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17. Non sono arrabbiato


André 


Lui era davanti alla finestra della cucina, un luogo piccolo e sporco, tutto di legno marcio, che fissava l'orizzonte e quel cerchio giallo, alto nel cielo, che brillava incurante di ciò che accadeva in quel posto. Quell'uomo canticchiava silenziosamente fra le labbra e, anche se a tratti, riuscivo a cogliere qualche verso sfuggente.

«Il mio ragazzo, questo cattivo bambino...» Poi qualcosa di incomprensibile «... diventerà vetro.»

Nonostante avessi otto anni, ero incastrato in un vecchio seggiolone da bebé di legno tarlato e, sebbene si adattasse al mio corpicino fino a due anni prima, adesso la cinghia di stoffa che mi bloccava mi stava stritolando fastidiosamente la pancia. Sentivo i bordi, appiccicosi di porridge raggrumato, scavarmi delle linee nella pelle, attraverso i vestiti.

Volevo liberarmi. Mi divincolai, nervoso, seppur cercando di fare in silenzio, di non attirare troppo la sua attenzione. Se solo fossi riuscito a mettere le mie piccole ed abili mani sulla fibbia, sarei riuscito a fuggire. Ma l'avevo già fatto. Ricordavo di essere già scappato un paio di volte ed infatti lui aveva rivoltato la cinghia e adesso la fibbia era dentro il sedile appiccicoso. Ero bloccato e scomodo, ed anche se il morso della fame mi faceva contrarre lo stomaco, volevo solo andare via.

Quell'uomo aveva un calice in mano. L'aveva preso da uno scomparto nella dispensa e, dopo averlo passato nella tinozza d'acqua, l'aveva lucidato più volte, sempre canticchiando.

«...Questo cattivo bambino, si frantumerà come un bel manichino.»

Mise il calice in una ciotola di legno puzzolente, ancora macchiato di cibo vecchio, poi prese un grosso cucchiaio di ferro e ce lo sbatté sopra con forza. Un tintinnio. Quel bambino di otto anni riusciva a capire perfettamente che veniva dal calice. Ma il me stesso legato ed immobilizzato, guardava con i suoi occhioni verdi il proprio tutore che polverizzava il vetro mentre continuava a cantare, e cantare, e cantare.

Poi alzò gli occhi su di me e sorrise.

Accanto alla ciotola c'era un vasetto di marmellata alle more. L'uomo svitò il tappo e ne prese una bella cucchiaiata. Scodellò la marmellata dentro alla ciotola di legno, sui vetri del calice fracassato. Poi mescolò.

«Il mio ragazzo, questo cattivo bambino...» esordì l'uomo. «mi obbedirà come un bel burattino.»

Si avvicinò al seggiolone e, senza guardarlo, riuscii a capire quanto potesse essere arrabbiato. Portò la ciotola sul vassoietto di legno troppo piccolo per me. La sbatté sul frammento di un guscio d'uovo ancora appiccicato lì, ad emanare un tanfo terribile. Sotto alla ciotola, sentii la crosta fragile spiaccicarsi con un ciac.

Lui era tutto in ghingheri, come sempre, quando doveva impartire una bella punizione ad un piccolo ribelle. La chiamava: la cerimonia per celebrare il nuovo possibile inizio di un bravo bambino obbediente. Gli occhialetti rotondi erano stati ordinatamente riposti contro il taschino della giacca, lasciando libero lo sguardo scuro e affilato, mentre i capelli castani, lavati di fresco, erano spazzolati indietro.

Avrei voluto sfiorarli. Accarezzare le ciocche corte fra le dita. Sentire quella versione morbida e lucente del mio tutore.

Era bello, il mio tutore. Affascinava e terrorizzava insieme.

«Questo cattivo bambino, si spezzerà come un bel manichino.» cantilenò lui, avvicinando una sedia al seggiolone. «Oh però, An, i bambini cattivi arrivano per ultimi. E tu non vuoi essere ultimo. Al mondo servono bambini bravi, bambini obbedienti.» Mi guardò sbattendo le ciglia scure. Senza occhiali, riuscivo a notare quant'erano lunghe. «Il mio ragazzo, questo bambino cattivo, era meglio farlo di vetri rotti.» Prese una prima cucchiaiata di marmellata di more. Dalle finestre penetravano raggi di sole che, stranamente, facevano scintillare il contenuto violaceo del cucchiaio. Quello si avvicinava lentamente alla mia bocca, fluttuando nell'aria. «Arriva la barchetta. Forza, An. Fai il bravo bambino obbediente. Apri, su. Arriva la barchetta e attracca nel porto. Gnam gnam...»

Dopo, vomitai sangue.

«André!»

Sentivo la voce di qualcuno che, in lontananza, mi chiamava.

«André Sion!»

Aprii lentamente gli occhi, separando le palpebre l'una dall'altra, quasi con dolore, mentre vedevo, da quel buio penetrante, affacciarsi la luce del giorno e una figura, china su di me, che mi guardava. Uno sguardo blu elettrico, come lo strato sottile che circonda un fulmine bianco, lampeggiante.

Sfarfallai più volte le ciglia, cercando di capire dove mi trovassi, chi fosse quella persona affacciata su di me, chi fossi io. Avevo il cuore che quasi mi scoppiava nel petto, i capelli appiccicati alla nuca e alla fronte, la camicia un tempo bianca ed ora ingrigita madida di sudore.

