletto in livrea che trasportava carrelli ripieni di cibo per il servizio in camera, una vecchia dama che aveva il naso affondato in un volumetto e non le importava di inciampare nei tappeti fra una pagina e l'altra, o un mercenario a torso nudo che con il gomito appoggiato allo stipite della porta si affacciava in una stanza parlottando con una dama.

Farsetto sotto braccio, capelli corvini appena più lunghi del normale, pelle abbronzata, un tatuaggio sulla spalla scuro a forma di fiamma – che io non avevo mai notato prima d'ora – ed occhi immersi nella lava bollente. Il mio mercenario, non uno qualunque. Mi chiesi cosa stesse facendo Cyran, prima di scorgere dietro alla sua schiena una dama tutta scompigliata, in camicia da notte stropicciata e un po' troppo scollacciata a causa dei fiocchi slacciati sul petto. Impallidii.

Poteva essere che...?

Mi affrettai a rientrare nella nostra camera, chiudendo silenziosamente la porta solo per appoggiarci contro la schiena con un moto improvviso d'ansia nel petto. Quanto tempo era passato da quando mi ero addormentato? E cosa poteva aver fatto mentre io dormivo? Strizzai gli occhi, incapace di darmi una risposta e poco volenteroso nel farlo. Dovevo avere fiducia, perché tutto quello che avevamo fatto insieme e tutti i baci che c'eravamo scambiati nel corso delle nostre avventure dovevano pur valere qualcosa.

Mi infilai gli stessi vestiti e stivali della partenza, per nulla intenzionato a cercare fra gli abiti nuovi perdendo ancora tempo, poi uscii dalla stanza senza più ritrovare quella scena davanti agli occhi. Il corridoio si era fatto deserto e silenzioso, permeato soltanto dal suono del temporale che infuriava nel cielo intorno a noi, facendo tremare impercettibilmente il pavimento. Calpestai a grandi passi la moquette rossa superando paralumi di cristallo e targhette d'argento che recavano i nomi delle sale più vicine, pronto ad affacciarmi un po' dappertutto per trovarlo.

Non ero sicuro di volere una spiegazione per ciò che avevo visto, desideravo solo stargli vicino, così da calmare quel senso di preoccupazione crescente che sentivo salirmi e gorgogliarmi dentro allo stomaco.

Quando mi ritrovai nella sala bar, delicatamente illuminata da fiammelle soffuse e riempita dal tintinnio di bicchieri e risate, scandagliai i presenti alla ricerca di un volto in particolare, che sapevo sarebbe spiccato insieme agli altri. Lo trovai subito, ma soltanto grazie al rapido sguardo che mi lanciò quel suo vecchio amico, Kylar.

Gli occhi di smeraldo brillavano di una luce pericolosa mentre sorseggiava un drink con l'aria di chi non aveva la minima intenzione di avvicinarsi, ma si aspettava che lo facessi io. La bizzarra ragazza con le orecchie da lupo era al suo fianco e aveva una faccia accigliata, specie perché lui se la teneva stretta con un braccio intorno alla vita con un atteggiamento possessivo e lei invece guardava da tutt'altra parte, interessata forse alla partita a carte del tavolo più vicino, a giudicare dal rapido movimento d'occhiali appuntati sulla radice del naso, mentre scrutava la posta in palio: un cumulo di monete scintillanti in fila l'una sull'altra, che tremavano per colpa del temporale.

Poi c'era Cyran. Di spalle, circondato da due dame – una delle quali era la donna che avevo visto in corridoio – che rideva con il suo solito charme arrogante, come se gli avessero appena fatto un complimento e ne godesse enormemente. Aggrottai la fronte, pronto ad incombere davanti a tutta la scena con il mio imbarazzante passo e un'espressione piccata, ma dopo lo vidi inclinarsi sulla donna alla sua destra per lasciarle un languido bacio sulle labbra, ed io barcollai indietro.

Come se avessi appena ricevuto uno schiaffo in pieno viso.

Quel Kylar mi guardava ancora, bevendo dalla boccetta che aveva al collo, con un sorriso maligno che sembrava sfidarmi a fare qualcosa per cambiare la situazione. Invece non feci assolutamente nulla, conscio di sentire il pavimento tremare sotto agli stivali e non per la tempesta intorno al dirigibile.

Mi lasciai cadere sullo sgabello che fortunatamente era dietro di me, ma non perché ne avessi voglia. Erano semplicemente state le mie ginocchia a cedere e il destino, avendo pietà di me, aveva evitato che cadessi col sedere a terra davanti a tutta la sala. Sentivo gli occhi pungersi, preannunciando amaramente un'ondata di lacrime, ma mi sforzai affinché accadesse il contrario. Anche se ormai non importava, non mi avrebbero visto: mi ero girato di spalle rispetto ai divanetti ed ero curvo sul bancone di legno, di fronte al barista e alle file interminabili di bottiglie d'alcol.

