23. Bruciante desiderio
[Pre-NDA: Quando vedrete questo simbolo (*) nel testo, fate partire la musica]
Francis
Era un dovere che avevo imposto a tutti. Non m'importava che gli altri tre a stento approvassero: la mia eloquenza era stata in grado di piegare le loro sciocche motivazioni sulla comodità e sulla praticità, nonché sul caldo, per il favore di ingraziarci l'intero equipaggio – fra ospiti e servitù – che avrebbe certamente ammirato la nostra eleganza. Ma non l'avevo certo deciso per vanità o buon costume: il Grande Dirigibile D'Argento non era alla portata di tutti. Solo nobili di un certo calibro ne avevano accesso e fare una buona impressione mi sembrava fondamentale per garantirci un soggiorno tranquillo.
«Che ne pensi?» domandai, reggendo una stampella con un delizioso farsetto blu notte a motivi di gigli araldici dorati, ovviamente estivo, completamente in lino e seta tutto riempito di stringhe al centro del petto.
Rhod Hywel emerse dalle candidi tende del camerino facendo spuntare la testa di lato in modo da mostrare solo gli enormi occhi blu. Una treccina gli cadde proprio fra le ciglia e stropicciò goffamente le palpebre.
«Ehm... N-non lo s-s-so... M-ma...» prima di aggiungere qualsiasi altra cosa si nascose all'interno. «Que-queste ca-calze-b..brache s-sono tr...troppo.» balbettò dall'interno ed io lo sentii a stento visto che non si impegnava nemmeno ad alzare la voce.
Sapevo che non era molto educato nei miei confronti, ma ormai non ci facevo più caso, non dopo aver passato tanto tempo a dormire insieme, ad indicarci quali punti nel terreno potessero essere i migliori per creare una latrina e a consigliarci quali ossicini dei leprotti fossero troppo rigidi da rosicchiare in una giornata particolarmente priva di cibo. Sì lo so, ero molto in imbarazzo al solo ricordo di queste cose, specialmente per la latrina. O per quella volta in cui si pulì inavvertitamente con dell'ortica salvando me dallo stesso tragico destino.
Questi erano i piccoli inconvenienti di viaggiare insieme per i boschi, improvvisando. Ma eravamo diventati amici, anche se il mago era praticamente tutto ciò che non ero io: balbuziente, timido, solitario e pieno di potere e talento. Ahimé, io non ne avevo molto.
«N-non gua-guardare...» bofonchiò, ma dovetti farlo per capire se avessi scelto bene. Capii subito cosa intendeva con "troppo". Le calze-brache erano davvero attillate e non perché il gentile sarto che ci serviva le avesse scelte strette. Il modello tirava su ogni punto delle sue grazie poco virili, rendendo la cosa piuttosto imbarazzante.
«Oh.. Ehm...» distolsi lo sguardo imbarazzato e gli porsi il farsetto che avevo appena trovato.
«Provati questo, intanto vado a chiedere un paio di pantaloni. Vedrai, avrai un guardaroba da principe!» esclamai, battendo gioiosamente le mani prima di uscire alla ricerca di altri farsetti.
Occorreva riempire le belle valigie di pelle di cinghiale che avevamo appena comprato di abiti nuovi, non ne potevo più di usare sempre il solito farsetto, sdrucito e così impregnato di sudore che anche lavandolo più volte e strofinando rametti di menta l'odore persisteva. Dovevo ammettere però, che trovare degli abiti adatti era abbastanza difficile, considerando che ogni giorno nella corte di Gilerines una governante decideva come pettinarmi, vestirmi, cosa abbinare a cos'altro – perfino i calzini e le scarpe. Ne avevo non sapevo quante paia.
Intanto, pregai gli Dei che da Cyran e André le cose andassero per il verso giusto, ma intuii che il mercenario stesse facendo i capricci come al solito, quando si trattava dei vestiti. Si trovavano in una sala parallela alla nostra, con un sarto ancora più competente che io compatii con tutto me stesso nel sentire dalla porta più vicina un certo trambusto.
«Che ne pensate, messer Levou?» mi domandò il nostro sarto, tutto ricoperto di metri di nastro intorno al collo come fossero sciarpe e un paio di occhiali spigolosi all'avanguardia, mentre mi porgeva un paio di pantaloni meno succinti rispetto alle calze-brache. Non ci capivo nulla, ma quella sfumatura di bianco panna sarebbe stata davvero bene con l'incarnato candido del mago.
«E' perfetto. Trovatemene altri, di grazia.» cinguettai educatamente ammirando il pezzo di sartoria per portarlo verso Rhod con uno slancio vivace che mostrava tutta la mia soddisfazione. Per ora andava tutto per il verso giusto.
«E' anche il vostro turno, messere!» trillò il sarto dopo aver posato delicatamente una pila di farsetti e pantaloni su una poltroncina fuori al camerino di Rhod. «Ho esattamente ciò che ci vuole per un giovane fanciullo con quella tonalità caramellata di capelli! E quegli occhi, sì sì!» esaltato, mi trascinò dentro al camerino facendo di me una nuova cavia per i suoi "pezzi d'alta moda".
Non era una menzogna. Sembravamo nobili dalla testa ai piedi – guardai le treccine di Rhod, e poi ciocche più lunghe e ciocche più corte in una corta giungla color mogano e mi corressi – lo sembravamo dal petto ai piedi. Per l'arrivo al Dirigibile aveva scelto un farsetto di seta a sottili righe blu fiordaliso e pervinca, che nei suoi movimenti creava un effetto ottico piuttosto dinamico, decorato da bottoncini d'osso; i pantaloni invece erano un due pezzi blu notte, la stoffa s'arrestava poco prima delle ginocchia e poi si allacciava poco sotto le medesime con un disegno di stringhe, arrivando stretto fino alle caviglie; ai piedi un paio di stivali corti di pelle nera, lucidissimi.
