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19. Possiamo parlare di birra?


André

Era una sensazione terribilmente strana guardarsi dall'esterno.

E lo sapevo, forse avrei dovuto semplicemente desiderare di ritornare dentro al mio corpo come tutti gli altri. Come il mercenario, che sembrava fissarsi continuamente con un cipiglio misto di invidia e ammirazione al tempo stesso. Per non parlare di quelle occhiatine costantemente dirette al cavallo dei suoi pantaloni, così insistenti e piene di rimpianto che sarebbe stato impossibile non accorgersene. O forse dovevo correggermi: per me lo sarebbe stato. Il principe e il mago non ci facevano assolutamente caso.

Avrei dovuto desiderare di ritornare nel mio corpo come il principe Levou, che per tutto il giorno mi aveva osservato con un'espressione contrita e le sopracciglia aggrottate, o forse come Rhod, che con un corpo così alto faceva molta più fatica a tenere china la testa per non incontrare lo sguardo altrui. Anzi, in quella maniera sembrava che lo facesse appositamente per guardarci: avrebbe fatto molto meglio a fissare il cielo e a mettersi a contare le nuvole sopra di noi. Sempre che ce ne fossero.

Ma io... Era difficile desiderare di tornare in quel corpo, quando si stava così bene, in quello che avevo adesso. Così tanti anni passati a navigare in una torbida sofferenza che mi ero dimenticato cosa voleva dire vivere senza alcuna agonia. 

Vivere con lo sguardo così limpido da riuscire a vedere perfettamente anche da lontano, nessun capogiro ad adombrarmi all'improvviso la vista, nessun dolore piazzato in mezzo alle costole, nessun battito frenetico dentro al petto. Quando il mio cuore iniziava a pulsare troppo velocemente, riuscivo persino a temere la possibilità di esplodere. Ma esplodere non come avrebbe fatto il mercenario, con un turbine di fuoco e fiamme.

Più un'esplosione che riduce in brandelli. Che strazia la carne e ti rovina a tal punto da lasciar di te soltanto pezzi di carne sparsa fra il terreno.

E se chiudevo gli occhi, potevo ancora ricordare ogni cosa. Ogni rumore stridente di coltelli lentamente affilati contro altre lame, ogni clangore di cinghie di metallo contro i bordi di una barella, ogni urlo straziante in fondo al corridoio, ogni sbattere di porta quando qualcuno veniva acciuffato, messo in punizione.

A me non capitava sempre. Dovevo solo fare il bravo: se mi mettevo a disposizione sarebbe stato più veloce. Tutto sarebbe stato più veloce. A volte speravo che anche la morte lo sarebbe diventata, ma alla fine le cose erano andate diversamente, per me.

Perciò, ritornato al presente, rimasi a guardare con un'espressione vuota e piatta una nuova versione di me stesso che guardava fuori dalla finestra.

Il principe Levou, patendo al posto mio il solito dolore martellante alla testa, non riusciva a sopportare il caos all'interno della taverna e aveva saggiamente scelto di rimanere in un luogo appartato a riprendere fiato. Perché ero sicuro che un po' gli mancasse. In effetti, nel corridoio adiacente ai magazzini dove giacevano le botti di vino scadente, gli schiamazzi degli avventori erano soltanto un brusio lontano. 

Ma lui continuava ad avere un'espressione nauseata, mentre si tratteneva con una mano al davanzale marmoreo della finestra e poi appoggiava la fronte contro la pietra fredda, annaspando. Per un attimo, un lungo ed egoistico attimo, mi chiesi se fosse possibile lasciare tutto così. Se, col passare del tempo, lui si sarebbe preso oltre al mio corpo anche i miei ricordi, liberandomi totalmente dall'oscuro groviglio che mi si annidava nella testa.

Tuttavia, mi accorsi presto che non era giusto. Che anche lui aveva la sua parte di dolore con cui convivere, che anche lui aveva perso qualcuno. E anche se non era paragonabile con ciò che avevo, e con ciò che perdevo ogni giorno io, sapevo che non avevo il diritto di scaricare il peso dei miei demoni interiori a qualcuno che non c'entrava nulla.

Perciò mi feci avanti. Un solo passo nel buio, uno scalpiccio di piccoli stivali, e i primi raggi lunari che tinteggiavano quella serata mi esplosero negli occhi grigi – che erano i suoi. Il singolo fruscio delle vesti che mi coprivano il corpo e che non mi appartenevano bastarono a rendergli nota la mia presenza. Sarebbe stato difficile ignorarmi, visto che avevo la sua faccia.