Ero un principe e avevo un onore da difendere: non avrei pianto per lui. Non ero come quelle svenevoli dame che si riempivano la testa di speranze e poi venivano scaricate, disperate dal senso d'abbandono. No, non ero come loro. Eppure il cuore mi batteva fortissimo, stravolto da un dolore che mi squarciava il petto in due, e la bocca mi tremava per l'istinto irrazionale di abbandonarmi alle lacrime. Che stupido che ero stato! Non ero che un gioco, per lui: il "principino" da sedurre ed ammaliare, da riempire di sguardi e di dolci parole solo per ottenere ciò che voleva. Adesso che l'aveva avuto, non gli importava più.

Mi era sembrato così sincero, così reale e coinvolto, mentre mi raccontava il suo passato, mi svelava i suoi tormenti e mi baciava come se fossi l'unica persona al mondo di cui gli importasse. Probabilmente raccontava le stesse cose a tutte le persone che corteggiava, ed io ero comunque caduto nel suo tranello come uno sciocco ingenuo.

Sapevo che più ci pensavo, più la voglia di piangere si sarebbe fatta forte. Sapevo che se mi fossi voltato e l'avessi visto ancora una volta, allora avrei sentito il cuore andare in pezzi. Così rimasi di spalle, accasciato davanti al bancone, lo sguardo cupo, i pensieri incentrati su quale tipo di alcol ordinare, uno forte, uno capace di annebbiarmi la mente per cancellare ciò che era successo in quel giorno stesso. Così bello e così spietato. Il mio corpo ne portava ancora i segni sul corpo. Mi sarebbe andato bene quel whiskey dall'aria antica o quel vino d'ottima annata che in tanti facevano roteare dentro ai calici di cristallo. Ma mi sarebbe andato bene anche un rozzo boccale di birra pieno fino all'orlo: qualsiasi cosa, purché colmasse il dolore lancinante che mi straziava il petto.

Poi, all'improvviso, qualcosa attirò la mia attenzione.

Scivolava accanto al mio gomito, una bella lettera sistemata sul bancone con il sigillo di Gilerines, in ceralacca azzurra spezzata da cui si intravedevano onde del mare dentro al pistillo di una margherita. Era casa mia. Una lettera da casa mia! Mi mancava. Mia madre e mio padre, le mie due piccole pesti di sorelle, il ticchettio della pioggia costante, il canto dei gabbiani, la serra umida, le torte di albicocche della cuoca e le risate tonanti della governante.

Sollevai lentamente gli occhi sull'uomo che la possedeva e rimasi folgorato. Era una bellezza da Continente Occidentale, sofisticato come un nobile e fiero come un cavaliere senza macchia, ma non era neppure quello a stupirmi. Né la carnagione dorata, né i capelli di un castano così chiaro che si avvicinavano al colore del grano bruciato, né gli occhi nocciola riempiti di pagliuzze verde giada. E nemmeno quell'elegante neo sotto al labbro.

Mi stupii per le lacrime che gli riempivano gli occhi, cadendo irrefrenabili sulle guance per bagnare i fogli di carta spiegazzati sotto al suo viso. Non capii se fosse più forte l'empatia o la pietà che provavo per lui, ma ero meravigliato, turbato e al tempo stesso attratto da quella malinconia struggente che leggevo nel suo sguardo.

«Uhm... Messere..?» esordii, allungando con cautela una mano verso di lui, senza sapere se poggiarla sulla sua spalla fosse la cosa giusta. Sfiorai con la punta delle dita la camicia di un bianco immacolato, incerto. Voltò il viso verso di me senza asciugarsi la pelle bagnata, senza curarsi di mostrare la tristezza che gli arrossava gli occhi. «Se posso chiedere...» strizzai le labbra, insicuro se continuare o farmi i fatti miei, come l'etichetta avrebbe voluto. «... cosa vi rende tanto triste?»

Sgranò gli occhi e, finalmente, si rese conto che stava piangendo. «Non è niente, non c'è ragione di preoccuparsi.» evitò il mio sguardo pulendosi gli zigomi umidi con il fazzoletto da taschino, ficcandoselo rapidamente nella giacca senza aver finito.

«Quella è una lettera del mio paese. Gilerines.» cercai di sorridere, di sembrare il più amichevole possibile. Se gli dei mi avevano regalato una qualità alla nascita, era quella di sembrare sempre socievole e ben disposto verso gli altri. «Potete fidarvi di me.» rincarai la dose, stavolta accarezzandogli la spalla con la fronte aggrottata da una malcelata mestizia.

«E' solo che...» sentii un forte sospiro scuoterlo dall'interno, come se tutta la sua anima si ribellasse al corpo e tentasse di scappare via, lontano da quelle emozioni. Non continuò.

«Cosa?»