Io invece indossavo un farsetto di un delicatissimo arancio albicocca, talmente uguale al colore dei miei capelli che ne sembrava un prolungamento, decorato da riccioli e ghirigori d'argento minuziosamente intessuti a mano, che s'abbinavano allo stesso argento dei pantaloni, forse un po' vistosi, ma a cui lentamente andavo ad abituarmi; nessun decoro su di essi, erano già abbastanza eccentrici così, ma al di sopra spiccavano un paio di tradizionali stivali al ginocchio neri che spezzavano quelle tonalità leggiadre dando un profilo netto alle mie gambe sottili.
Mi sedetti sul divanetto all'entrata della sartoria mentre aspettavamo gli altri due compagni di viaggio, facendo un cenno a Rhod di raggiungermi. Era un luogo tanto raffinato che offrivano su un tavolino all'ingresso biscotti al burro e profumato tè verde, freddo vista la stagione.
«Allora» iniziai, spiluccando un biscottino. «ho notato che vi siete riappacificati.» Sorrisi leggermente prima di portarmi il calice alle labbra, che riluceva ai raggi curiosi del primo mattino, che s'infiltravano dalla porta a vetri dell'ingresso.
Lui arrossì violentemente, balbettando qualcosa che non compresi finché non ripeté. «C-c-c-coo.. osa... Co-come.. A-avete capi.. to?»
Mi lasciai andare ad una rilassata alzata di spalle. «Si vede da come vi guardate. E ieri vi stavate prendendo per mano.» Era facile non notarli, con le dita distese sotto al tavolo della taverna a toccarsi leggermente, ma io e la mia formidabile capacità d'osservazione l'avevamo fatto.
«...» Strabuzzò gli occhi e divenne ancora più rosso. Forse mi contagiò, perché lo divenni anch'io, emozionato nel capire che qualcosa stava nascendo – o era già nato? – proprio nel bel mezzo della nostra avventura. Anche una situazione così drammatica era riuscita a tenerli vicini. Io non ero nemmeno capace di restare fedele alla decisione dei miei genitori di sposare la principessa. Le volevo bene, sì, ma niente di più. E ogni volta che guardavo Cyran la mia buona fede verso la volontà di famiglia andava a farsi maledire.
Ancora una volta, dentro di me, pregai che gli Dei risolvessero queste catastrofi, che facessero finire bene tutta questa storia.
«Pe-però... Non.. Non si è co-confidato.» mi rivelò Rhod, strappandomi dalle mie personali riflessioni mentre si torturava una treccina con un certo fare tormentato. Ne fui sorpreso, perché io sapevo. Forse non tutta la storia ma in gran parte sì, e conoscevo il terribile segreto di André. Mi sentii un traditore a zittire la cosa mentre il mago ammetteva i suoi tormenti, ma non potevo fare un torto tanto grande all'erborista.
«Sai...» cercai di pensare velocemente alle parole giuste per consolarlo, ma poi il sarto che non si era occupato di noi spuntò all'ingresso con un sorriso vittorioso – ma molto stressato ed irritato, notai dopo – facendo un movimento roteante della mano per presentarci André e Cyran.
Ebbi un tuffo al cuore. Il mercenario non era mai stato così bello. Cercai di distogliere lo sguardo per ritrovare un po' di contegno, già tradito dalle mie guance rubizze, ma non riuscii a farlo. Perfino vicino l'uno all'altro creavano un'armonia tutta loro: il mercenario era il fuoco e l'erborista l'acqua, uno il ferro e l'altro la natura.
Il biondo aveva pettinato i capelli all'indietro in una coda bassa stretta e raffinata, nemmeno una piccola ciocca sfuggiva dalla presa; giurai che gli avessero messo qualcosa su guance e labbra, perché aveva assunto un colorito più sano, più vivo, il che rendeva tutto l'insieme molto più gradevole. Indossava una redingote blu cadetto – mi chiesi come con questo caldo, ma lo sfoggiava con così tanta naturalezza da farmi credere fossimo in autunno – sotto cui s'intravedeva una sobria camicia di seta bianca infiocchettata sul collo, ed un paio di pantaloni nocciola con stivali di pelle abbinata. Aveva anche i soliti fondi di bottiglia sul naso, tutti lucidati, che gli conferivano un'aria da medico d'alta fama.
Mentre Rhod si alzava andandogli incontro con un sorriso timido stampato sulla faccia io mi concentrai su Cyran. Era chiaro che il sarto aveva provato a domare la sua chioma in un raffinato codino basso, ma aveva miseramente fallito: se la ravvivò all'indietro con una mano andando a scompigliarla più del solito, come se si sentisse poco libero in quegli abiti e avesse bisogno di sfogare il suo malcontento nelle ciocche. Gli occhi color lava mandavano lampi d'emozione da tutte le parti, sfrigolando, come se non vedesse l'ora di gettarsi in un nuovo guaio, eppure per com'era conciato in qualche modo fra i nobili ci sarebbe sopravvissuto. Anche troppo bene.
Il torace era perfettamente fasciato da un farsetto del tutto privo di maniche, lasciando ammirare ad occhi estranei ogni minima avvallatura pompata dei suoi muscoli, bicipiti, spalle e chi più ne ha, più ne metta; sul petto si apriva in una serie di stringhe ad incrocio lasciate mollemente aperte, e se gli evanescenti effetti vedo-non vedo non fossero abbastanza, allora si aggiungeva la meraviglia della stoffa setosa di un nero carbone punteggiato da sfumature iridescenti d'arancio che lasciavano immaginare un movimento di fiamme quando si girava. Sperai che non fossero stati ispirati da qualcosa che aveva incendiato per un attacco di nervi.
Quanto ai pantaloni, un paio neri abbastanza aderenti ancora una volta esaltavano i muscoli delle gambe, delineando lungo le cuciture laterali minuscoli dettagli d'ambra che sparivano dentro gli stivali neri con la punta rinforzata di rame. Immaginai che un calcio con quelli facesse parecchio male. Gli avevano aggiunto perfino una fondina di rame lucidissimo per contenere il suo prezioso spadone.