«Fa male, vero?» esordii, con un tono a primo impatto piuttosto inflessibile. Ad ascoltarlo meglio, ci si sarebbe accorti di una vaga amarezza ad incupire la frase. Non c'era bisogno neanche che lo chiedessi.

Mi bastò lo sguardo che mi rivolse: un misto di stupefatto dolore ed incredula confusione, accompagnati da quella punta di frustrazione di chi non sa quale sventura gli sia capitata per provare tutto quello. Io lo sapevo. Ecco perché avevo smesso di provare rabbia per le mie condizioni fisiche tanto tempo fa. Ma ero sicuro che fosse diverso per lui. Sì, era una sensazione terribilmente strana guardarsi dall'esterno.

Non solo perché potevo ammirare l'insolita maniera con cui i raggi pallidi delle stelle facevano scintillare i filamenti grigi sparsi nella mia chioma biondiccia, ma perché potevo guardarmi per la primissima volta con delle espressioni tanto sincere ed autentiche in faccia. Era da quando avevo solo pochi anni che non ero tanto limpido con i miei sentimenti, e questo era davvero bizzarro.

Ma io avevo convissuto per tutta la mia esistenza col dolore. Sapevo sopportarlo, gestirlo, contenerlo, compensarlo con altro. Per qualcuno che ne veniva investito tutto insieme per la prima volta doveva essere un'esperienza straziante, insopportabile.

«Cosa?»

Uno sbuffo venne rapidamente fuori dalle sue labbra. Un forte sospiro di sgomento, e quasi l'ombra di una silenziosa rabbia non diretta proprio a me, ma alla situazione. A qualsiasi cosa, qualsiasi magia, ci avesse costretti a scambiarci di corpo.

«Cosa c'è che non va in te?!» continuò lui, stringendo le mani sul davanzale. Fui certo che fosse sul punto di avvicinarsi a me per strattonarmi dal bavero del mio/suo costoso farsetto, eppure si trattenne. Infatti, si limitò a serrare più forte il laccio che gli teneva stretti i capelli in un codino. Poi, prese un profondo respiro, rabbrividì alla folata passeggera del fresco vento primaverile e si voltò di nuovo a guardare il cielo stellato fuori dalla finestra.

Per un momento rimasi solo in silenzio, muto e composto come un manichino da sartoria. Ma poi parlai. «Tutto.» Qualsiasi cosa, in me, aveva smesso di andare come avrebbe dovuto. E mentire con lui sarebbe stato del tutto inutile, se non controproducente. Forse era arrivato il momento di raccontare la verità a qualcuno, per la prima volta. Per questo decisi di prendermi tutto il tempo necessario: mi rovistai nelle tasche, afferrai il sacchetto che vi avevo conservato prima di seguirlo fin qui, e glielo porsi.

«Wu-wei-zi.»

Un cenno verso il sacchetto, che lui afferrò con un'espressione piuttosto scettica, svuotandolo in modo da farsi rotolare nella mano una manciata abbondante di bacche rosse come il sangue ed essiccate.

«Che hai detto?» Mi lanciò uno sguardo altrettanto sospettoso, ed po' schifato per quei chicchi raggrinziti dall'odore contrastante. «E che ci dovrei fare con questi... Alimenti di dubbio gusto?» Ma in fondo non erano così terribili, assomigliavano un poco all'uvetta, a prima vista. Ma erano senza dubbio rossi.

«Vuol dire frutto dai cinque gusti, in una lingua sconosciuta.» specificai. «Masticateli lentamente sotto ai denti e poi lasciateli sciogliere sulla lingua.» Spostai il peso leggero di questo nuovo corpo da uno stivale all'altro. «Poi ingoiate la buccia. Aiuterà, fidatevi di me.» Avevo studiato e assaggiato qualsiasi erba possibile ed inimmaginabile: qualsiasi cosa, purché mi aiutasse ad alleviare quella debolezza e quell'agonia; qualsiasi cosa, purché rallentasse quello che mi stava accadendo.

Era vero quello che avevo rivelato al mago. Ecco cosa voleva dire, per me, fare l'erborista: sopravvivenza.