«L'ho perso. Se n'è andato.» In pochi attimi le lacrime avevano ricominciato a scorrere e non provò a fermarle, anzi si coprì la bocca fra le mani, come a trattenere il respiro, angosciato, sconvolto, agghiacciato. «La tisi me l'ha portato via. Me l'ha portato via.» ripeté. Negli occhi aveva impresso il terrore più grande, il più fatale. Quello dell'arresa. Nemmeno io avevo raggiunto quello stato d'animo, nonostante gli anni passati dalla scomparsa della principessa.

Quando sopraggiungeva la morte sapevi che non c'era più niente da fare.

«Io...» Non sapevo cosa dire, non ci sarebbe stato niente in grado di aiutarlo. «Come si chiamava?» sussurrai, ben sapendo che se non potevo consolarlo almeno potevo provare a ricordargli qualcosa di più felice.

«Lysan... No.» Fissò il fondo del suo bicchiere vuoto. «Lyle. Si chiamava Lyle.» Non disse niente per un bel po', restando semplicemente a fissare il via vai continuo del zelante barista, indaffarato ed impegnato a servire i suoi clienti.

«Io sono Francis. E' un piacere conoscervi.» dissi dopo qualche secondo, prendendogli la mano non come presentazione, più come uno scambio di calore reciproco. Non era importante che sapesse la mia identità di principe, temevo che cambiasse comportamento altrimenti. Piuttosto gli sorrisi, cercando di essergli di consolazione.

«Axel.» rispose, breve e conciso. E pensai che le cose finissero lì, che si separasse dal mio tocco, che si richiudesse nel suo addolorato mutismo. Invece scivolò in avanti con il busto dallo sgabello e azzardò un abbraccio appena accennato, giusto un posarsi flebile di mani sulle braccia, ed un appoggiarsi di fronte sulla sua spalla. Profumava proprio di occidente, uno di quegli odori forti ed eleganti da grande città. «Avrei dovuto usare i soldi del viaggio per cercare delle cure, un dottore... Avrei dovuto...»

Non finì mai la frase. Una mano si frappose fra noi e ci separò con uno scatto brutale, quasi rischiando di far ribaltare all'indietro gli sgabelli. Cyran ci guardava dall'alto della sua imperiosa altezza, gli occhi d'arancio che mandavano lampi di rabbia e le sopracciglia gravemente incurvate verso il basso.

... Sì, avrei voluto che accadesse.

Invece Axel non finì mai la frase perché scosse la testa, distrutto dal dolore, così che io potessi sbattere una mano sul bancone e prendere una decisione di cui mi sarei pentito amaramente. «Beviamo.»

Il bel ragazzo dal cuore spezzato non rispose nulla, segno che non disapprovava la mia incosciente scelta: alzai il dito verso il barista ma non avevo idea di cosa ordinare. Non bevevo insieme agli altri in taverna, un po' come l'erborista, anche se lui aveva ottime ragioni per astenersi. Ora che ci pensavo, l'unico a bere come una spugna era Cyran.

Bastò formulare il suo nome nella mia mente perché una fitta di dolore mi colpisse dritto al petto, facendomi mozzare il fiato. Il ricordo delle sue calde braccia, del suo corpo dentro al mio, si fuse con quello della sua schiena china davanti alla porta di una stanza che non era la nostra, e poi con il ricordo delle sue labbra a combaciare con quelle di una tipa che non conosceva nemmeno. Le stesse labbra con cui aveva baciato il mio corpo, me. Una gran rabbia, mischiata all'umiliazione, alla tristezza, alla frustrazione, mi fecero stringere forte i pugni. Avevo tradito la principessa per lui. Avevo infangato il buon nome del nostro matrimonio, soltanto perché era riuscito a sedurmi.

«Voglio qualcosa di forte.» ordinai, trattenendo a stento le lacrime che mi bruciavano agli angoli degli occhi. Non volevo piangere, ma era una tentazione così forte che l'unico modo per trattenerla era stringere il bicchierino di cristallo che si riempiva fino all'orlo di liquido verde. «A Lyle.» Alzai il bicchiere verso l'uomo al mio fianco e lui fece altrettanto, con un sorriso che non aveva assolutamente niente di felice.

«All'oggetto della tua sofferenza.» brindò, avendo inevitabilmente notato quanto fossi stravolto, come io avevo fatto con lui. Il vetro si scontrò con un tintinnio, poi ognuno si portò l'orlo alle labbra. L'alcol scese liscio come l'olio, ma ne avvertii il passaggio goccia dopo goccia, ognuna più bruciante dell'altra, finché non mi aggredì lo stomaco con una vampata di calore bollente. Era simile a quello che sentivo per il mercenario quando mi metteva le mani addosso, quando mi sussurrava morbide parole nell'orecchio o semplicemente mi scrutava con quelle iridi color lava. Volevo dimenticarlo. Volevo dimenticare quelle sensazioni annegandole nell'alcol.