Mi accorsi troppo tardi che lo stavo ostinatamente fissando, così come feci tardi a capire che lui se ne era reso conto. Cercai punti del suo viso che non mi piacessero, ma perfino la lunga cicatrice che si estendeva dal labbro inferiore al mento sembrava affascinante, così mi girai e tirai dritto verso la cassa per pagare tutto ciò che avevamo preso – ormai ero io il tesoriere del gruppo – ma prima che potessi raggiungerla un braccio mi cinse la vita dalle spalle e mi tirò indietro. Sbattei la schiena contro il petto robusto di qualcuno che era già chiaro chi fosse: mi bastò alzare un poco il viso per vedere la sua faccia piegata su di me.
«Non siamo nemmeno arrivati e tu già scappi?» mi canzonò, piegando le lunghe ciglia nere in uno sguardo che mi fece tremare le ginocchia.
«Non so di cosa parli! Fammi andare a pagare.» precisai, col mio solito tono di rimprovero quando non faceva che inondare il mio sacro spazio privato. Sborsai tutto il denaro che avevamo speso – e anche qualcosina per la mancia e vestiti probabilmente bruciati – poi impugnai il manico della mia valigia e affrettai gli altri ad uscire. Il Gran Dirigibile d'Argento non sarebbe certo rimasto ad aspettare noi.
Prenotai un calesse e lasciai che ci dirigesse fra le colorate strade di Yahli, ancora piene di statue in fiore e volantini d'iscrizione per le gare, poi iniziai a vederlo fra i palazzi: un enorme pallone grigio, tutto allungato orizzontalmente come la lama ricurva di un pugnale, che brillava in luminosi bagliori argentei sotto i raggi del sole estivo. Una fila gremita di carrozze si dipanava lungo la strada più vicina e così mi fu possibile fermarmi ad esaminare quel mezzo di trasporto interessantissimo: un'enorme elica piazzata ad un lato del dirigibile, una vastità esagerata di finestrelle su tutta la lunghezza della pancia d'argento e un portellone spalancato che si apriva su una passerella di legno, affollatissima di nobili. Copri-sole di pizzo e gonnellone non facevano che scontrarsi di continuo, fra i malcontenti delle dame, che fra una sventagliata e l'altra si lanciavano occhiate infastidite.
Pagai il cocchiere e scesi dal calesse striminzito solo per andare ad infilarmi in una situazione ben peggiore: la passerella piena di madame sudate e stressate.
«Stiamo attenti a non separarci, ho io i biglietti.» avvisai e, come se avesse capito un significato solo a lui noto, Cyran mi piazzò una mano sulla vita e non la tolse più, camminandomi appiccicato, come quei vecchi giochi dove due bambini si legavano insieme una gamba e dovevano riuscire a correre più veloce degli altri, in sincrono. La situazione era all'incirca quella, dal momento che era tutto uno spintonarsi e lamentarsi per arrivare prima.
Con un po' di fatica solcammo le porte principali sotto gli occhi rispettosamente abbassati di una fila di valletti in livrea rossa-argento. Poi, fummo subito accompagnati al banco della hall, che ospitava le chiavi delle camere e tutte le informazioni che un ospite avesse potuto desiderare.
«I messeri sono?» chiese un facchino in una sgargiante divisa argentea, alzando gli occhi da un registro colmo di firme arzigogolate.
«Due vincitori della gara sportiva, Messer Rouge e Messer Hywel.» incominciai, accorgendomi quanto fosse strano dare del "messere" ad un tipo come Cyran, che conosceva a stento l'etichetta e i titoli di cortesia. «E i loro accompagnatori, Messer Sion e Lord Levou.» Mi indicai appoggiandomi la mano sul petto. Il tipo cercò di non far vedere la sua grossa sorpresa a favore di un comportamento elegante, ma le sue sopracciglia si mossero comunque: il principe di Gilerines ospite del loro "umile" dirigibile.
Ma alla fine non disse nulla, limitandosi a sfilare due chiavi argentee da infinite cassettine di legno alle sue spalle, accompagnate da un'etichetta col numero della nostra camera. «I signori sono liberi di distribuirsi nelle stanze come meglio credere. Ahimé, dovrete condividere un letto matrimoniale.» Ci avvisò, lasciandomi del tutto sbigottito prima che continuasse. «I pasti sono disponibili tutti i giorni a qualsiasi ora nella sala del banchetto, sempre riforniti. Per qualsiasi capriccio vi basta suonare un campanello.» Allungò una pergamena. «L'itinerario d'intrattenimento è riportato qui, con l'orario e la stanza apposita.» Sorrise, diligente. «Vi auguro una splendida permanenza al Gran Dirigibile d'Argento.»
Poi si allontanò verso altri clienti. Mi accorsi che non ero l'unico fra noi ad essere rimasto zitto a guardare le chiavi, ma fui il primo a commentare. «Allora... Io e Rhod condividiamo una stanza, giusto?» Guardai verso di lui in cerca d'approvazione.
«No!» risposero in coro il corvino e il biondo, il primo con un'enfasi frettolosa e il secondo con la sua solita flemma leggendaria. Era un miraggio, o per la prima volta erano d'accordo su qualcosa? Il mago non ebbe cuore di contraddirli.
«Be', quindi...» Non dissi altro: l'erborista prese una chiave al volo dalla mia mano, mentre Cyran già mi trascinava via verso i corridoi quasi sollevandomi, come se fossi più leggero della sua valigia, senza badare molto a tutte le contesse, baronesse, duchesse e nobildonne qualsiasi che si giravano per lanciargli occhiate interessate dietro al ventaglio.
Superammo un delizioso salottino da tè contornato da carta da parati di tessuto blu pavone e legno di noce lucidissimo, ci addentrammo nella sala banchetti piena di tavolate già imbandite fra dolci di tutti i gusti, pane aromatizzato appena sfornato e selvaggina cucinata in modo sofisticato. C'erano piramidi di frutta fresca e calici di cristallo ancora da riempire, raffinate tovaglie di pizzo e uno splendente servizio di tazzine e posate d'argento. Tavolini rotondi si susseguivano per tutta la stanza contrassegnati da segnaposti per ogni stanza. Superammo ancora un paio di stanze e, per quanto il dirigibile fosse labirintico, ad ogni svolta c'erano affisse targhette argentee con indicazioni che aiutavano ad orientarsi.