Il vero principe si strinse nelle spalle, con un'aria piuttosto abbattuta, prima di buttarne giù una manciata, masticandola: più andava avanti, più storceva le labbra in una smorfia. «Dei, che schifezza...» Emise un lungo sospiro dalle labbra biancastre e screpolate, poi tornò a fissarmi. «Sul serio, che hai che non va?» Sembrava non riuscisse a capacitarsene. E non aveva tutti i torti.

Mi sarebbe piaciuto avere la sua stessa incredulità. Così non mi sarebbe sembrato tutto spietatamente vero. Non credere a quello che stava succedendo al mio corpo sarebbe stato d'aiuto per sperare in una via d'uscita. Eppure, ero orribilmente consapevole del mio destino.

«Forse dovreste sedervi» Feci un cenno al davanzale di pietra della finestra dietro di lui, mentre io mi adagiavo su una botte sistemata contro il muro. «Sarà una storia lunga.» Lui corrugò la fronte, io continuai a possedere la solita impassibilità che non faceva trasparire assolutamente nulla. Fino a che non continuai. «Ma vi prego, vi prego» dovetti specificarlo. «non ditelo a Rhod.» Non volevo che lo venisse a sapere. Lo fissai negli occhi, certo d'essere perentorio, più che supplichevole.

Annuì, senza aggiungere nulla. Così iniziai, ma non partendo dal principio. Cominciai a spiegare da ciò a cui miravo dall'inizio di questo viaggio.
«Sapete cos'è la Lingua di Drago?»



***


Cyran


Mi andava bene tutto.

Mi andavano bene i fanatici. Mi andavano bene le brutte vecchiacce nelle osterie che mi facevano l'occhiolino storpio. Mi andavano bene anche i combattimenti all'ultimo sangue accanto al principino dai capelli color carotina, nonostante la mia pellaccia fosse a rischio.
Quello che proprio non mi andava bene era che la mia pellaccia non fosse più la mia.

Mi lanciai uno sguardo, l'ennesimo, sbattendo un pugno sul tavolo della taverna. Ah, sì: ovviamente ci trovavamo in un posto simile, perché dal mio modesto parere, non ci poteva essere niente di meglio per raccogliere le idee. E poi, affogare l'orribile fattaccio in un buon boccale di birra avrebbe fatto sembrare tutto meno reale.

Magari, se mi fossi ubriacato abbastanza, allora avrei potuto scambiarlo benissimo per un delirio durante la sbronza. Ora che ci facevo caso, ero solo al secondo boccale e già mi sentivo girare la testa, come se fossi sul punto di stramazzare a terra. Una sensazione piuttosto strana, visto che solitamente riuscivo a reggere più di quattro boccali restando lucidissimo.

Ma non ero sicuro di possedere la stessa resistenza di una volta, con questo fisico da stecchino. Tanto che mi dovetti premere una mano contro la bocca per trattenere il singhiozzo che mi sentivo salire dalla gola. Riuscendo a scacciarlo, lo sostituii ad un nuovo sbuffo, scocciato.

«Ma non è possibile. Fanc...» Mi bloccai, guardandomi intorno alla ricerca del principino, nella speranza che non mi sentisse e non gli venisse la solita voglia odiosa di impedire le mie imprecazioni. Non c'era. «Fanculo!» ringhiai, sbattendo il pugno contro il tavolo per la quinta volta, probabilmente.

Ma poi, perché non ero capitato dentro di lui? Per lo meno avrei potuto guardarmi nudo e divertirmi un poco col suo corpo. Già l'espressione "dentro di lui", a pensarla, mi faceva stare bene e sentire meglio. Invece, tutto quello che avevo ottenuto era il fisico di un tappo smilzo e pure maledetto. Speravo solo di non finire ammazzato, non tanto per la morte, quanto più per il fatto che mi sarebbe capitata la sciagura di rimanere per sempre in quel corpo. Sia stecchito che da fantasma.

Il mago invece, con il mio corpo – mi sembrava lecito sottolinearlo –, se ne stava seduto di fronte a me con un singolo boccale di birra che non aveva sfiorato dall'inizio della serata. La solita cotta di maglia sbrindellata gli aderiva alla perfezione sui muscoli pompati, sui bicipiti scolpiti e sugli addominali da urlo. Lo so, me lo dicevano tutti che avrei potuto benissimo diventare un perfetto divo teatrante, ma quel tipo di carriera non faceva per me. 