«Un altro.» chiesi, avvertendo l'impellente urgenza di dimenticare tutto ciò che le sue labbra, le sue mani e la sua voce mi avevano fatto provare fino ad ora. Volevo soltanto essere una pagina bianca su cui poter riscrivere i miei sentimenti, incominciando col mettere per primo sulla lista il sospetto nei suoi confronti. Mai fidarsi dei mercenari donnaioli.

Così mi scolai un secondo bicchierino, stropicciando le labbra in una smorfia disgustata, poco abituato a quel sapore acre, forte, amaro che mi impastava la lingua. Lo stomaco pulsava e chiedeva pietà, contraendosi su se stesso al punto che ero costretto a premermi una mano sulle labbra per trattenere un'ondata improvvisa di nausea. Nemmeno quella riuscì a convincermi dal fermare un principio di sbronza, una che si sarebbe rivelata davvero pericolosa di lì a poco.

«Ancora?» Non sapevo se me l'avesse chiesto il barista o il bell'occidentale perché il mondo si era fatto ovattato, segno che ero sulla giusta strada per cancellare i ricordi della giornata. Annuii con goffi movimenti del capo allungando il braccio, con le guance bollenti e il fiato corto, aspettando che il bicchiere venisse riempito ancora e ancora e ancora. Alzavo il gomito sempre più in alto, bevevo senza fermarmi e continuavo a tentare di calmare l'arsura che avevo nella gola col risultato di sentirla bruciare ancora più forte.

Alla fine, mi ritrovai a barcollare sulla moquette senza sapere quando o come mi fossi alzato: mi limitai a sventolare una mano verso Axel, un sorriso ebete allungato da una guancia all'altra e i piedi che incespicavano nelle gambe dello sgabello. Dovevo andare da qualche parte e non ricordavo dove... Non lo scoprii mai, piuttosto mi aggrappai al lucido bancone di marmo, operazione che mi salvò da una rovinosa caduta. Mi sentivo più leggero nonostante il fuoco nella pancia; morbido, come sospeso su una nuvola soffice. Mi sentivo allegro e senza pensieri.

Tutte sensazioni che durarono meno di cinque minuti, quelli che precedettero il sopraggiungere di un'immagine che mi fece sbattere i piedi a terra. Mentre io e l'occidentale condividevamo antiche e nuove sofferenze sorso dopo sorso, lui era là, spensierato, a sbaciucchiare due svergognate, voltando il viso da un lato e dall'altro per dedicarsi ad entrambe; ancora spaparanzato sul divanetto di fronte al suo antipatico quanto affascinante amico. Quest'ultimo captò il mio sguardo più rapido dei levrieri da caccia di mio padre quando scorgevano un coniglietto e mi sorrise, scolandosi un sorso del liquido nella boccetta che portava appesa al collo.

Gli sorrisi anch'io.

Ma stavolta non restai lontano a farmi prendere in giro, no. Alzai i tacchi e camminai a grandi passi verso di loro, la faccia paonazza e i pugni stretti. Sapevo che, dal rumore che facevo ad ogni esagerato battito di stivali contro il pavimento, gli avventori che superavo si giravano verso di me per guardare – e spiare – cosa stesse succedendo, ma non m'interessava. Avrei fatto fulmini e saette quella sera, proprio come il tempo che infuriava fuori dal Dirigibile d'Argento, facendolo tremare. Li avrei fatti tremare anch'io, maledizione.

«TU!» urlai, puntando l'indice contro Cyran, che non si era accorto del mio arrivo fin quando non mi aveva trovato davanti al tavolino che separava i loro divanetti. Sussultò, lo potei notare dal movimento delle sue spalle ampie o dal modo in cui le mani si strinsero più forte intorno alla vita delle due dame dalla discutibile dignità. «Sei un rozzo, volgare, maleducato, balordo, mascalzone...!»

Se non mi fossi fermato subito, la lista sarebbe stata infinita. Eppure fui costretto a farlo perché l'agitazione mi stava facendo mancare il fiato nei polmoni e mi aggrappavo ad un unico grosso respiro per il discorso che avevo in mente. Ma l'alcol tirava brutti scherzi e mi accorsi di avere la bocca troppo impastata, la lingua intrecciata, lo sguardo offuscato. «Come hai potuto farmi questo?» biascicai, fissando le donne al suo fianco, che sembravano trattenersi a stento dal ridere. Anche quel Kylar aveva un sorrisetto perfido stampato sulla faccia.