L'ultima tappa nella nostra esplorazione, prima di giungere ai corridoi verso le camere personali, era una zona bar dal gusto piuttosto semplice ma ricercato: banconi di legno di mogano lucidissimi e marmi rossi venati di grigio, divanetti di pelle trapuntata bordeaux e candelabri e tabacchiere del solito argento onnipresente in ogni sala. Anche se continuava a trascinarmi io non mi ribellavo: dovevamo comunque passare dalla nostra stanza per lasciare le valigie. A fermarci ci pensò qualcun altro.
«Cadetto Rouge?» una voce risuonò alle nostre spalle, proprio fra i divanetti. «Cyran Rouge?!» Era un tono melodioso e al contempo estremamente virile: era difficile che una tale armonia vocale potesse sposarsi con un timbro così maschile, eppure con quell'uomo succedeva benissimo.
Il mercenario mi lasciò andare, sgranando gli occhi ancor prima di voltarsi, come se non riuscisse a credere alle proprie orecchie. «Per tutti i pescherecci di Tortuga, se quello non è il tenente Meirion!» esclamò, aprendo le labbra in un enorme sorriso che gli scoprì la fila di denti bianchissimi.
Finalmente capii a chi si stava riferendo. Un uomo si levò dai divanetti in tutta la sua mastodontica altezza – del resto non diversa da quella di Cyran – e man mano che arrivava verso di noi ebbi modo di studiarlo a lungo: i lisci capelli d'ebano erano tanto corti da non riuscire a nascondere la profonda cicatrice a forma di croce che gli punteggiava la tempia sinistra, lasciando un segno ancora più bianco della carnagione stessa, candida e priva di nei o imperfezioni.
Le labbra sottili sorridevano ammiccanti e gli occhi dalla forma allungata scintillavano di smeraldo, di quel punto verde-blu che soltanto il mare può vantare. Aveva un portamento tronfio e arrogante, evidenziato dal farsetto verde foresta tutto slacciato sul davanti e da quella massiccia ascia bipenne che gli dondolava su un fianco senza avere la briga di nasconderlo.
«Kylar, vecchio lupo di mare!» I palmi delle loro mani schioccarono in una stretta amichevole e poi si tirarono l'uno contro l'altro in un abbraccio con tanto di rumorose pacche sulle spalle. Accanto a loro, mi sentii minuscolo come una formica.
«Che razza di sorpresa trovarti in un posto da ricconi!» disse l'altro, lasciando andare una risata armoniosa dopo l'altra. «E vedo che hai il solito buon gusto.» sogghignò, abbassando gli occhi su di me. Ebbi una strana sensazione, accompagnata da un formicolio sotto pelle che si accentuò quando mi sollevò il mento con un dito violando il mio spazio privato senza tanti complimenti.
«Te l'avrei già rubato, se solo non fosse un uomo.»
Mi scostai velocemente, piccato. «Ma come vi permettete? Io sono un principe, non una vostra conquistuccia da taverna!» brontolai, con le guance rubizze dall'indignazione e i pugni stretti. Si misero a ridere in due per la mia reazione.
«Suvvia, non ti arrabbiare. Sorridi, amichetto di Cyran.» mi apostrofò con un tono giocoso e un pizzico d'ilarità e invece che infuriarmi, gli angoli delle mie labbra iniziarono ad alzarsi completamente contro il mio volere. Sorridendo, lanciai un'occhiata sbigottita verso Cyran massaggiandomi la mascella, che aveva smesso di rispondermi.
«Non essere il solito bastardo, lui non fa parte del nostro mondo balordo.» intervenne finalmente il mercenario con il sorrisetto di chi si stava divertendo un mondo, e non di chi mi voleva davvero difendere. L'altro alzò le mani in segno di resa e smisi di colpo di sorridere. Aveva fatto qualcosa di strano... Era una specie di mago? «Comunque, lui è Francis Levou, principe di Gilerines.» mi presentò, lasciando che fosse l'altro a continuare.
«Tanto piacere, amichetto di Cyran.» Sprofondò in un ironico inchino, continuando a chiamarmi con quello stupido nomignolo, e si rialzò in fretta. «Come avrai già capito, sono Kylar Meirion, ho insegnato tutto ciò che c'era da sapere sulla guerra e sulle donne al nostro caro mercenario.» mi rivelò, stringendo gli occhi come se fosse un'informazione preziosa. Ora capivo perché negli occhi di Cyran c'era quella febbrile ammirazione che non mi piaceva per niente. «E lei è...»
Si voltò alla ricerca di qualcuno, ma al suo fianco c'era il vuoto. Così camminò verso i divanetti e si affacciò in un punto dove noi non potevamo vedere. «Eeeehi, Madamigella Fontaine?» Mentre la giovane si alzava, con mia grande sorpresa lui le tirò un orecchio peloso. Sì, sulla sommità del caschetto nero si ergevano un paio di buffe orecchie da lupo. La frangetta che le cascava poco sopra gli occhi, al contrario del resto delle ciocche, vantava un bizzarro color azzurro, come quello dei suoi occhi, nascosti dietro ad un paio d'occhiali a forma di triangolo.
Il vestito vaporoso era tutto un insieme di crinolina, merletti e pizzi nero-viola, con uno striminzito corsetto nero che le avviluppava la vita e una cintura costellata di sacchetti pelle e stelle d'acciaio, immaginai da lanciare come dei dardi. La gonna era lunga dietro ma molto corta sul davanti, mostrando dei pantaloncini pratici per correre e sgarrando ad ogni regola d'etichetta che comprendeva nascondere le caviglie. Quel paio di stivaletti neri lo facevano a malapena.
«Ti strappo le dita se mi tocchi di nuovo le orecchie.» lo avvertì la fanciulla con totale serietà, rifilando un'occhiataccia a Cyran. Braccia incrociate, venne ad assistere alla chiacchierata solo perché lui l'aveva chiamata. Immaginai che fossimo molto simili in quel momento: nessuno dei due voleva stare a sentire le continue battute per vantarsi l'un l'altro, su chi fosse il più virile, il più corteggiato, il più temuto. «Belle spille.» mi distrasse la ragazza, con un luccichio strano nelle pupille, ricordandomi che mi ero appuntato sul taschino del farsetto le uniche spille da principe che non mi avevano rubato.