I capelli corvini – i miei ovviamente – non poteva sperare di domarli con una spazzola, perciò ogni tanto li gettava all'indietro, senza riuscire a metterseli dietro alle orecchie come un dannato damerino. Inoltre, la carnagione abbronzata ed olivastra sotto alle luci dei candelieri sparsi per la taverna, sembrava davvero fatta di bronzo.

Impossibile mentire sul fatto che provassi una cocente invidia verso il mio corpo. Perciò, imprecai per l'ennesima volta, irritato, cercando di concentrarmi sui dettagli del luogo intorno a noi, invece che sul mago-ladro-di-corpo.

Le ampissime volte di pietra, le grosse botti impilate ai lati dei muri, i dettagli di ottone, i numerosissimi candelabri di ferro battuto sparsi ad ogni angolo, i pavimenti in un legno rossiccio così come i tavoli, e poi il bancone dove il barista sembrava dispensare birra e rum in cambio di pochi soldi. Una taverna di tutto rispetto. Non aveva niente che facesse pensare che fosse una bettola come le altre. 

Probabilmente, era a causa della collocazione: alla fine dei confini di Akra e Kijani, all'inizio del regno di Yalhi. Il luogo perfetto dove offrire riparo ai visitatori, ma anche dove sciogliere i nervi, dissipare le tristezze e affogare lo stress dentro al fondo di un boccale, per chi aveva avuto una giornata schifosa come la mia.

In effetti, il locale era il tipico dalle lanterne soffuse ma contemporaneamente alla mano. Quel genere di locali che ti davano l'idea di poterci conoscere persone incredibili, circa. Come me, ovvio. Il genere di posto che, con pochi dettagli, riusciva a regalarti serate fantastiche, specialmente se poi ti capitava di incontrare la compagnia giusta. 

La luce aranciata delle candele era capace di rendere sempre tutto surreale, il chiacchiericcio concitato nell'aria si armonizzava alla perfezione con l'esibizione di canto e tamburo in un angolo, il profumo di spezie mi stuzzicava le narici, il vivace via vai delle pettorute cameriere vestite di verde catturavano ogni volta il mio sguardo. E poi, avevamo quasi lasciato Akra, e questo aiutava molto a migliorare il mio parere in merito al posto.

Era parecchio frequentato: la maggior parte dei tavoli erano occupati. Molti stazionavano sugli sgabelli davanti al bancone con sacchetti di monete alla mano, come se avessero programmato di bere per tutta la notte e si fossero messi i soldi da parte apposta. 

Per un attimo pensai a com'era la mia vita prima di unirmi a questa sottospecie di missione di salvataggio, e mi accorsi che non era troppo lontana da quella di quegli uomini: la mattina ad oziare e a spostarmi fra i villaggi, la sera a bere nelle taverne e a divertirmi fra una donna e l'altra. Se quegli uomini le avrebbero pagate, per me, ai tempi, non ce n'era il minimo bisogno. Erano loro a pregarmi, e come potevo esimermi dall'ignorare le preghiere di bisognose donzelle? E donzelli, chiaro.

«Guardate!» sentii proprio delle voci femminili che ridacchiavano in quella solita maniera civettuola, appena prima di sciogliersi in brodo di giuggiole ai miei piedi. «Ehiii!» Occhiatine, bacetti volanti, cenni con le mani verso un tavolo colmo di ragazze. «Bello, vieni a bere qualcosa con noi!» Mi preparai a gonfiare le braccia per fare sfoggio dei miei bicipiti, prima di alzarmi e spartire generosamente occhiolini a tutte quante, scegliendo magari la più carina per la serata. Ma poi...

«N-n-on... S-s-s-ono.. ab-..bituato.»

Sentii la mia voce. La mia stessa voce, che balbettava in una maniera davvero patetica. Bastò per farmi tenere incollato il didietro alla sedia, ammutolito. Tutto il mio entusiasmo scemò all'istante.

«Non.. V-v-v...» continuò il maghetto, ma ero sicuro che stesse per annodarsi la lingua da solo e morire soffocato. Con al fortuna che aveva, non sembrava tanto impossibile. Peccato che, probabilmente, la dose di sfiga era passata a me. «V..v..oglio... An..dré..?» Si guardò intorno, spaesato, cercando di farsi piccolo piccolo. Come poteva, con quelle spalle larghe ed imponenti da guerriero?