«Conto così poco per te? Sono come gli altri?» Avevo perso del tutto il controllo. Non sapevo nemmeno se stessi dando bocca a tutto ciò che mi passava per la testa o se mi fossi appisolato sul bancone e il mio fosse un sogno molto vivido. Ma se c'era una cosa di cui ero certo, erano le lacrime che premevano dietro alle palpebre. «Quello che avevamo era così... bello. E tu hai rovinato tutto. Perché l'hai fatto?» Sentii il pianto caldo e copioso solcarmi le guance, così come sapevo che mi stava colando il naso. Non era uno scenario dignitoso per un principe. «Mi hai spezzato il cuore.» Tirai su con le narici arrossate. «Ti odio! Ti odio tantissimo, maledetto schifoso di un mercenario!»

Sapevo di non aver fatto abbastanza per guastare la mia situazione, così raccolsi uno dei boccali sul loro tavolino e gli lanciai il contenuto dritto in faccia. I suoi bei capelli corvini si afflosciarono sulla fronte mentre la pelle abbronzata si ricoprì di goccioline, che gli scivolavano sui zigomi alti come lacrime, abbinandosi alle mie.

Calò un silenzio imbarazzante in tutta la sala, uno in cui lui mi fissava serio senza dire una parola. Uno in cui, per disgrazia del destino, le mie gambe si erano paralizzate sul pavimento. Poi, un fulmine squarciò l'aria vicino alla finestra, facendo sobbalzare gli avventori. Fu il mio segnale: mi girai e iniziai a correre, in preda ad una cocente umiliazione e ad un dolore che mi dilaniava il petto. La destinazione era la mia stanza, lo stato d'animo era la tempesta. E l'avrei affrontata da solo.

❧❧

Rhod

Alla fine era sempre così. Mentre Cyran e Francis battibeccavano fra di loro perdendo tempo, io e André eravamo gli unici ad occuparci delle faccende pratiche: al di là dello shopping a cui ci aveva costretti il principe, la questione più importante era interrogare Marshall prima di imbarcarci in un viaggio nel lusso sfrenato, uno a cui nessuno dei due era abituato.

Il misterioso mago non aveva abbastanza soldi per unirsi alla raffinata schiera di nobili che aveva pagato per avere un posto nel Dirigibile d'Argento, così avevamo cercato di trattenerlo più tempo possibile con noi dopo il disastro in taverna della sera prima. Era venuto fuori che non ne sapeva assolutamente niente dei nostri soldi, libri e mappe rubate, ma aveva cancellato la memoria degli avventori di quel pub perché aveva un conto in sospeso con l'oste e non voleva rogne.

Una spiegazione che non mi aveva convinto nemmeno un po', ma insistere non era servito a niente. Era un tipo amichevole e aveva risposto dettagliatamente alle nostre domande, con estrema calma, come se non mettesse in dubbio la sua versione dei fatti. La litigata con l'oste si era scatenata perché quest'ultimo gli aveva proposto un lavoro a tempo pieno come cantante e, rifiutando, l'uomo lo aveva minacciato di spargere cattivi pettegolezzi su di lui fra le taverne degli altri villaggi, in modo che nessuno lo assumesse più.

Un colpo basso a cui Marshall aveva risposto con la magia, un ottimo espediente per sfuggire ai guai che si profilavano nella vita di un mago. Per quanto fosse difficile credergli, lo capivo... Anche se c'era qualcosa in lui che non mi convinceva per niente. Non che i miei presentimenti avessero qualche importanza: ce lo lasciammo alle spalle, dicendogli addio la notte prima della partenza. Non lo avremmo rincontrato tanto presto, quello era un presentimento di cui ero certo.

«Mmh... Que-questo b-budino..» balbettai con un'aria felice, ficcando la forchetta dentro al piatto che si ergeva su una grossa pila: avevo già la pancia piena fino ad esplodere ma mi ero messo in testa di assaggiare tutto quello che era stato servito per cena nella sala banchetti. Le cosce di pollo al timo con ricci di patate era un'armonia di croccante e spumoso, i maccheroni al formaggio filavano dalla forchetta alla bocca fumando fragranti, mentre le macedonie di frutta esotica ti rinfrescavano ad ogni cucchiaiata. E poi c'erano i dolci, cucinati ed assemblati così sapientemente che il cuoco doveva essere per forza un mago specializzato in arti culinarie.

La cosa più bella, però, non era rimpinzarsi. Era farlo insieme ad André, che con molta più calma di me spiluccava il contenuto del mio piatto senza smettere di guardarmi. Non aveva un'espressione vera e propria, ma avrei giurato di vedere i lembi delle sue labbra sollevarsi ogni tanto verso l'alto, mentre un costante luccichio beato gli baluginava negli occhi verde mela.

«...» Sfarfallai le palpebre. «Che c'è?»

«Sei sporco di budino sulle labbra.» disse, senza scomporsi, spingendomi immediatamente a tastarmi la bocca, alla ricerca del minaccioso sporco. «No, no, qui...» Allungò il braccio e spinse il pollice sul labbro superiore, tastandolo più volte per togliere l'eccesso di budino che mi era rimasto. Venne fuori una specie di carezza e, il modo in cui mi guardò mentre mi puliva, mi fece all'improvviso diventare rosso come un pomodoro.

