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20. Nuda verità, letteralmente


Francis



C'erano questi due bambini, un po' sudaticci dentro ai loro vestitini pregiati, con i capelli fulvi e quelli azzurri incollati alle fronti, le guance paffute troppo rosse per la corsa, i petti che si alzavano e si abbassavano rapidamente nel tentativo di strappare aria dall'ambiente intorno a loro. Sotto al sole di Minartias, le loro pupille splendevano d'agata e metallo, le loro labbra tremule per la fretta di respirare si riscaldavano un poco, e le palpebre si sgranavano ancora alla ricerca di un nuovo posto dove nascondersi.

«... Cinquantasette, cinquantotto...»

Una voce altrettanto infantile scandiva il minuto che correva in quell'istante, mentre i due si guardavano intorno, e la principessina afferrava il colletto dell'altro come per strattonarlo.

«Dove andiamo?!»

Lui sorrise e le prese la mano, iniziando a correre. Ed io mi ricordai di com'era bello quel giorno, e di quanto tempo fosse già passato rispetto a quando eravamo piccoli, senza alcun problema al mondo se non quello di trovare il nascondiglio migliore.

Reprimendo un moto di nostalgia, rimasi a guardare ancora per qualche istante il regno fuori dalla finestra, che un giorno sarebbe diventato mio. Così come il bellissimo palazzo di Minartias, che annoverava un'ampia serie di labirintici giardini e roseti, così come ridenti meleti ed orticelli dove le piante colme di pomodori scintillavano di rosso come grappoli di rubini. Rimasi a lungo a fissare la cupola di vetro della serra preferita della principessa, quella dove passavamo troppo tempo a sfuggire dalle governanti e dal resto della corte, mentre ci sforzavamo di saper leggere tutti i nomi impronunciabili delle specie di piante.

No, non amavo la principessa Aeline, ma non potei non sentire la scintilla dentro al petto per il giorno che stavo vivendo. La celebrazione del nostro fidanzamento ufficiale, cerimonia che avrebbe preceduto, nell'arco di tempo di due anni esatti, il giorno del nostro matrimonio, e l'incoronazione di entrambi. Sarei diventato il sovrano di due enormi regni e con me avrebbe governato la mia migliore amica: l'idea mi faceva sorridere, in un'espressione colma di soddisfazione e fierezza. Eppure, in un minuscolo posto nascosto dentro al mio petto, la scintilla d'infelicità iniziò a pulsare come veleno impossibile da espellere. Non era quello che desideravo davvero, ed ogni angolo della mia mente lo urlava a gran voce, ma scacciai in fretta la protesta interiore.

Era tutto preparato. Indossavo quello splendido farsetto verde marocchino, una nuova spilla appuntata sul petto, una nuvola vaporosa di capelli fulvi e un profumo alla menta spalmato dietro alle orecchie. Stavo solo aspettando, indugiando davanti alla finestra, che il Re mi chiamasse per ultimare i preparativi finali e dare inizio alla grandiosa cerimonia che si sarebbe svolta nel primo pomeriggio. La mia attesa, infatti, non si protrasse ancora a lungo: un messaggero si allungò in profondo inchino, giunto al mio cospetto.

«Seguitemi, urge la vostra presenza nella Sala del Trono.»
Forse, quelle parole avrebbero dovuto farmi presagire qualcosa di grave e terribile, ma ero talmente spaccato a metà fra la mia infelicità e la mia diligenza verso i doveri da principe, da non rendermi conto dell'evidenza che si affacciava bruscamente nella giornata. Annuii col capo, lasciando che il messaggero mi desse le spalle per farmi strada - anche se sapevo benissimo dove si trovava la Sala del Trono - fermandomi dinnanzi alle grandi porte intarsiate, una volta raggiunte.

All'interno, nascosto dalla penombra di una tenda c'era il Re di Akra, di spalle, con le mani che si accartocciavano dietro alla schiena chiudendole e riaprendole rapide come una specie di movimento convulso, un tic difficile da mettere a freno. Quando si voltò, mi accorsi che aveva gli occhi iniettati di sangue come se una vena dell'occhio fosse sul punto di scoppiare, o come se avesse pianto troppo. 

Non disse una parola, ma si mosse verso di me e mi acciuffò un polso in uno slancio tanto improvviso e in uno strappo totale alle norme regali della cortesia, che ci rimasi di stucco. Tanto che per qualche istante non spiccai parola, almeno non finché non iniziò a trascinarmi di peso fuori dalla sala, verso i corridoi, diretto chissà dove.

«Sire?!» trillai, del tutto sorpreso, sentendo il polso dolermi a causa della morsa ferrea che non accennava ad allentarsi. Lui, invece, si voltò appena a guardarmi da sopra ad una spalla.

«È sparita! È sparita, sparita!» Il tono d'urgenza e paura nella sua voce mi fece venire la pelle d'oca. Il mio istinto aveva perfettamente capito che era accaduto qualcosa di brutto, ma ancora preferii rimanere all'oscuro.

«Chi...» La voce mi tremò fra le labbra, un po' come se già sapessi perfettamente di chi parlava ma non volessi crederci, non ancora. Sebbene la realtà risultasse evidente, quando il Re di Akra si bloccò davanti alla porta della camera da letto di Aeline. «No.» Un sussurro fuoriuscì dalle mie labbra, che si fecero secche all'istante. Il volto divenne una maschera di chiaroscuri, le espressioni sempre più incavate dal più terribile degli sconvolgimenti.