Mi nascosi la faccia fra le mani: mettersi a chiamare il nome del fioraio con quel tono di supplica usando la mia voce era ancora più terribile di vedermi arrossire. Ok, in realtà era una bella sfida: mi facevano inorridire entrambe le cose. Perciò decisi di freddarlo, in qualche modo.

«Senti, caro abracadabra.» esordii, dopo il mio lungo silenzio torvo, sbattendo furiosamente il quarto boccale mezzo pieno sul tavolo, davanti a lui, lasciando schizzare un po' di quella bibita profumata di luppolo sulle sue – nonché mie – mani. «Levati dalla faccia quell'espressione demente.» mi incurvai verso di lui, sentendo le due sottili treccine di questa nuova e assurda capigliatura scivolarmi accanto alle guance. 

Sperai che la faccetta naturalmente timida del maghettino balbuziente, con la mia espressione bieca, fosse abbastanza minacciosa. «E smettila di arrossire come una dannata donniciola.» Schioccai la lingua, scuotendo una mano all'indietro come un un gesto stufato, come a liquidare il rimprovero.

Peccato che, poi, un paio di cameriere fasciate dai quei bustini stretti stretti – non è che stessi guardando le loro scollature, erano quelle che mi pregavano di fissarle, con tutto ciò che saltellava dall'orlo del tessuto – non arrivarono proprio alle spalle di Rhod, posando le mani su di esse. Ci mancava solo che poggiassero il davanzale sulla sua schiena. Nemmeno a loro era sfuggito il rossore sulle sue guance.

«E' anche un ragazzo sensibile!» cinguettarono loro, accarezzandogli i capelli – i miei, dannazione! – per poi abbassarsi un poco con l'aria di chi vuole sbaciucchiarti appassionatamente. «Davvero adorabile!» E continuarono a ridacchiare. Io però non potevano credere alle mie orecchie. Le femmine morivano per il mio essere duro e seducente. Da quant'è che volevano i ragazzi sensibili?!

Stavo proprio per alzarmi dalla sedia, guardandoli tutti in cagnesco – specialmente me stesso –, ma poi il vassoio che teneva in bilico sul palmo della mano una delle due cameriere, si inclinò pericolosamente verso di me. Sopra di esso c'era, dentro ad una scodella di terracotta, qualcosa che fumava in maniera quasi eccessiva. Feci in tempo a scivolare rapidamente all'indietro: quella specie di zuppa mi colò sulle mani, e non potei trattenere un certo urlo di dolore.

«Oh, cretine! Ma state attente al vostro dannato mestiere!» ringhiai, pulendomi la mano ustionata addosso. Se non avessi avuto i miei riflessi – ed un corpo abbastanza leggero da muovermi così velocemente – probabilmente la zuppa mi sarebbe caduta in faccia. Al solo pensiero, rabbrividii, e contemporaneamente cercai di calmare i capogiri dovuti all'alcol.

Comunque, non aspettai di sentire la risposta di quelle due stupide, che non facevano che sbavare su uno che non ero nemmeno io. Scossi la testa, proseguendo ancora più collerico di prima verso il bancone, restando in piedi vista la mancanza di sgabelli libera, ma per lo meno appoggiando i gomiti sull'orlo di legno. Ovviamente, non me ne fregava nulla se il maghetto, prima di andarmene, mi aveva pregato con gli occhi di restare e salvarlo dalla situazione. Peggio per lui. Poteva capitare nel corpo del cavolo di fioraio, invece che nel mio.

Aprii la bocca, deciso ad ordinare un nuovo boccale, anche se mi sentivo la bocca impastata e le luci della taverna ondeggiarmi tutto intorno. Questo corpo era davvero sconveniente. Poi, però, qualcuno intervenne al mio posto. «Vuoi qualcosa da bere, bel culetto?»

Strano, di solito ero io quello che usava l'epiteto "bel culetto". Le reazioni erano: uno, schiaffo in faccia, due, un risolino malizioso. In entrambi i casi finiva come volevo. Però non avrei mai pensato che qualcuno potesse usarlo per me. La cosa mi fece andare in bestia. Specialmente quando girai la faccia e notai che, ad averlo detta, non era un piccolo ragazzetto spaurito con le guance rosse, ma un omaccione dal barbone grigiastro, le guance rubiconde e un principio di monociglio al centro della fronte. Questo era troppo.