«Ah.. ehm.. g-gr-gra-grazie.» biascicai, abbassando gli occhi blu sul tavolo. Il cuore mi batteva così forte che pensai fosse lui a far tremare l'acqua dentro ai bicchieri, che tintinnavano e si spostavano sulla tovaglia di qualche millimetro.

Un fulmine esplose fragoroso vicino all'oblò , facendomi saltare di botto sulla sedia. Non era il mio cuore, dunque. «Ho mangiato.. a-abbastanza.» Avevo talmente tanta roba nella pancia che la parola "abbastanza" nemmeno ci si avvicinava, ma non era la sensazione di pienezza ad avermi chiuso all'improvviso lo stomaco. Un tuono risuonò fuori dal Dirigibile e le gambe iniziarono a tremare così forte da farmi battere i piedi sotto al tavolo.

Mi alzai velocissimo, rischiando di trascinare con me la tovaglia e tutto ciò che c'era sopra. Pile di piatti, posate, cestelli di pane, brocche d'acqua e vino. Riuscii a trattenerli agitando le dita nell'aria, acciuffandoli con la forza del vento e rimettendoli in equilibrio al loro posto.

«Davvero? Sembrava ne volessi ancora.» accennò il biondo, indicando le tavolate ancora imbandite, nonostante un numero spropositato di persone ne avesse attinto. Appena una portata si svuotava valletti in livrea velocemente la cambiavano con una pietanza fumante. Ma io non avevo più fame.

«D-d-da..» Un altro fulmine squarciò l'aria e una coppia vicino a noi sussultò animosamente, visto che il pavimento si era messo a tremare più forte di prima. La voce mi mancò all'improvviso, sostituita da un groppo di paura in mezzo alla gola. «Non... non sa-sarei m-mai dovuto.. ve-venire...» sussurrai, fra me e me, agitandomi spaventato per la sala. Mi voltai appena in tempo per abbandonarla verso il posto di André: lo trovai in piedi, più vicino a me di quanto pensassi. «Vado in ca-camera.»

Lui però mi seguii, camminandomi al fianco senza lasciarmi da solo con la mia angoscia. «Cosa c'è che non va?» chiese, sfiorandomi la mano con la sua, cosa che mi fece fermare di botto. Deglutii.

«E'.. E' c-che..» L'ennesimo fulmine esplose vicino al dirigibile, illuminandogli per una manciata rapida di secondi la faccia d'azzurro. Spinto da un'irrefrenabile ansia ed un improvviso spavento, saltai dritto nelle sue braccia, faccia schiacciata contro il panciotto raffinato che gli aveva comprato il principe e mani strette sulla camicia, dietro alla sua schiena. Mi accorsi di tremare più forte solo quando mi accarezzò pazientemente i capelli. Ormai poche cose mi facevano paura: le persone le affrontavo facendole esplodere in pezzettini e la morte la combattevo risvegliandomi dopo ogni sventura. Ma questa volta...

«Parlami.» sussurrò, con il suo tono calmissimo, in grado di tranquillizzare anche il più pazzo fra i pazzi.

«I fulmini.» risposi velocemente, quasi temendo di invocarne uno col solo pensiero. Scostai il volto reclinando il collo per poterlo guardare. «Sono... già m-morto così.» Ormai era difficile trovare un modo in cui la mia vita non si era spenta. «Se... Se i-io so-sono qui... F-farò c-c-colpi-colpire il di-dirigib..ile.» Se io ero fra l'equipaggio, loro sarebbero morti insieme a me. Tutti. Bastava un fulmine sul pallone del dirigibile, uno in grado di raggiungermi per elettrificarmi dalla testa ai piedi. Mentre io morivo, il loro mezzo di trasporto si sarebbe spaccato in due. Sarebbero precipitati nell'immensità della terra brulla sotto di loro. Sarebbero morti per colpa mia.

André sciolse l'abbraccio per il tempo che gli occorse a prendere gli occhiali dal taschino del panciotto, pulendoli con una pezza prima di inforcarli sul naso, così da guardarmi meglio. Non tradì alcuna preoccupazione, quando mi prese il viso fra le mani graffiate, solcate da antiche cicatrici di cui non mi aveva mai raccontato nulla.

«Non accadrà nulla di brutto.» Le sue dita si abbassarono sul dorso della mia mano, accogliendola gentilmente nel suo palmo, affinché potesse trascinarmi verso la nostra stanza. Mi lasciai attirare senza opporre resistenza, gli stivali eleganti che seminavano scie impercettibili nella pulitissima moquette rossa. Non mi fece attendere troppo, quando estrasse la chiave d'argento che aveva custodito fino ad ora per aprire la porta.