La porta era socchiusa. Dal piccolo spiraglio, riuscivo soltanto a vedere il buio all'interno, e a percepire un silenzio mortale che mi entrava sino alle ossa, facendomi rabbrividire. Il Re non disse niente. Si limitò a guardare la porta facendosi indietro, immobile come una statua, fissando la maniglia come per dirmi tacitamente di aprire. Perché tanto lui aveva già visto. Perciò io posai la mano sull'anta della porta ed iniziai ad aprirla, con un cigolio sinistro ed un crepitio strano, come di foglie che scricchiolavano sotto al peso della porta. All'inizio non vidi nulla, tanto che mi limitai ad avanzare di un passo.

Sotto al mio piede, qualcosa scricchiolò in maniera sgradevole, come se avessi calpestato un biscotto per sbriciolarlo interamente. Quando abbassai lo sguardo, un grido mi morii in gola: il pavimento di pietra bianca adesso era nero. Rattrappite su se stesse come se qualcosa le avesse fulminate, milioni di mosche morte tappezzavano la camera della principessa di Akra. Di lei, non c'era più traccia.


Non sapevo come fosse possibile che in una giornata dal mattino tanto terso e limpido e dalla notte così stellata, ora ci fosse una coltre di nebbia così fitta che era impossibile vederci ad un palmo dal naso. O forse ero io, forse era la mia vista guasta, o meglio, la vista dell'erborista. Questo non era il mio corpo, e l'impressione che le condizioni di esso peggiorassero ora dopo ora, minuto dopo minuto, non dovevano preoccuparmi, fino a che avevo la certezza di ritornare ad avere il mio.

Eppure, la situazione mi angosciava ugualmente. Non soltanto perché trattenere il suo segreto e guardare in faccia Rhod Hywel allo stesso tempo mi pareva meschino, ma anche perché stavo iniziando ad affezionarmi a loro. Eravamo uniti per una causa comune: la salvezza della principessa. 

Tuttavia, a starmi a cuore adesso erano anche loro. Ricordavo ancora il giorno della scomparsa di Aeline, ricordavo il sentimento di dolore dentro al petto e poi quel minuscolo, impercettibile, e al tempo stesso presentissimo trionfo. Come se avessi scampato il mio destino per un colpo di fortuna, perché il caso aveva deciso di fare la sua mossa al posto mio. 

Quando avevo realizzato quell'emozione e ne avevo presa piena consapevolezza, mi ero sentito una persona orribile. Ecco perché adesso era così importante trovare la principessa: a me importava di lei. Dovevo chiarirlo al mio io interiore. Certo che mi importava, come mi stavano a cuore i miei nuovi amici. E anche qualcuno che, in verità, non si poteva certo definire amico.

I miei occhi caddero sulla figura di Cyran Rouge, o meglio su quello che era il suo corpo, ora abitato dall'anima del mago. Quel mercenario stava facendo la cosa più improbabile di tutte: leggeva con assoluta concentrazione un libro, situazione che comunemente mi sarebbe sembrata surreale. Lui, che a stento guardava le immagini perché poi finiva per scocciarsi terribilmente.

«S-salvia!» sillabò, mentre allungava le mani accanto a sé, dove l'erborista, ancora col mio corpo indosso, pescava erbe da una sacca di cuoio, svitando e stappando barattoli di vetro alla velocità di un fulmine. Gli mise un mazzetto di foglie verdi fra le mani e l'altro ne diede fuoco alla punta, sfruttando le fiamme che aveva acceso in un improvvisato braciere. Iniziò a sventolare il mazzo di salvia fumante da sinistra a destra con movimenti circolari, come se desiderasse riempire di puzzo di bruciato l'intera valle, scacciando la nebbia con manciate di cenere.

I nostri cavalli, legati un po' più lontano, nitrirono come per protestare, mentre io invece camminavo irrequieto intorno al perimetro che avevamo delineato conficcando fiaccole nel terreno, formando un cerchio. Al centro di esso, sopraelevato su di una collinetta dall'aspetto assolutamente innocuo, vi era un albero gigantesco, maestoso ed anche un po' inquietante. Uno di quegli alberi così rigogliosi, così perfettamente bilanciati fra la nodosità e il numero impressionante dei rami, da creare soggezione. Ogni ramo sembrava un braccio scheletrico che si contorceva nell'aria, restando immobile ad agonizzare nella sua scomoda postura.

Smisi di fissare l'arbusto all'istante, quasi temessi di vederlo muoversi, assumere le sembianze di un gigantesco vecchio arrabbiato per il furtarello del mercenario, cioè la collana che aveva preso il giorno prima. Lui, il vero Cyran, se ne stava fuori dal cerchio a lanciare sassi per terra ripetutamente, come a tentare di prendere in pieno una lucertola che, tuttavia, gli scappava sempre all'ultimo. Sospirando, dentro di me pregai per la buona riuscita del rituale, visto che in quella forma il corvino era peggio del solito. Ma ero quasi sicuro che l'incantesimo funzionasse. Perché anche se io e Cyran ce ne stavamo a girarci i pollici, il mago e l'erborista sapevano esattamente che cosa fare.