Brillavano d'oro e pietre preziose, ed ero così abituato ad averle che certe volte non mi rendevo conto del loro valore. «Uhm... Grazie.»
Prima che potessi approfondire la conversazione com'era educato che facessi, Cyran mi attorcigliò un braccio intorno alla vita, segno che aveva finito l'inutile chiacchierata. «Allora ci vediamo qui stasera!» Alzò una mano a mo' di saluto e scoccò un occhiolino malizioso alla ragazza, che in tutta risposta alzò ostinata il mento, senza salutare nessuno dei due, anzi già intenta a darci le spalle.
«Non pensavo che-» Non finii la frase che incominciò a trascinarmi via verso i corridoi, inutile divincolarmi, potevo solo aggrapparmi al manico della valigia per non farla ruzzolare sul pavimento strada facendo. «Per l'amor degli dei, Cyran, smettila di trattarmi come un pacco e mettimi giù!» Strillai accigliato, sbottando un sospiro indignato quando mi venne accordata la cosa. Mi riassettai il farsetto stropicciato cercando di non far caso alle sue sgradevoli maniere, insomma lo conoscevo da abbastanza tempo da capire che non sarebbe mai stato un educato gentiluomo. «Quindi, era una specie di... mmh.. vecchio amico?»
"Ho insegnato tutto ciò che c'era da sapere sulla guerra e sulle donne al nostro caro mercenario."
Non mi piaceva neanche un po', quel Kylar. A cominciare dal suo malsano luccichio negli occhi mentre rivendicava i suoi sudici insegnamenti verso Cyran, per finire con quell'irrispettoso mettersi a tu per tu, senza nemmeno conoscermi.
Il corvino eluse la domanda con uno scatto di chiave, che aprì la porta facendola cigolare sui cardini poco oliati. «Non pensare a lui.» disse, con una voce che si era fatta bassa e gutturale, profonda, come intrisa di un sentimento che, mentre mi faceva cenno di entrare, incominciava a farsi strada anche dentro di me. Non capivo cosa fosse, però. «Non ora che siamo finalmente soli.»
La voce mi si incrinò nella gola, la valigia mi scivolò dalle dita e il tonfo che fece sul parquet scuro risuonò ovattato, distante. La testa mi si era riempita all'improvviso di immagini e sensazioni e quella stanza sontuosa si era fatta troppo piccola, troppo angusta. Capii che dovevo uscire prima che succedesse qualche cosa di irreparabile, ma il mercenario comprese i miei pensieri prima che potessi metterli in atto e fece roteare intorno all'indice l'anello argenteo della chiave. Aveva chiuso la porta a chiave.
«Rilassati.» Le labbra carnose, sporcate da quell'irresistibile cicatrice allungata sul mento, si distesero in un sorriso sensuale, sicuro, bramoso. Il mio stomaco si contrasse all'improvviso, le mie guance si fecero paonazze. Non mi aveva fatto niente, né mi aveva detto niente, eppure un pericoloso formicolio stava iniziando a corrermi lungo la spina dorsale. Vertebra dopo vertebra.
Lui indugiò su un comò, dove luccicava un aggeggio che non avevo mai visto: una cornucopia d'argento che troneggiava su un piatto nero, graffiato da un piccolo uncino. Cyran sembrava conoscere la sua funzione e, con movimenti esperti, cambiò uno dei piatti con altri, perfettamente confezionati ed impilati in una graziosa libreria affissa sopra il mobile. «Roba all'avanguardia che nemmeno nel Continente Occidentale hanno...» Mi rivolse un'occhiata divertita. «Sta a vedere.»
Ma non c'era niente da vedere. Bensì, sentire: quando posò l'uncino sopra al piatto, quello iniziò inspiegabilmente a girare, come smosso da una magia dentro al meccanismo. Poi, musica. (*) Un'armonia di violini e uno scampanellio di note al pianoforte.
Il corvino, ora soddisfatto, lasciò la musica in sottofondo mentre si avvicinava a me con un passo predatorio che mi gettò in un dilemma: allontanarmi rapidamente o avvicinarmi precipitosamente. Non feci nessuna delle due cose. Rimasi lì, a sentire la voce roca e ipnotica di un cantante sciorinare parola dopo parola il testo della canzone, tutta incentrata su un particolare preciso: il bruciante desiderio.
Il rumore della saliva inghiottita venne inglobata dalla musica, ma io continuai a deglutire il groppo, rigido e fermo sul pavimento, gli occhi incapaci di distogliersi da quelli infuocati di Cyran, che ormai mi aveva raggiunto. Sentii le sue mani sfiorare le mie, insieme a qualcosa di freddo che mi scivolava fra le dita. La chiave. «Vuoi andartene? Puoi farlo.» Mi sussurrò, con una pazienza ed una dolcezza che mai gli avevo sentito nella voce, e che ora si proiettava leggiadra dentro al mio orecchio. «Ma se resti, sai cosa succederà.» Mormorò all'altro orecchio, ancora inclinato su di me, le spalle curve a circondarmi.
Avevo la bocca secca, le ginocchia molli e le mani sudate e tremanti, con la chiave che rischiava di scivolare al minimo movimento. Sapevo cos'era giusto, ma non sapevo se era quello che volevo. Così mi scostai velocemente dal suo tocco e zampettai verso il comodino, lasciandoci sopra la chiave. «Voglio solo riposarmi in pace.» puntualizzai, cercando di far capire che il mio non era un sì, ma nemmeno un no. Non potevamo semplicemente... Far rimanere le cose com'erano?
Mi chinai a tirare via gli stivali facendo pressione su caviglie e talloni, eppure mi bloccai subito quando sentii la sua risata mescolarsi armoniosamente con la canzone, facendo ruggire ancor più fortemente lo scarlatto sulle mie guance. Ora non riuscivo più a nasconderlo.