Era la miglior camera da letto in cui avessi mai dormito fino ad ora. E ne avevo visti di posti. C'era la taverna con un'intera cucciolata di gatti – per scacciare i topi – che mi saltavano sul letto quando meno te lo aspettavi sgusciando da chissà dove; c'era l'osteria che aveva la sala cucina sopra alle camere da letto e il rumore delle vettovaglie ti teneva sveglio per tutta la notte; c'era quello con i materassi pieni di scarafaggi e quell'altro che la gente usava solo per scopi... imbarazzanti. Ma se avessi potuto parlare di questa stanza usando solo una parola, avrei detto: lusso.

Pavimenti in moquette blu cobalto, lenzuola fresche di seta bianca e cuscini in piume d'oca; mobiletti di mogano rifiniti a foglia d'oro con i piedini di leone e specchi lucidati fino a brillare di luce propria; candelieri d'ottone e caraffe già ricolme d'acqua fresca per rispettare le esigenze igieniche di ogni ospite. Il letto a baldacchino troneggiava su tutto e, dietro alla testiera, un grosso oblò mostrava il cielo intorno a quel punto, offrendo uno scorcio di mondo agli ospiti più curiosi che non soffrivano di vertigini. Le nostre valigie erano già state portate in camera da un valletto, perciò mi bastò rovistare un poco per trovare la mia camicia da notte.

«...» Mi voltai a guardare André, profondamente imbarazzato, e lui ricambiò lo sguardo senza capire cosa pensassi. Mi vergognavo a spogliarmi davanti a lui, ecco cosa. Così mi nascosi dietro al paravento dove si celava il vaso da notte – non l'avrei usato in sua presenza nemmeno con una spada puntata alla gola – e mi svestii in fretta, sentendomi improvvisamente più consapevole della sua presenza in una stanza chiusa, senza vestiti addosso. Ne uscii stringendomi le mani al petto, la pelle che bruciava contro il cotone sottile della camicia da notte, semi-trasparente ma almeno si allungava fino ai polpacci.

Mi accorsi che era voltato di spalle, a cambiarsi anche lui: linee sottili si distendevano fra le scapole e un po' su tutta la schiena, non frastagliate come delle frustate ma nette e precise, come dei tagli fatti da un bisturi o qualcosa di altrettanto tagliente. Distolsi lo sguardo, sapendo che non gli piaceva quando guardavo le ferite sul suo corpo, ma i miei occhi vagarono coraggiosamente verso il basso, mentre si calava giù i pantaloni. Diventai porpora quanto una prugna e soltanto allora mi schiarii la gola, facendo capire che ero spuntato da dietro al paravento e potevo guardarlo.

Con una torsione del busto e i pantaloni scesi fino alle caviglie, senza nulla a coprirlo – gli indumenti intimi erano roba da nobili –, rimase a guardarmi a labbra schiuse, come se avesse voluto dire qualcosa. Ero quasi certo che ci fosse un qualche tipo di imbarazzo racchiuso nel suo sguardo, perché giorno dopo giorno imparavo a distinguere le sue reazioni, che ad occhi estranei sembravano tutte uguali. Ed era quello il bello: dopo aver imparato a scorgere tutte le espressioni che André riusciva a nascondere ad arte, sapevo che io ero l'unico ad avere il privilegio di poter capire cosa provava in quell'esatto momento. In più, ogni sguardo, ogni mezzo sorriso, non erano che una frazione, una sola facciata, di un mondo interiore che era caleidoscopico come le mille facce di un diamante. Scintillavano appena, nascoste sotto una patina di impassibilità, ma non per questo erano meno preziose.

Frettolosamente si fece calare addosso la camicia da notte, poi piegò con una cura sin troppo attenta i suoi vestiti sulla prima poltroncina nelle vicinanze, senza guardarmi. C'era un'aria di imbarazzo inaspettata che fino a pochi minuti prima, nella sala banchetto, non si avvertiva affatto. Come se, entrambi nascosti sotto un velo di cotone dentro ad una stanza chiusa, con un unico letto, fossimo all'improvviso diventati... Timidi.

«B-be'... a-allora...» La mia voce s'incrinò vistosamente, mentre gli occhi vorticavano nella stanza. «Io... po-posso dormire su... su quel di-divane..tto.» Indicai con l'indice la piccola dormeuse di velluto indaco ai piedi del letto, ben sapendo che era a mia misura e che le sue gambe si sarebbero sporte ben oltre. Ma André scosse la testa.

«No, dormo io lì. Mettiti a letto.» Non mi diede il tempo di ribattere oltre che, in qualche modo, si raggomitolò sul divano cercando di entrarci senza far dondolare le gambe dalle ginocchia in giù oltre la seta imbottita della dormeuse.