Mi voltai a guardarli: sebbene in corpi diversi, mi sembrava di stare ad osservare i veri loro come se li fissassi attraverso, dritto all'anima. Dopo tutti i guai che avevamo passato, potei affermare con certezza che erano loro la mente del gruppo, quelli capaci di tirarci fuori dai mille disastri in cui ci cacciavamo. Sorrisi appena, riservando una preghiera anche per loro, specialmente per André Sion. Sperai che potesse trovare la sua Lingua di Drago.

«Ma che diamine!»

L'onda dei miei pensieri s'interruppe all'improvviso, quando il mercenario – quello vero – sembrò stufarsi di aspettare e gettò rumorosamente la pietra a terra, lasciandola a schiantarsi contro la corteccia di un albero. Poi, iniziò a camminare con l'aria impettita verso il suo corpo, che in quel momento continuava a leggere formule da un grimorio e a bruciare erbe, proprio seduto fuori all'estremità del cerchio, di fronte all'albero, come se sapesse perfettamente cosa fare. In effetti, il mago era l'unico che capiva quello che stava succedendo.

Ricapitolando gli avvenimenti fino a qualche minuto prima: dopo le indicazioni di quel misterioso ma simpatico tipo di nome Marshall, non avevamo aspettato nemmeno la venuta del giorno. Sembravamo avere tutti fretta di tornare nei rispettivi corpi – tutti meno l'erborista, ma questo lo sapevo solo io. E quindi avevamo galoppato sino al colle, fortunati che il mercenario combina guai si ricordasse la sua locazione. 

A quel punto, Rhod ci aveva spiegato che avvicinarci ad un tumolo privo del suo sigillo – la collana – avrebbe potuto essere pericoloso. Da quel momento in poi, l'invito era di restare fuori dai confini del cerchio creato, e di aspettare che preparasse ogni singolo ingrediente prima di iniziare il vero rituale.

Non sapevo in che cosa consistesse precisamente, ma, a quanto avevano detto le sue balbettanti parole, si trattava di qualcosa in grado di calmare la furia della tomba, o dello spirito che albergava sotto all'albero. Onestamente, mi sembrava tutto molto tranquillo. Nebbia e albero inquietante a parte. Fino ad ora.

«Mi sono rotto le palle!» sbottò Cyran, e prima che io potessi anche solo aprire bocca per dirgli di moderare il linguaggio, lui s'avvicinò ad André e gli strappò la collana dal collo. Dopo, fece qualcosa che mi portò finalmente a realizzare perché era di assoluta importanza non avvicinarsi all'albero.

«Cyran, no!» gridò il mago, ma lui iniziò a correre come un forsennato verso la corteccia, dove al centro vi era un buco perfetto, in cui, con tutta probabilità, andava collocato il gioiello. Non fece molti passi.

Successe così velocemente che quasi non riuscii a capire che cosa fosse successo: uno strattone dell'aria, e il corpicino di Rhod Hywel, ora abitato dal mercenario, volò a diversi metri come un fazzoletto senza peso, schiantandosi di schiena contro la corteccia di un abete parecchio distante dal punto in cui si trovava prima. Per diversi secondi restò immobile, riverso a terra. Secondi in cui io mi congelai perché angosciato dall'ipotesi che avrebbe potuto non rialzarsi affatto. Invece, piantò le dita nel fango e sputò una manciata di terra, scuotendo la testa per levarsi le foglie dai capelli castani.

«Che cosa è... Successo?» chiesi, con una piega che mi si disegnava al centro della fronte, perplesso.

«Quel fottuto albero.» ringhiò, mentre io mi accorsi che più andavamo avanti col viaggio, più Cyran si stava facendo sboccato. Certo, non potevo biasimarlo: talvolta anche io mi sarei voluto concedere il lusso di imprecare un poco, ma avevo paura che gli dei mi sentissero, e mi punissero più di quanto già non stessero facendo. Purtroppo, ero parecchio scaramantico in queste cose.

Comunque, lasciai cadere gli occhi sul grosso arbusto, di nuovo. «In che senso?»

«In questo!» Lanciò un sasso verso l'albero, piccato, mentre io osservavo uno di quei rami muoversi e parare il colpo restituendogli la pietra con il doppio della forza, ed una mira così precisa che se lui non avesse schivato in tempo, l'avrebbe colpito dritto in fronte.

«Ecco perché Rhod vi ha detto di aspettare.» esclamò André, sfoderando una delle sue mille espressioni identiche alle altre, che sulla mia faccia... Facevano davvero rabbrividire. Il mercenario alzò gli occhi al cielo, imprecando fra le labbra, prima di sedersi a terra con le braccia incrociate sul petto.

Si vedeva che il corpo del mago "gli stava stretto". Ogni gesto che compiva, sul fisico minuto ed esile del ragazzino, pareva una grottesca caricatura. E poi, con quelle sottili treccine ai lati delle tempie e i capelli corti, non aveva nessuna chioma da gettare all'indietro per sfogare i nervi nel suo tic personalissimo.

Per qualche altro minuto restammo in silenzio, e così io, aspettando nuovi ordini: ci furono altre erbe da bruciare. Il profumo intenso della lavanda e della verbena bruciarono nell'aria in aloni di fumo grigio, ed io mi persi nella noia, ad aspettare che succedesse qualcosa di diverso da un albero che ci faceva a fettine a sferzate di rami. Il mio desiderio venne esaudito quando il mago si schiarì la voce, con uno dei suoi timidi sorrisi sulla bocca.