«Allora hai fatto la tua decisione, principino.» cantilenò, raggiungendomi in men che non si dica per sollevarmi dai fianchi e stendermi sul letto come se non avessi il minimo peso. In realtà, non avevo scelto niente... Non lo avevo fatto... Però lui era riuscito a farsi capire. A dirmi senza usare le parole cosa sarebbe successo se fossi rimasto. Socchiusi gli occhi, stordito da quel cambio di situazione, la testa appoggiata sul materasso morbido – così diverso dalla solita terra dura o dalle stuoie rigide delle taverne – lo sguardo sollevato verso di lui, le labbra schiuse, palpitante. Tremavo e sapevo che lui lo sentiva.
«...» Volevo rispondere in qualche maniera arguta e audace, che non mi facesse sembrare così spaventato e così attirato, ma la voce si era incrinata di nuovo, la musica continuava ad ottenebrarmi la mente e le sue mani avevano incominciato a slacciarmi il farsetto, bottoncino dopo bottoncino, con una lentezza snervante, come se non avesse nessuna fretta. Aveva le dita irruvidite dalle tante battaglie, dall'elsa di tutte le armi che aveva impugnato, da tutti i pugni che aveva scagliato; tuttavia, scivolarono sulla mia pelle con una delicatezza che mal gli si abbinava, muovendosi sulle spalle per liberarmi del tutto dalla giacca albicocca, senza mai smettere di guardarmi. Era specialmente quello il problema: il modo in cui mi guardava. Come se volesse divorarmi.
Allungò il viso per seminare una scia di caldi baci nella curva del mio collo, che si trasformarono in morsi leggeri quando scese sulle clavicole ed in lappate umide quando si concentrò sui punti più rosei e sensibili del mio petto. Sussultai, strizzando le labbra, il respiro mal trattenuto mentre lui scendeva, segnando un percorso lineare con la punta della lingua che proseguiva pericolosamente verso il bacino. Inarcavo la schiena in corrispondenza ai punti dove la sua bocca arrivava, con i polmoni riempiti d'aria, che non osavo lasciar andare, anche se mi sembrava di star per soffocare.
Finalmente si fermò, un attimo prezioso per farmi ritornare a respirare. Le dita armeggiarono con i bottoni dei pantaloni, con meno delicatezza, abbassandoli prepotentemente insieme a quella raffinata biancheria intima in seta che avevo avuto cura di comprarmi insieme al resto dei vestiti. Corsi subito a coprirmi con una mano, agguantando una ciocca dei suoi capelli nel tentativo di fermare quella bocca del tutto priva di pudore.
«Non fare cose così lascive!» mugugnai, con la voce resa stridula dalla vergogna e la faccia premuta sul cuscino, per non guardare tutto quello che stava succedendo, stravolto da un imbarazzo così cocente che mi sentivo bruciare dagli alluci ai capelli. Sapevo di avere il cuore a mille, così come sapevo che lì fra le mie gambe qualche strana reazione si stava svegliando dal suo eterno torpore, eppure... Se avessi guardato Cyran in quel momento...
«Lascive come?» ridacchiò, facendosi dritto sopra di me, il cuscino sfilato via e buttato da qualche parte dietro alle sue spalle, così che non potessi usare nulla da frapporre tra i nostri occhi. Sotto ai miei, con un gesto del tutto spontaneo, si sollevò il farsetto gettandolo all'aria e si liberò furbescamente dei pantaloni, coperto solo da qualche garza a mo' di intimo, che in realtà non gli copriva assolutamente niente.
Distolsi lo sguardo più in fretta che potei, assalito dal mio ostinato senso del pudore e da qualcos'altro. Un fremito. Una pulsazione fra le gambe. Il calore affluiva e defluiva rapidamente spostandosi e trasferendosi da una parte del corpo all'altra, intanto che la faccia assumeva la stessa tonalità dei miei capelli. Non riuscii, però, ad allontanare dal mio campo visivo il suo corpo, una perfetta e sensuale armonia di muscoli e nervi, la carnagione così colorita da sembrare rame bagnato nell'oro, i morbidi capelli scuri lasciati lunghi abbastanza da avviluppargli i lineamenti sensuali, provocanti, di una bellezza fin troppo sfacciata, audace, quasi fastidiosa.
Il modo in cui mi guardava poi, sembrava capace di travolgere tutto quello in cui avevo sempre creduto sino ad ora: buone maniere, educazione, compostezza... Tutto per arrivare fino ad ora, gambe intrecciate fra le lenzuola e pelle contro pelle.
«Lo sai come...» mi lamentai, la voce ridotta ad un sussurro tremante, man mano che le mani altrui tornavano ad affermarsi imperiose sul mio corpo snello, gracile, delicato, tutto il contrario del suo. Poi le dita si strinsero intorno alla mia virilità, senza nessun preavviso, ed io scattai col bacino in avanti, allontanando il corpo dal materasso per una frazione di secondo. «Ah!» Un sussulto, un solo sussulto che mi aveva percorso le membra con la forza di un uragano. Ero finito. Ero perso fra le sue mani. Era troppo tardi per scappare, tornare indietro, prendere quella chiave e cambiare idea. Ero perso e nemmeno m'interessava più di tanto.
Ho un bruciante desiderio per te, tesoro...
La musica era appena ricominciata, scandendo impercettibili pause di silenzio fra una fine ed un inizio, poi il ritmo tornava a pulsarmi nelle orecchie fondendosi al tamburellare persistente del mio cuore e ai sospiri di Cyran, che scivolavano leziosamente sulla pelle nuda ricoprendomi di brividi. Le sue mani erano arrivate in punti che mai nessuno era riuscito a raggiungere e, adesso, si muovevano sapienti sulle cosce come se avesse voluto tessermi tele di ragno intorno per intrappolarmi, avvilupparmi nella sua stretta senza più lasciarmi. O così mi piaceva pensare.
«Mh.» emise solo un verso compiaciuto, guardandomi come se avesse voluto dire "e ora che hai intenzione di fare?", proprio mentre mi afferrava i glutei fra le mani, tenendoli stretti come si fa con un frutto per capire se è maturo abbastanza. Arricciai le dita dei piedi, cercando di gestire un altro brivido acuto che mi faceva rizzare i peli invisibili su tutto il corpo.