Davvero, che avevo fatto per meritarmi tutto quello? La sfiga che – e lo avevo capito dato che la mano ancora mi bruciava – incombeva su di me, le donne che prestavano attenzione a qualcun altro, gli schifosi che invece di odiarmi perché rubavo loro le accompagnatrici, mi guardavano con un'aria davvero raccapricciante.

Non dissi nulla. Semplicemente chiusi la mano a pugno, preparandomi ad una scazzottata coi fiocchi. Poco importava se poi mi avrebbero cacciato dalla taverna. Dovevo pur sempre riconquistare la mia virilità. Purtroppo però, qualcuno mi interruppe prima.

«Tutto bene?»

Una mano mi si piazzò sulla spalla, e non mi servì neppure voltarmi per capire che si trattava del fioraio. La stessa irritante voce monocorde. Questa volta, però, c'era una certa intonazione espressiva molto diversa dal solito. Giusto, dimenticavo che il principino adesso si trovava nel suo corpo. Mi voltai a guardarlo, piccato.

«Era ora!» borbottai, notando al suo fianco anche il falso Francis. La faccia piatta lo faceva sembrare uno di quei principi gelidi e distaccati da "io comanderò il mondo e tu non potrai far niente per fermarmi". Qualcosa di davvero odioso, insomma. «Ma dove cavolo eravate finiti?» Incrociai le braccia, alzando un sopracciglio. «Immagino che abbiate finito di fare la pupù insieme per pulirvi il culo a vicenda.» sbraitai. Davvero non mi capacitai di tutto il tempo che avevano passato in disparte, chissà dove, a far chissà cosa.

«Cyran!!» mi rimproverò con la sua aria da maestrino il principe, scuotendo la testa esasperato. Il fatto che lo facesse nel corpo del fioraio rendeva tutto ancora più fastidioso.

«Oggi è ancora più fastidioso del solito.» disse André, probabilmente leggendomi nel pensiero – visto che anche per me era un fastidio perenne, lui – con la faccia impassibile di chi, fastidio o meno, se ne sarebbe fatto una ragione. Senza fare una piega.

«Ehi, erbacoso, vai dal tuo amichetto e non rompere.» Gli feci cenno verso il mago, seduto al tavolo e ancora sotto molestie delle cameriere. Di rimando, si limitò a scoccarmi una lunga occhiata impassibile e lo raggiunse. A lui non sembrava impressionare granché del nostro scambio di corpi, comunque. «Mbe', perché avete perso così tanto tempo?» Mi voltai di nuovo verso il non-principe. «Avete trovato una soluzione?» Il mio tono di voce era parecchio speranzoso.

Poi, mi lanciai uno sguardo addosso, per far capire le propensioni epiche del problema. Tuttavia, il biondo scosse la testa, affranto. Anche lui, almeno, sembrava di pessimo umore. Non sapevo dire se mi rincuorasse che la faccia del fioraio fosse così abbattuta, o se l'anima del principe capisse il mio stato d'animo meglio degli altri.

«Affatto.» Si strinse nelle spalle, per poi sospirare. «Torniamo al tavolo, dai.» continuò soltanto, come se non avesse voluto approfondire, girando le spalle per andare dove ero stato seduto fino a pochi minuti prima. Lo seguii anche io, un po' scontento dalla rapida scomparsa del tizio che volevo picchiare.

Mi lasciai ricadere sulla sedia senza emettere alcun rumore, tanto ero magro. Al sopraggiungere del fioraio travestito da principe, le cameriere se l'erano svignata sventolando le mani e lasciando, come ultima traccia del loro passaggio, qualche impronta di labbra sulle guance di Rhod – nonché mie. Abbandonai la faccia contro il palmo della mano, sbuffando, mentre i miei occhi scivolarono sulla figura di Francis.

Non mi ero mica dimenticato del bacio che c'eravamo scambiati prima dell'attacco degli orchi. E anche dopo. Oh, eccome se lo avevo baciato. Non era accaduto niente di più, da quella volta, anche se avrei potuto benissimo saltargli addosso. Davvero, non sapevo quale nobile pensiero mi stesse trattenendo dal farlo. Per adesso, certo, mi potevo solo impegnare a riavere il mio corpo.