«Gli... I-ingredienti.. ehm.. Sono pronti.» Mi feci più vicino a lui, che per qualche ragione iniziò a diventare rosso. Ancora una volta, la vista della faccia di Cyran Rouge che arrossiva era qualcosa di assolutamente sovrannaturale, ma mi sforzai di ricordarmi che quello non era il vero mercenario. «O-o-ora... Dobbiamo... S-s-sp-p-ogliarci.» Il mio sopracciglio si sollevò così tanto che iniziai a sentir dolere la parte sinistra della fronte.

«Che cosa?!» sbottai, mentre il faccino solitamente timido del mago iniziava a sogghignare.

«Finalmente una cosa che mi piace.» Lo ignorai.

Il vero Rhod si schiarì la voce, come se si stesse preparando per un discorso lungo e complicato, per cui era necessario ridurre al minimo la balbuzie. «E' i-importante. D-dobbiamo essere... Sterili, dentro al cerchio. Gli ab-abiti p-potrebbero... Interferire nello scambio di a-anime.» spiegò, mentre la mia mente era troppo impegnata a lamentarsi e a dire che nulla aveva impedito che il primo scambio avvenisse, iniziando un nuovo ciclo di guai. Un'altra parte di me, invece, si stava facendo piccola piccola. Mi coprii la faccia fra le mani, così impegnato ad affondare nel mio imbarazzo che all'inizio non intercettai l'occhiata che mi stava scoccando André.

Giusto. C'era un particolare, di proporzioni enormi, che stavo dimenticando. Non ero più nel mio corpo. Peggio, ero in quello di qualcuno che aveva tutti i motivi per non volerlo mostrare. I miei occhi incontrarono i suoi, e nel nostro scambio di sguardi ci capimmo in un singolo istante.

Non potevo spogliarmi. Dovevo cercare un modo per fuggire dalla situazione.

«No! Sono assolutamente contrario! Non mi spoglierò mai!» mi impuntai, facendolo passare per un capriccio qualunque, ma riuscii ad intravedere un'ondata di gratitudine da parte dell'erborista, che rimane zitto. Muto e sigillato come un libro col lucchetto.

«Oh, andiamo, come se qualcuno fosse interessato al corpo del fioraio!» Il vero Cyran sventolò una mano per aria, come se la sola idea lo disgustasse. Per qualche motivo, però, il mago si fece ancora più rosso. Nessuno dei due aveva idea del problema.

«Non esiste altro modo?» chiese allora l'erborista, che sebbene avesse il tono impassibile di sempre, sembrava che avesse l'urgenza di sentire una risposta affermativa. Lo notai soltanto io, comunque.

«N-n-no... E'.. Necessario.» rispose Rhod, inarcando le sopracciglia verso l'alto come per scusarsi della cosa.

«Sentito? E' necessario! Ora levatevi i vestiti di dosso!» Cyran iniziò a levarsi i vestiti molto velocemente, come se non gliene importasse un fico secco, che quello non era il suo corpo. «Oh, sì, sono davvero uno schianto.» Esibì un enorme sorriso all'indirizzo del mago, probabilmente felice di potersi vedere in terza persona, ammirando in ogni singola angolatura i suoi muscoli. L'idea di poterli ammirare anch'io – e di poter vedere ancora più di quelli – mi fece fremere fin dentro alle ossa, arricciare le dita dei piedi. Ma al momento avevo cose più importanti di cui preoccuparmi.

Rimasi fermo. Le dita non s'avvicinarono ai bottoni della camicia, gli stivali rimasero calzati ai piedi, la cintura allacciata intorno ai fianchi. Catturai ancora una volta i miei occhi grigi, mossi dall'erborista, che strinse le labbra. Scosse leggermente la testa. Si era arreso, allora. 

Chiusi per un momento gli occhi, come in segno di scuse, poi iniziai a spogliarmi: la camicia scoprì il petto eburneo e glabro, con i talloni mi aiutai a sfilare le scarpe, e poi la cintura s'allentò abbastanza da poter calare i pantaloni verso il basso. Chiaramente, gli indumenti intimi erano da nobili, perciò il mio vero corpo era l'unico che indossava un paio di calzoncini. Che tuttavia fu costretto a togliere, come il resto. 

Avrei voluto arrossire e affondare in ondate di cocente imbarazzo, ma la situazione era troppo dolorosa anche solo per vergognarsi: in pochi secondi, gli occhi di tutti erano puntati su di me. O meglio, sul corpo dell'erborista. Uno spettacolo di devastazione piuttosto raccapricciante.

Dalle spalle sino alle caviglie, sembrava che un pazzo avesse giocato ad aprire e chiudere il suo corpo così tante volte che le cicatrici e le cuciture sparse un po' dappertutto non si potevano contare. Aveva grossi e piccoli marchi a fuoco nei posti più impensabili, graffi, segni da taglio e perfino qualcosa di simile ad unghiate. E poi ustioni, morsi, forellini simili a costellazioni di punture da ago e chissà cos'altro. Infine, all'altezza del cuore, gli si vedeva una strana pallina nera che gli macchiava la pelle, come un tatuaggio. Era uno spettacolo davvero raccapricciante, che mi fece rabbrividire, come se l'avessi provato io stesso, quando non avevo la minima idea.

André non osò fiatare davanti alla nuda verità che tutti stavano guardando. Per una volta, anche Cyran rimase in silenzio. Rhod, invece, sembrava avere l'aspetto di uno a cui avevano dato così tanti calci nello stomaco che, evidentemente, si era dimenticato com'era averne uno. Era sconvolto: pallido, le labbra schiuse e gli occhi sgranati.