«Fer..mmh.. ngh..» articolai qualche verso insensato, coprendomi il viso con le braccia. Già aveva ripreso a strofinare una mano sulla mia nudità, mentre l'altra si dirigeva a punzecchiarmi il posteriore, che divincolavo ad ogni sua carezza, arrossendo intanto che i suoi gesti si facevano più audaci. «CHE-!» Sobbalzai, stringendogli il polso della mano, che impudente si era messa ad armeggiare fra le natiche alla ricerca di qualcosa in particolare. «Che cosa... che cosa.. fai..» parlottai, scosso da un imbarazzo così istintivo che volevo scappare a nascondermi sotto al letto.
L'espressione che mi rivolse fu un insieme di sorpresa e divertimento, tradotta in un sogghignare basso da un lupo cattivo. «Non vorrai dirmi che non sai come due uomini fanno l'amore?» Non seppi se rimanere più colpito dal fatto che avesse detto "amore" invece che "sesso", o se dovessi iniziare a preoccuparmi perché a quanto pare c'era molto di più di quelle impertinenti e persistenti palpate, che già avevano iniziato a portare il mio corpo al limite.
E io che ne potevo sapere di come due uomini si procuravano piacere l'un l'altro? I miei pensieri sono sempre stati dirottati verso argomenti più decorosi, prima di conoscerlo.
«Non posso crederci...» esclamò, interpretando correttamente il mio silenzio come una negazione. E poi, ovviamente, si mise a ridere. Non c'era ilarità, solo una profonda e conturbante concupiscenza: era chiaro che non vedeva l'ora di insegnarmi tutto.
Avvampai violentemente. «Sei tu quello che non sa mai nulla!» mi misi sulla difensiva: non ero io che lo bacchettavo tutte le volte che dimostrava di non sapere qualcosa? Il fatto che fosse lui, adesso, a dovermi insegnare chissà quale perversione, mi riempiva di incertezza, timidezza, imbarazzo, calore. Un calore che poté solo aumentare alla sua calda, bassa, cavernosa risata.
«La situazione si sta rovesciando, principino.» cantilenò, dritto sulle ginocchia, le mani che ora mi scostavano con calma le ginocchia, mi aprivano le gambe, creavano uno spazio dove potersi infilare meglio. «Non immaginavo che le lentiggini arrivassero fin qui.» osservò, leccandosi le labbra in un guizzo umido della lingua, che mi fece contrarre lo stomaco più forte. Poi riprese la sua interessante spiegazione. «Vedi, perché due uomini possano godere insieme...» Godere. Quella parola suscitò l'ennesimo brivido acuto dentro allo stomaco, e poi giù fra le gambe, lì dove la mia virilità non riusciva a nascondersi dietro alle mani, troppo sveglia all'idea di avere gli occhi di Cyran posati addosso.
Come se non bastasse, aveva incominciato a disegnare con le dita percorsi invisibili fra la mia pancia, l'inguine e il membro, come se volesse imparare tutto a memoria, scostandomi le mani tutte le volte che io le rimettevo a mo' di nascondiglio. «... Uno dei due deve infilare il c-»
Mi tappai le orecchie, al limite della sopportazione. Quella lezioncina stava diventando fin troppo umiliante per me. «Basta...! Stupido mascalzone... Rozzo e volgare come nessun altro al mondo!» mi lamentai, senza più sapere se era il caso di coprirmi la faccia o l'intimità, e senza sapere che cosa volesse infilare e dove.
«Be', pensavo volessi sapere come ti avrei rubato la verginità.» Sorrise, con un luccichio deliziato e affamato negli occhi, prima di sollevarmi per le cosce e, in una posizione un po' scomoda, appoggiarle sulle sue spalle. «Ma se non ti interessa...»
Non ebbi il tempo di realizzare quello che stava per fare. Quando lo capii fu troppo tardi, e io troppo sorpreso per sbraitare qualche debole frase sul pudore e la vergogna che non possedeva. La sua lingua strisciò in un posto troppo intimo e troppo nascosto fra le natiche ed iniziò pazientemente a leccare, lappare ed inumidire la pelle violando una zona così sacra che mi lasciò senza parole. Solo un mucchio di gemiti.
«Oh! Cy..rr.. Non... Lì-!» Strizzai le lenzuola in un pugno di seta e ansimai ancora più forte, scosso dal piacere che quella strana operazione mi suscitava, non più di quanto mi sorprendesse il posto in cui lo stava facendo. Tremavo, mi affannavo, con gli occhi resi liquidi dal languore che si faceva strada nella zona pelvica e mi mandava a fuoco: era per colpa del suo potere che sembravo ardere in mezzo ad una landa di fiamme? Non credevo proprio.
«Adesso inizia» mormorò, scostando le labbra di qualche centimetro dalla mia carne umida e arrossata. «il vero piacere.» sentenziò, sicuro come la morte, abbassandomi i fianchi sul letto. Si ravvivò i capelli all'indietro come se si preparasse per un compito che avrebbe richiesto tutta la sua fatica – solitamente faceva così, non avendo maniche da rimboccare – poi accolse indice e medio in bocca succhiando per qualche breve secondo finché le sue dita non tornarono a torturare lo stretto cerchietto di muscoli racchiuso fra le mie gambe.
«N... Nonpossiamofarlo!» mi agitai, scivolando sulle lenzuola in una danza di fianchi. «Mi-mi vergogno troppo.. E poi proprio lì mi...»
«Tranquillo, Francis.» sussurrò in fretta il mio nome come se fosse qualcosa di bollente che a tenerlo troppo sulla lingua rischiava di scottarsela. S'inclinò sopra di me, le punte dei nasi che sfregavano leggermente. «So quel che faccio.» Un caldo bacio si depositò sulle mie labbra, facendosi strada in modo da poterlo approfondire, con la stessa lingua con cui aveva leccato... Aveva leccato...
Avvampai ancora più violentemente di prima, spalancando la bocca tutta d'un colpo quando percepii un dito ruvido scivolare dentro di me, estraneo, fastidioso. Strizzai gli occhi, limitandomi a guardarlo fra una linea frastagliata di ciglia, le mani fisse sulle sue scapole, le unghie infilate nella sua carne. Boccheggiando.