«Allora, facciamo il punto della situazione.» esordì proprio lui, usando però la voce del biondo. «Mi sono svegliato stamattina e mi sono trovato in questo stato.» Si posò una mano sul mento. «Non credo mi abbia morso qualche strano animale, altrimenti mi sarei svegliato. E ieri non abbiamo mangiato nulla di diverso dal solito.» Mi indirizzò uno sguardo, e poi uno al fioraio. Questo perché io procacciavo la selvaggina, lui la cucinava, preparava e condiva rendendola commestibile e, devo ammetterlo, piuttosto buona.

Intanto, annoiato dalla piega della conversazione, feci vagare lo sguardo per la sala: il cantante aveva optato per una canzone ritmata, ma per nulla fastidiosa. Lo studiai svogliatamente: portava dei grossi rasta biondi legati in una coda alta, aveva la pelle rossiccia come qualcuno che si era beccato un'insolazione e batteva la mano contro al suo tamburello come un forsennato.

Per qualche istante, ebbi l'impressione che i suoi occhi castani ci stessero fissando. Stessero puntando il nostro tavolo. Stessero guardando me.

«Anche io ho notato la stranezza questa mattina.» asserì il fulvo, piatto come un vassoio, riportandomi alla realtà.

«M-m...Ma...» il maghetto sembrò voler aggiungere qualcosa, ma io sbattei una mano sul tavolo, facendolo tacere. Avevo capito che cosa c'era che non andava.

«Quella collana orrenda!» sbottai. Certo, avevo trovato il gingillo la sera prima e poi l'avevo infilato al collo del principe, con l'intenzione di rivenderlo ben presto. Alle mie parole, tutti sembrarono accendersi di consapevolezza. Francis si portò le mani al collo, ma poi ricordò che quello non era più il suo corpo. Perciò, André fece lo stesso: il ciondolo inquietante balzò da sotto al tessuto del farsetto, con un tintinnio dei cristalli appesi. La grossa pietra a forma di occhio, ora, aveva l'iride non più azzurra, ma giallo scintillante.

«N-non è.. u-un buon... segno.» esclamò il mago, sottolineando l'ovvietà della cosa. «D-dove... L'hai t-trovato?» balbettò al suo solito, mentre io storcevo le labbra.

«Chi se ne frega.» risposi, vago, alzando gli occhi al cielo. Sinceramente c'erano cose più importanti a cui pensare. «Vi prego, possiamo parlare di birra?» Mi guardai intorno, scocciato. «Dove diamine è il mio boccale?» Le occhiate che mi scoccarono valsero qualche mia imprecazione mentale. «Boh, appeso ad un albero?» decisi di rispondere alla fine.

«Che cosa?! Avevi detto che lo avevi trovato a terra!» disse il vero Francis, sgranando gli occhi come se avessi commesso chissà quale crimine. Era solo una piccola bugia. Schioccai la lingua contro il palato.

«Mbe', fa differenza?» Mi chiesi dove avevano messo la mia birra, di nuovo.

«Certo che-» continuò lui con il tono di uno che non vede l'ora di insultarti, ma una voce estranea lo interruppe.

«Sì, la fa eccome.» Una mano si posò al centro al lato del tavolo, vicino a me, ed io seguii la linea del braccio alzando il capo fino a ritrovarmi di fronte ad un tizio biondo coi rasta molto familiare. Sbattei le palpebre. «Non è vero, Rhod?»

Mi accorsi in quel momento che la musica era cessata, lasciando al suo posto solo il costante chiacchiericcio degli avventori, alcuni di essi ubriachi. Il mago, con la mia faccia indosso, sgranò gli occhi.

«C-c-come... Sa..sai..» La domanda cadde nel vuoto, mentre quello che avevo finalmente riconosciuto come il cantante della taverna, alzò una mano verso una cameriera di passaggio per farsi notare.

«Un boccale per i miei nuovi amici!» esclamò a gran voce, tanto che alcuni si voltarono a guardarlo con un sorrisetto ubriaco di partecipazione. Poi, prese una sedia libera dal tavolo più vicino e si affiancò al nostro, accavallando le gambe in una postura disinvolta. «Be', so il vostro nome, Rhod, perché anch'io sono un mago.» Ci indirizzò un occhiolino giocoso ed io alzai un sopracciglio, decidendomi a studiarlo meglio.

Il tipo era basso e tarchiato, ma non esattamente grosso. Più tozzo come una specie di tronco d'albero tagliato a metà. La pelle rossiccia come di chi ha bevuto troppo, in qualche punto del collo, era chiazzata di macchiette marroncine, come quei brutti segni d'età che avevano i vecchi. In più, quando sorrideva, gli si vedevano i denti storti e consumati dal tempo. Una cosa strana, perché non era poi così anziano. Comunque, continuava ad essermi per qualche ragione familiare.