«Possiamo andare avanti?»

L'erborista ruppe il silenzio, e dietro alle ondate di apatia giurai d'aver sentito una gelidità indescrivibile. Il mago si ridestò, deglutendo, poi iniziò a circolare davanti a noi per poter spalmare sulle rispettive fronti la mistura di cenere dalle erbe bruciate e oli profumati, in delle forme specifiche. Quando si parò davanti a me, l'incontro fu dei più assurdi. Io, perché cercavo di non guardare verso le parti basse di Cyran – era ancora nel suo corpo, chiaro – e lui perché cercava di non fissare il fisico dell'erborista, longilineo ed asciutto, ma deturpato da ferite inenarrabili.

«Inginocchiatevi e pensate i-intensamente... Al vostro corpo. A c-com'era abitarlo. La s-s-sensazione.»

Per André Sion quella sensazione doveva essere il dolore. Il fiato corto, gli occhi velati dalla miopia, la debolezza nelle gambe. Iniziavo a capirlo. Ma cercai di dimenticarlo, di focalizzarmi invece sul mio corpo. La sensazione era... Agilità. Era la freschezza delle giornate di pioggia nel regno di Gilerines. Era il profumo dei papaveri che mia sorella Clarisse mi metteva dietro alle orecchie perché diceva che assomigliavano al colore dei miei capelli. Era lo sguardo grigio che si fondeva con le nuvole temporalesche fuori dal mio palazzo, quando le guardavo e mi ci perdevo, lasciandomi cullare dal suono dei fulmini.

Comunque, proseguii di qualche passo in avanti, avanzando verso l'albero, inginocchiandomi come gli altri per creare un semi-cerchio di fronte a quella che sembrava una quercia millenaria, che conservava la tomba di chissà chi. Congiungetti le mani davanti al petto, i palmi premuti, gli occhi chiusi, la mente che continuava a ricordare com'era essere me stesso. 

Ricordai il modo in cui il farsetto mi fasciava le spalle, il tintinnio delle medaglie appuntate al lato del petto, il dondolio della spada leggera al fianco, il peso di troppe responsabilità sulle spalle. Poi, incominciai a sentire uno strano rumore, come un fruscio che si sovrapponeva alla velocissima litania biascicata sottovoce dal mago.

Aprii leggermente le palpebre, sbirciando fra le ciglia: sul terreno si erano pigramente allungati i rami dell'albero, che strisciavano verso di noi come serpenti, lentamente, ma incombendo con uno scricchiolio di foglie.

«Rhod...» sussurrai, con un senso d'allarme nella voce. Ma lui continuò a pronunciare quelle formule, ancor più velocemente di prima, senza balbettare. Anzi, con una precisione micidiale, come se le conoscesse tutte a memoria. I tralci continuarono ad avvicinarsi. «Rhod... Ehi...» Mi irrigidii, mordendomi il labbro inferiore. Il mago, però, scosse la testa come ad intimarmi di chiudere la bocca e di avere fede in quello che stava facendo. Ecco perché decisi di strizzare gli occhi nella speranza che non mi accadesse niente.

La ruvidità di un ramo mi toccò la spalla, scivolando poi a circondarmi le scapole, fino ad avvolgermi l'intero torace in una stretta dapprima leggera, e poi sempre più forte. Iniziai a temere che mi stritolasse sul serio. Tuttavia, in quell'istante, il mago si alzò in piedi, collana fra le mani chiuse a coppa, ed iniziò a camminare verso il tronco della quercia. Intanto, mi accorsi che anche gli altri erano nella mia stessa situazione, che stava peggiorando. 

Un altro ramo mi avviluppò la gola, stringendomi i lembi del collo per avvolgermi più volte, come le lunghissime collane di perle che indossavano certe dame. Il viticcio però non faceva che stringersi intorno alla mia trachea. Iniziavo a sentire dolore, e un po' d'aria venir meno. Nelle vicinanze, vidi il mio stesso corpo che si contorceva perché i rami non facevano che stringere le gambe, salendo dai polpacci fin sopra alle cosce.

Corsi ad afferrare i rami che iniziavano a stritolarmi la gola, come col tentativo di frenare la morsa, o di ricavare qualche centimetro in più che mi permettesse di respirare, almeno fino a che il mago non avesse finito di compiere chissà quale magia. Ma non ci riuscii granché, tanto che sentii l'ossigeno venir meno, e gli occhi lacrimare un poco per l'improvvisa mancanza d'aria.

«RHOD!» gracidai, con la voce strozzata, annaspando. Nel mio sofferente soffocamento, sentii anche le grida degli altri, ma iniziò pian piano a diventare tutto confuso. Alzai gli occhi verso il cielo, ricoperto da una coltre di nebbia troppo fitta perché riuscissi a guardare le stelle. Poi, avvertii un mancamento così intenso che la vista divenne nera, le braccia si molleggiarono verso il suolo e persi i sensi.


❧❧


Quando rinvenni, mi resi conto di troppe cose tutte insieme: non avevo rami stretti intorno al collo, l'aria mi circolava correttamente nei polmoni, il mercenario incombeva sopra di me muovendomi leggermente per le spalle e, be', ero nudo. Ma soprattutto, ero di nuovo io. Capelli fulvi, occhi grigi, statura minuta, gambe sottili.