«Che... No.. strano...» mi limitai a biascicare qualche frase priva del suo senso compiuto, ormai con l'intero corpo arrossato e avvolto dalle fiamme, la schiena inarcata, gli occhi ora sgranati, ora serrati, alla ricerca di qualcosa che non mi facesse sentire così pieno di vergogna. Ma non potevo sfuggire dal suo sguardo o dalle sue attenzioni, perché lui sapeva bene come comportarsi e cosa accarezzare, come se avesse già conosciuto ogni centimetro del mio corpo, che pian piano iniziava sempre più ad abituarsi, accettando il lento e lezioso scivolare di dita esperte capaci di lasciare un segno, un'impronta. Finché non sentii qualcos'altro premere fra i miei fianchi.
Con un'audace occhiata mi arrischiai a scorgere la situazione, con il capo leggermente alzato e i capelli rossi tutti scompigliati in una nuvola di caramello contro al cuscino. Per poco un fiotto di sangue non mi scivolò dal naso. Tutta colpa della sorpresa, subito sostituita dal mio casto senso del pudore, che dopo aver visto la nudità di Cyran sembrava fosse andata a farsi benedire. Le garze erano semplicemente scivolate vie, rivelando ciò che i pantaloni erano sempre propensi a mal celare durante il giorno. Con una meravigliosa e spaventosa presa di consapevolezza, capii cosa voleva infilare e dove.
«Che c'è, vedi qualcosa che ti piace, principino?» ridacchiò lui, affilando lo sguardo color ambra mentre muoveva il bacino fra le mie gambe strusciando carne contro carne, il sorriso accaldato e compiaciuto stampato sulla faccia e la lingua che più volte guizzava sul labbro superiore o sulla mia coscia, sollevata fra le sue mani. Mugolai ancora, come un gattino spaurito, sentendo le ginocchia tremare nel chiudersi dietro alla sua schiena, ritrovando un punto d'incastro. Le mie cosce ora premute sui suoi fianchi, le mie mani arpionate sui muscoli saldi della sua schiena.
«...» Entrare con quello dentro di me era semplicemente una pazzia. Non risposi alla sua provocazione, non riuscivo neppure a parlare: ogni volta che il suo bacino si muoveva e si strofinava contro i miei punti più sensibili sussultavo e gemevo nel modo più imbarazzante possibile. Se qualcuno mi avesse sentito in quel momento, avrei perso la mia credibilità e dignità di principe, o peggio: di uomo.
«Rilassati...» sussurrò, mentre delineava la virilità fra le mie natiche senza smettere di scandagliarmi con lo sguardo affamato, intenso, infuocato. Spostò una delle mie mani dalle sue spalle per stringerla, baciarne le nocche, leccarne leziosamente le dita, con un'inaspettata dolcezza che precedette il dolore.
Non avevo mai capito cosa volesse dire fare l'amore fino a quel momento. Sentire Cyran dentro di me era una consapevolezza più grande del bruciore fra le gambe, o del piacere che mi risaliva fra le cosce. Era come se il tempo si fosse fermato fuori dal piccolo oblò del dirigibile e che tutto il mondo girasse intorno a noi, a quell'istante, al suo corpo che si muoveva dentro il mio, ed io lo sentivo. Sentivo tutto.
«Se ti faccio male...» grugnì una specie di verso affaticato, le sopracciglia aggrottate e un velo di sudore ad imperlargli la fronte. «... dimmelo.» Strinse più forte la mia mano, ma senza farmi male, inclinandosi sopra di me con una contrazione di muscoli che sentii guizzare sotto la presa sulle scapole. La sua bocca scivolò sul mio orecchio, ne baciò il lobo, soffiò sulla pelle un ansimo che si fuse ai miei. Sentirlo gemere accendeva il mio desiderio ancor più fortemente. «Faccio di tutto per farmi odiare dagli altri, ma tu sei l'ultima persona che voglio lo faccia.»
Rimasi a bocca aperta. «Non... Ngh.. ti.. mmhh.. odio.» gemetti, iniziando a sentirlo muoversi dentro di me, lentamente, con una certa prudenza. Mi faceva male, è vero, ma non l'avrei mai ammesso, almeno non con la stessa facilità con cui ammisi di non odiarlo.
Era privo di qualsiasi garbo, ignorante, arrogante, impulsivo, manesco, lascivo e donnaiolo, e tante altre cose ancora, ma non ero stato in grado di odiarlo fin dal primo momento. Né di ribellarmi alle sue impudenti attenzioni. Forse era inevitabile che finissimo in questa situazione, qui, con le gambe intrecciate fra le lenzuola, musica nelle orecchie, fianchi contro natiche, bocche contro bocche, mani contro mani. In una strana armonia dei sensi che mi era del tutto nuova.
«Cy... Aahh-!» ansimai ancora, di nuovo, finché la stanza non si riempì del suono dei nostri gemiti e dei nostri corpi che si scontravano, con più velocità, ritmicamente, incapaci di distaccarsi finché tutto non fu semplicemente... Concluso. Ma non prima di aver sentito un'ondata di piacere così forte che credetti di morire per qualche secondo. Il corpo tremava, il cuore esplodeva e il mio grido si faceva più impetuoso insieme a quello del mercenario, che dopo essere venuto mi teneva abbracciato contro il petto, le labbra premute sulla fronte e il fiato ancora affannato dallo sforzo di tutto quel movimento.
La vergogna se n'era andata ma un po' di pudore era rimasto ancora, tanto che mi coprivo la nudità con le lenzuola, ma non mi allontanavo dalla sua stretta, petto contro la mia schiena, braccia incrociate intorno alla vita e una guancia posata sui miei riccioli. Non osavo guardarlo in faccia dopo il modo in cui gli avevo sporcato la pelle col mio seme, ma non mi allontanai, beatamente cullato dalle sue braccia.
«Allora... Com'è stato?» chiese, senza allontanarsi per andare a spegnere la musica. Rimanendo semplicemente lì con me, con un sottofondo di divertimento nella voce all'idea che io potessi commentare le sue prestazioni o quello che era appena accaduto fra di noi. Invece, mi limitai a biascicare qualche frase sconnessa prima di appisolarmi stancamente fra le sue braccia. E sorridevo.
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