«Davvero?!» Il piccolo abracadabra era talmente sorpreso che per una volta si sforzò di pronunciare una parola tutta intera. «E... qual è il..il t-tuo p-p-punto deb-bole?» chiese, probabilmente era scettico anche lui come me. Il cantante-mago, però, lasciò andare una risata un po' aspra.

«Sono nato vecchio e morirò giovane.» sintetizzò, afferrando al volo il boccale che la cameriera gli portò, iniziando a distribuirne anche a noi. Quindi, da bambino, era una specie di esserino grinzoso con l'artrite? Una visione agghiacciante. Non sapevo dire se era peggio la sventura che stava subendo lui, oppure il mago del nostro gruppo. Ora che me lo ricordavo, ora la sfortuna era ricaduta su di me. Uno dei vari mille motivi per cui sbrigarmi a riavere il mio corpo. «Comunque, potete chiamarmi Marshall, piacere.» continuò, iniziando a bere un po' di birra. Chissà dove aveva lasciato il tamburello della sua esibizione, mi chiesi. Ma tanto, che importava? «Ah, stavamo parlando del ciondolo.»

Il fioraio col corpo di Francis abbassò la testa verso la collana, osservandone l'occhio giallognolo ed inquietante. Forse non avrei dovuto prenderlo. «Sì. Sembri saperne qualcosa.» disse lui, guardando il nuovo arrivato con un cipiglio impassibile.

«Io so tante cose. Come ad esempio della Lingua di Drago.»

Se la luce delle candele non mi stava ingannando, avrei giurato che l'erbacoso avesse strabuzzato gli occhi. Allo stesso tempo, il principino rischiò di strozzarsi, tossendo la birra che stava sorseggiando con un'aria un po' schifata.

«Ma la collana... Quell'albero che Cyran ha trovato è un tumulo.» Mi lanciò un rapido sguardo, sogghignando. «Scommetto che era posto sopra ad una specie di collinetta.» Alzai le spalle, di nuovo.

«Seh, vabbe'. Comunque, cosa sarebbe questo cumulo?» borbottai.

«Tumulo! Significa sepolcro!» mi corresse il biondo, nonché il principe dentro al corpo di André, sospirando. «Tomba.» semplificò ancora di più. Se prima le sue correzioni mi facevano sogghignare e mi davano un motivo per prenderlo in giro, con quella faccia mi faceva innervosire soltanto.

«So che cosa vuol di...»

Il cantante si schiarì la voce. «Il fatto è che, quel ciondolo, stava proteggendo il tumulo. Rubandolo, vi siete beccati la maledizione.» Aprì la mano a ventaglio, indicandoci tutti e quattro. Il fatto che conoscesse i nostri nomi, e sapesse perfino a chi rivolgersi nonostante ci fossimo scambiati i corpi, non sapevo se definirlo magico o semplicemente molto sospetto.

«E come facciamo a ritornare nei nostri corpi?» ribattei, cercando di non far trasparire troppo l'urgenza nella mia voce. Dovevo riappropriarmi del mio, costi quel che costi. Dopo la mia domanda, mantenemmo il silenzio.

«Semplice. Rimettete la collana dov'era.» Il tipo si strinse nelle spalle, con un'aria piuttosto rilassata dalla situazione. Ovvio, lui aveva il suo corpo. E comunque, se mai si fosse scambiato con qualcuno, avrebbe potuto essere soltanto una cosa positiva, visto l'aspetto. Nessuno aggiunse nulla. L'unica cosa che facemmo, fu alzarci, abbandonare i nostri boccali lasciare qualche moneta di rame sul tavolo e afferrare tutto quello che c'eravamo portati dietro. Il punto dove si trovava l'albero, da quel che ricordavo, non distava molto: nemmeno mezza giornata a cavallo.

Quando solcammo l'uscita della taverna dopo un breve saluto e un ringraziamento al tizio di nome Marshall, avvertii distrattamente i complimenti dell'oste diretti proprio a lui, per l'ottima esibizione della serata. Di certo non riuscimmo a vedere il ghigno stampato sulla sua faccia. Né riuscimmo a sentire la continuazione delle sue parole. «Sempre che non moriate prima.»

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