«Ehi, principino... Principinoo?» dal modo in cui mi chiamava, capii che anche Cyran, con sua somma gioia, doveva essere ritornato nel suo corpo. Scandì quella "o" con un tono cantilenante e un vago sorrisetto arrogante, mentre mi alzavo a sedere, stordito. Le orecchie mi fischiavano, come se fosse esploso qualcosa nelle vicinanze, e notai che avevo qualche graffio sulle gambe, ma oltre quello, stavo bene.

Oltre alle spalle del mercenario, c'era il mago che accarezzava lentamente la gola di André, appena tinteggiata dai lividi dei rami che fino a qualche momento fa stavano strangolando me. Non si stavano parlando, ma capii che avevano tante cose da dirsi; l'erborista, probabilmente, non gli avrebbe raccontato tutta la storia. Soltanto una parte. Quanto a me, finii finalmente per tornare al presente e, a tutta velocità, mi strinsi le gambe al petto, coprendomi le nudità.

«I miei vestiti... Dove sono i miei vestiti?!» Mi guardai intorno, ignorando il modo in cui il mio Lancillotto abbronzato mi fissava, deglutendo e avvampando per la vergogna. Li notai appesi ad un albero, dove André doveva averli lasciati, e per fortuna era nelle vicinanze. Perciò mi alzai in piedi, coprendomi alla bell'e meglio con le mani, pronto ad allontanarmi.

Per fortuna il corvino non mi fermò, ma sembrò godersi la vista del mio didietro mentre io mi avvicinavo ai miei vestiti. Mi nascosi dietro ad un albero, cercando di sbollire dalla vergogna, finché lui non spuntò proprio dietro al tronco, facendomi sobbalzare.

«Cosa c'è, ti nascondi da me?» disse, sollevando le sopracciglia come in una specie di sguardo ammiccante che mi fece formicolare la pancia. "Non guardare in basso", cercai di tenere a mente, con le guance bollenti.

«Non mi sto nascondendo da te!» mi affrettai a rispondere, per poi coprirmi con la mano libera gli occhi. «Solo... Mettiti qualcosa addosso!» implorai, strappando via dai rami la mia camicia per appallottolarla davanti alle mie grazie.

Ma più facevo così, più lui sembrava sogghignare con un luccichio estremamente compiaciuto negli occhi. Posò una mano contro la corteccia su cui io avevo poggiato la schiena, mentre con l'altra iniziò a toccarmi il fianco nudo, scivolando verso le natiche in un tocco lento e lezioso che mi fece rabbrividire. «Io avevo in mente qualcos'altro...» sussurrò, posandomi le labbra su un lobo, mentre il rumore della mia gola che ingoiava un groppo di saliva risuonava nel silenzio della valle immersa nella notte.

«Non è il momento... Smettila...» biascicai, sentendomi all'improvviso più debole, con le gambe che diventavano gelatina man mano che s'avvicinava. Ma era vero che non era il momento adatto: fino a qualche istante fa un albero assassino aveva tentato di spappolarci e soffocarci fra i rami, e sebbene avessimo recuperato il possesso dei nostri corpi, niente ci diceva che il pericolo era scampato del tutto. Era meglio andarsene.

Eppure, lui mi piantò un bacio sul collo, ed io mi morsi le labbra in modo da non sospirare: la sua mano finalmente raggiunse una natica, stringendola in una presa ferrea e un po' rude, facendomi quasi sobbalzare sul posto. Era così vicino che sentii la sua virilità sfiorarmi il fianco, o almeno intuii si trattasse di quello visto che non osavo abbassare gli occhi. Gli posai una mano sul petto muscoloso, come col tentativo di allontanarlo, ma non riuscii granché ad opporre resistenza.

«R-r-ragazzi?» ci chiamò il mago, da qualche parte vicino a noi, ma per fortuna non nel nostro campo visivo. Scostai Cyran con una spinta, ritrovando un briciolo di forza all'improvviso.

«Datti un contegno!» esclamai, con la voce stridula dalla vergogna e la faccia che iniziava a diventare di mille colori diversi. Con una velocità impareggiabile, mi infilai gli indumenti intimi e poi i pantaloni, voltandomi di spalle rispetto a lui, che sentii sbuffare. Poi proseguii con la camicia e il farsetto: sentivo tutto il mio corpo ribollire, ma sfarfallai le ciglia almeno una decina di volte, così che quella sensazione di calore potesse passare.

«Stasera sei mio.»

Mormorò il corvino abbronzato al mio orecchio, poi si allontanò per andare a vestirsi, lasciandomi riprendere fiato. Mi sventolai la faccia con una mano, avvertendo un moto d'ansia nello stomaco per quello che sarebbe potuto accadere una volta tornati in taverna, pronti a riposarci dopo la lunga giornata fitta di guai. Tentando di far finta di niente, ritornai dal mago e l'erborista con un debole sorriso, grattandomi la nuca con l'aria imbarazzata. Cyran si stava fissando lo spadone sulla schiena.

«Si va?» proposi, dirigendomi verso i nostri cavalli. Rhod si guardò intorno, con il grimorio alla mano, per assicurarsi che fosse tutto apposto, poi annuì e girò attorno ad André. Ebbi la sensazione che l'avesse appena accuratamente evitato. Dal modo in cui il biondo lo guardò, quella sensazione prese forma. «Gli passerà.» Strinsi delicatamente la spalla al ragazzo, poi montai sul mio stallone pezzato bianco-grigio e partii al galoppo, per una volta senza fretta, anche se avevamo una tabella di marcia da rispettare.