«Mmh-mh.» annuii silenzioso, scostando le lenzuola e lasciando intatto il lato vuoto accanto a me, pietrificato su un fianco, la faccia rigida contro il cuscino troppo morbido, inadatto ad uno come me. «Allora... b-buonanotte.» incespicai nelle mie stesse parole e lasciai che un silenzio di tomba le seguisse per diversi minuti in cui nessuno riuscì a riempirlo. Il materasso era troppo morbido e la pioggia su tutte le pareti del Dirigibile troppo persistente.

Mi rigirai da un lato e dall'altro, attorcigliandomi le lenzuola fra le gambe, per poi ritornare nella posizione di partenza e, ancora, schiacciarmi la faccia sul cuscino fin quasi a soffocare. Avevo dormito molte volte in presenza di André, nella stessa stanza o intorno al fuoco, eppure questa era diversa. Non c'erano né il principe né il mercenario a fare il solito casino, né camicie da notte sottili e un'atmosfera di rilassata intimità e malcelato imbarazzo. E soprattutto non c'era il temporale.

Una saetta colpì la nuvola che aleggiava vicino alla mia stanza e il suo ruggito mi fece tremare forte dentro al letto. Solo che il tempaccio non si fermò ad un fulmine perché subito ne seguì un altro e un altro ancora: mi nascosi sotto alle coperte coprendomi la testa e le orecchie col cuscino.

Non mi avrebbero colpito. Non avrebbero colpito il dirigibile. Non sarei morto. Nessuno sarebbe morto con me.

Iniziai a ripetere quelle frasi come un mantra, cercando di infondermi da solo un briciolo di sicurezza che mi mancava praticamente dalla nascita, perché nessuno dei miei genitori aveva fatto in modo di donarmela. Strizzai gli occhi e serrai i pugni, denti digrignati e cuore in gola: sarei stato pronto a trattenere l'intero dirigibile con tutte le mie forze se si fosse spaccato in due, avrei potuto prepararmi per tempo, creare una barriera, meditare sull'incantesimo giusto, qualcosa... Il cigolio del letto azzerò tutte le mie preoccupazioni, specie quando un paio di braccia si allungarono dietro di me, entrando nel mio campo visivo per intrecciarsi sul mio petto.

«So a cosa stai pensando, Rhod.» mi sussurrò all'orecchio, accarezzandomi le spalle finché non riuscii a girarmi verso di lui, riempiendo tutto il mio campo visivo. I capelli biondi filati di bianco premevano contro la sua guancia spargendosi come ciuffi di grano sul resto del cuscino; le ciglia chiare gli gettavano un'ombra giocosa sugli zigomi, a causa del chiarore di una candela accesa, mentre le labbra si distendevano in un accenno di sorriso. «Ma andrà tutto bene.» Poi si fece inaspettatamente serio.

Sapevo che mi stava guardando in modo strano, in quel modo, quello che avevo conosciuto solo con lui. Lo sguardo di un uomo che prova del desiderio per te. Lo stesso modo in cui mi aveva fissato mentre le sue labbra si erano fermate sullo stesso punto dove io avevo bevuto la camomilla, quel giorno fatidico in cui mi ero risvegliato dalla morte dopo l'attacco degli orchi. Sembrava passata un'eternità da allora, eppure il ricordo dei nostri corpi appiccicati mi fece accendere la faccia come una candela.

Il suo sguardo scivolò vertiginoso sulle mie labbra, come fece il mio con le sue. Senza che nessuno dei due si dicesse nulla ci stringemmo forte l'uno all'altro, braccia intrecciate e bocche incollate fra loro, la sua mano che premeva dietro alla nuca per baciarmi con passione e intensità, senza fretta, godendo e approfittando di ogni secondo di quell'incontro fisico che non avveniva da troppo tempo, afferrandomi per il collo come se avesse bisogno dei miei baci quanto dell'aria che respirava.

Ogni schiocco di labbra mi diceva che quella notte i fulmini e le saette si sarebbero scatenati anche dentro alla nostra stanza. E no, questo non lo temevo proprio.









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*L'angolo finalmente estivo dell'autrice beata*

Hola a todos!
Oh sì, dopo una caterva di esami sono arrivata in modalità estiva anch'io, fi-nal-men-te. Quindi tutte le altre storie saranno aggiornate velocemente come questa, non temete lettuorih che seguono anche altro dei miei scritti.
Ma veniamo a noi: colto l'easter egg? Finalmente posso sfruttare il fatto che "Per arrivare a lei" e "le cronache dell'assassino" siano ambientate nello stesso mondo/tempo... Ed è solo l'inizio dei collegamenti! Oh sì, queste due storie sono collegate in una maniera sottile ma indissolubile e in futuro l'incontro-scontro dei personaggi principali sarà inevitabile! Godo in previsione di quel momento, ghgh.
Detto ciò, spero che il capitolo vi sia piaciuto e ci vediamo al prossimo <3

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