L'indomani mattina avremmo dovuto lasciare i regni di Akra e Kijani, che la taverna occupava proprio al centro dei rispettivi confini, per dirigerci verso il regno di Yalhi. Era meglio muoversi presto, visto che le sfide sportive che quel regno organizzava alla fine della primavera stavano per iniziare ed il turismo avrebbe intasato le strade e creato un terribile traffico fra carrozze e carovane di viaggiatori. 

Per non parlare di tutto il puzzo di sterco che si sarebbe creato in una situazione simile. Avevamo quindi bisogno di coricarci presto, ed era una fortuna che io e André avessimo preso un paio di stanze dopo la nostra chiacchierata, e prima di dirigerci dai nostri compagni. In una delle due avevamo lasciato più o meno tutti i libri, i sacchetti zeppi di monete d'oro, le mappe del Continente Sconosciuto e qualche ricambio. L'unica cosa che c'eravamo portati dietro erano i cavalli, il grimorio e le erbe. Perciò viaggiavamo leggeri, e ci mettemmo davvero poco a ritornare.

La taverna non era esattamente come l'avevamo lasciata: c'era meno chiasso e meno gente, l'aria era più tranquilla e molti avventori ubriachi sonnecchiavano sul bancone o cercavano di attaccare bottone con le cameriere, che li scansavano con una certa indifferenza. Non mi sembrava di vedere quel Marshall da nessuna parte, ma non era importante. Ormai ci ritrovavamo finalmente nei nostri corpi, ed era tutto quello che contava.

«Abbiamo preso delle stanze, io e il principe.» esordì dopo qualche secondo André, estraendo una chiave dalla tasca dei pantaloni per darla al mercenario. «Sarà meglio andar presto a dormire. Verrò a svegliarvi io domattina.» avvisò, mentre Cyran stringeva la chiave nella mano con un sorriso tutto denti che mi fece presagire qualcosa che non mi piacque. Deglutii.

«Per una volta sono d'accordo, fioraio! Ci si vede domani.» Mi afferrò per il polso, iniziando a condurmi per le scale di legno con una certa fretta. «'Notte eh!» li salutò di tutta fretta, ed io non seppi dire se per loro sarebbe stata una nottata serena, considerando quello che era accaduto.

Ma adesso dovevo preoccuparmi un po' più per me stesso: arrivammo sul pianerottolo in pochi secondi, e il mercenario non accennò a lasciarmi il polso, anzi. Aprì la porta con uno scatto repentino della chiave ed in un battito di ciglia mi ritrovai steso sopra al letto, la schiena contro il materasso, il capo poggiato contro il cuscino, il cuore in gola.

«Non so che cos'hai intenzione di fare, ma...» iniziai, ma lui mi premette il pollice sulle labbra, quasi con l'intento di infilarmelo fra i denti.

«Ma non puoi scappare, principino.» mi rimbeccò, afferrandomi i polsi per tenermeli stretti sopra alla testa. Faceva tutto con una velocità e, al tempo stesso, con una tranquillità micidiale. Tanto che quasi non me ne accorsi, di avere il farsetto aperto e la camicia sollevata sino al collo.

«Aspetta, Cy...»

Le mie parole furono interrotte dal suo bacio: tirò a sé il mio labbro inferiore e poi iniziò a baciarmi con una foga così intensa da lasciarmi senza fiato. La lingua s'attorcigliò alla mia ma i suoi occhi restarono semi-aperti, le iridi aranciate che ribollivano come la lava dentro alla bocca di un vulcano, fissandomi piene di desiderio. Poi le labbra umide iniziarono a concentrarsi sul collo, succhiando la pelle tenera abbastanza forte da lasciarmi qualche segno. E non si fermò, ma continuò a scendere, in una scia di baci, percorrendo i lembi della mia pelle con la punta della lingua.

Quasi sussultai, quando sentii i denti afferrarmi un capezzolo: agitai i polsi, ma continuò a tenerli bloccati sopra la mia testa. «Ngh... Cyran... Ferm.. mh...» Mi morsi le labbra, incerto se continuare a supplicarlo ben sapendo che i miei sospiri si sarebbero sentiti, e avrebbero potuto soltanto crescere. Con la mano libera, infilò giocosamente due dita fra il mio basso ventre e l'orlo dei pantaloni, ed io fui costretto ad inarcare la schiena, perché la sua lingua scese fino a quella zona.

All'improvviso sentivo il cavallo dei pantaloni farsi troppo stretto, e il mio respiro troppo affannato, le mie guance troppo calde, le mie labbra aride. «Te lo scordi se pensi che aspetterò ancora, principino.» parlò, sollevando il viso per lanciarmi uno di quegli sguardi arroganti che, in questa situazione, mi fecero accendere come una torta di compleanno. Non ebbi nemmeno abbastanza prontezza per rispondere.

Ormai le sue dita stavano armeggiando con i bottoni dei miei pantaloni e quando notai il rigonfiamento nei suoi, mi sentii invadere da una sensazione di imbarazzo e desiderio così cocente che i capelli mi si rizzarono sulla nuca per l'elettricità. Strinse le mani e si preparò a calarmi giù qualsiasi cosa mi coprisse i fianchi, ma poi....

Bum bum.

Il suono di nocche sbattute contro la porta, rumore che persistette ancora e mi fece letteralmente sobbalzare, con un cigolio del materasso sul letto singolo su cui ero steso. Il mercenario imprecò, alzando gli occhi al cielo.

«Non ci siamo!» ringhiò, con la faccia rabbuiata a causa dell'interruzione. Mi trattenni dal dirgli che aveva appena confermato a chiunque stava bussando che, effettivamente, lui c'era. «E non ho intenzione di aprire!» continuò, prima di ritornare a guardarmi senza perdere effettivamente il suo cipiglio voglioso.

«Apri, mercenario.» disse la persona dall'altra parte della porta, che per fortuna era stata prontamente chiusa a chiave. Era la voce dell'erborista, con la sua riconoscibilissima piattezza. «E' importante!» Mi chiesi cosa potesse esserci di tanto impellente da farlo catapultare fino alla nostra porta e da farlo bussare con una tale intensità, a quest'ora della sera. Del resto, era stato lui a dire che dovevamo riposarci e addormentarci presto.

«Aah, porca puttana.» sbraitò Cyran fra i denti, alzando gli occhi al cielo e lasciandomi, per scendere dal letto e dirigersi verso alla porta. Finalmente libero, mi misi a sedere. Dentro di me, per qualche strana ragione, sentii una lieve sensazione di sollievo e al contempo fastidio, per l'interruzione. Ma forse sì, la parte sollevata era in netta maggioranza rispetto a quella infastidita.

Il corvino non ebbe nemmeno il tempo di aprire la porta, che l'altro si catapultò dentro alla stanza. Quasi non fece caso al fatto che avessi la camicia sollevata e i pantaloni sbottonati. Piuttosto si guardò intorno frettolosamente, prima di premersi le mani sulla faccia e sospirare. «Ma si può sapere che cazzo succede?» sbottò il mercenario, che per una volta aveva tutte le ragioni per imprecare. André Sion si voltò verso di noi, il volto solitamente impassibile che adesso aveva perso un po' della sua compostezza.

«Sapevo che non erano qui...» Deglutì. «I sacchi d'oro, le mappe dei Regni del Caos, tutti i libri di magia e botanica... E' tutto sparito.» Mi catapultai giù dal letto, con gli occhi che per poco mi saltavano fuori dalle orbite.

«CHE COSA?!» il mio fu un vero e proprio urlo di sgomento. Anche il mercenario era rimasto di stucco, ma ritornò presto ad avere la sua solita prontezza.

«Ve lo dico io chi è stato! L'unico che sapeva chi eravamo!» Incredibile, ma per una volta era lui quello dalle intuizioni intelligenti. André annuì, grave.

«Marshall.» strinse le labbra. «Rhod è già andato giù a chiedere di lui, raggiungiamolo.» Detto quello, uscì di fretta dalla stanza. Io mi richiusi alla velocità della luce i bottoni dei pantaloni, sistemandomi la camicia e i capelli scompigliati, senza più badare a nulla che non fossero i nostri possedimenti. Questo sì, che era un guaio enorme.

Iniziai a scendere i gradini a due a due, avvicinandomi al resto del gruppo, che interrogava le cameriere, l'oste e gli ultimi rimasti circa quel misterioso mago. E dire che mi stava simpatico. Che ingenuo, che ero stato.

«C-c-c'è un p-p-prob-blema...» il mago si avvicinò verso di noi, con le sopracciglia aggrottate dalla preoccupazione ed anche una certa mortificazione. Mi chiesi quale altro assurdo problema potesse esserci al mondo. «N-n-nessuno... s-si ric-corda d-di lui...» Spalancai le labbra, scioccato.

«Ma non è possibile!» Corsi verso l'oste, sbattendo una mano sul bancone. Stavo dicendo addio a tutta la mia cortese e regale buona educazione, ma in quel momento non mi interessava affatto. «Dov'è il cantante? Quel tipo con i capelli biondi e gli occhi castani! Ha cantato per tutta la sera!» L'oste, pulendo i suoi bicchieri, mi guardò come se fossi pazzo.

«In questo posto non ha mai cantato nessuno, signore.» rispose, con un sopracciglio alzato e il tono stizzito di chi non ha voglia di stare a reggere i deliri di un povero ubriaco. Mi voltai verso le cameriere, frustrato e scioccato.

«Ma insomma! Quel tipo ha parlato con voi! Ci ha offerto dei boccali di birra! Ha cantato!» dissi, con la voce stridula di chi pretende di essere ascoltato, ma le tipe si eclissarono sempre più lontano, scoccandomi occhiate vagamente schifate. Poi, un tizio ubriaco che sonnecchiava sul bancone quasi al mio fianco, sollevò appena la testa, con un singhiozzo.

«Raaagaaazzo! Quii non caaanta neesshhuno! Hic!» E piombò nel suo riposino ancora una volta, lasciandomi senza parole. Lanciai delle occhiate assolutamente sconvolte ai miei compagni di viaggio, che mi risposero con allo stesso modo.

Poi, ricaddi pesantemente su uno sgabello, rendendomi conto di troppe cose all'improvviso: il mago Marshall era scomparso dalle memorie di tutti i presenti, come se non fosse mai esistito. I soldi che ci permettevano di condurre agiatamente il viaggio e le mappe che ci avrebbero guidato in territori insidiosi, unica chance di salvare la principessa, erano svanite. Ed io, incurante di avere una promessa sposa, stavo per fare l'amore con Cyran Rouge.



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