Avevo ancora il grido sulla punta della lingua. Quel grido che non ero riuscito a pronunciare, quel grido che ci erano voluti anni per ricordare:

"Fatemi morire"

In mezzo alle fiamme, pensai all'improvviso. E per un attimo quasi assaporai un nome, lo avvertii come un odore nell'aria, il fantasma del fantasma di un ricordo. Una ragazzina. Che veniva tirata da un braccio carbonizzato in mezzo alle fiamme. Che gridava.

Chiusi gli occhi, fortissimo. Mi ficcai i pugni nelle orbite, come se fosse servito a qualcosa. A ricordare. A dimenticare? Non l'avevo ancora capito. Dopo tanti anni, non l'avevo ancora capito.

Sentii due mani piccole, sottili, posarsi delicatamente attorno ai miei pugni, cercando di scostarli via dagli occhi.

«André...» un sussurro, una voce sottile e flebile come il vento, che rischiava di volare via nel fruscio della natura.

Mi bastava pensare a quella frase per calmarmi almeno un poco: Lui è andato via. Sapevo che, l'ultima volta che l'avevo visto, era successo qualcosa di brutto. Qualcosa di peggiore rispetto al solito. Lo sapevo. Nel profondo di me stesso, mi rendevo perfettamente conto di sapere tutto, che in effetti ricordavo tutto. Ma non volevo ricordare. Perciò non lo facevo mai. Per un atto di volontà conscio o inconscio, avevo racchiuso il mio passato e messo via perché non tornasse più in superficie.

Eppure, quella memoria tornava e il passato si intrufolava nei sogni, come frammenti di un vecchio quadro in cui tanto tempo fa un dottore pazzo viveva in un'orrenda fattoria con i suoi bambini obbedienti. Lui cibava quei bambini con il vetro polverizzato e il veleno per topi, li legava alle barelle e li tagliuzzava con il bisturi finché non conosceva a memoria le loro membra, perché i suoi bambini dovevano essere bravi e obbedienti.

Ma un giorno loro divennero così bravi da vincere la guerra. Questo me lo sentivo nelle cicatrici. Non volevo ricordare cosa aveva fatto quell'uomo, cosa era successo quell'ultimo giorno. Ma la guerra l'avevo vinta io.

"Fatemi morire"

Un ragazzino. Delle braccia che emergevano dalle fiamme. Delle mani che lo tiravano dentro. "Corri."

Non ricordare. Fermo. Vai via. Nulla di buono veniva dal mio passato, specialmente da un passato come il mio.

«André, svegliati.» Quella voce, nuovamente, spirò verso di me come una ventata d'aria fresca, pulita, che mi entrava nei polmoni per purificarmi. Lasciai che le mie mani venissero scostate dal viso, lasciai che la luce dorata del mattino mi lambisse la pelle. Riaprii gli occhi, separando le ciglia chiare.

Poi mi alzai a sedere di scatto, come se mi fossi improvvisamente reso conto di dov'ero e con chi. Il mago, Rhod, sedeva sulla stuoia di cuoio accanto a me e i suoi grandi occhioni blu mi fissavano silenziosi, colmi d'apprensione. Mi stava ancora stringendo le mani.

«Stai bene?» mi chiese, titubante. «Hai... hai avuto un incubo.» La treccia sottile che scendeva accanto all'orecchio gli copriva l'occhio sinistro ed io provai l'insolito impulso di scostargliela, sfiorandogli il volto con la punta delle dita. Eppure, quello che feci, fu sfilare le mani dalle sue e allontanarmi.

«Ho detto qualcosa?» domandai, evitando il suo sguardo per posarlo sui detriti spenti lasciati dal fuocherello del giorno prima.

«Ah... be'...» si morse le labbra piccole, a forma di cuore. «Stavi urlando.»

«Oh.» fu tutto quello che dissi, la voce atona, l'espressione che non tradiva alcun turbamento o imbarazzo. Ma mi posai una mano sul collo, che doleva, come se riuscissi ancora a percepire il percorso del vetro lungo la gola, che raschiava contro la pelle. Un brivido freddo mi scivolò sulla schiena.

Apprezzai il fatto che lui non mi facesse alcuna domanda perché, con tutta probabilità, io non avrei saputo come rispondere.

Feci vagare lo sguardo fra gli alberi, cercando un pretesto per sviare la conversazione verso altri argomenti che non fossero lo stato del mio sonno. Posai nuovamente gli occhi al centro del cerchio di coperte, lì dove le ceneri del fuoco della sera prima si erano depositate. Avevano smesso di fumare da ore.

Mi chiesi fra me e me dove fossero finiti il principe e il mercenario: stare da solo con il mago mi provocava un tiepido senso di... forse disagio non era la parola giusta, perché al suo fianco mi sentivo stranamente tranquillo, eppure da quel giorno nella fortezza, da quel bacio, io lo avevo evitato in modo piuttosto evidente.

Non era passato molto tempo dalla battaglia contro gli orchi, soltanto cinque giorni. La cerimonia funebre era stata inaspettatamente silenziosa: il principe aveva proferito qualche parola d'omaggio ai caduti prima di avvicinare una torcia all'enorme catasta di cadaveri avvolti da lenzuoli bianchi. E, pian piano, tutti coloro che avevano perso qualcuno in quella lotta sanguinosa, avevano posato una torcia sulla pira e si erano allontanati, senza piangendo silenziosamente.

Prima di allontanarci, il principe aveva donato loro uno dei nostri sacchi d'oro e poi aveva inviato un messaggero verso Gilerines, promettendo di mandare presto un manipolo di uomini per iniziare a ricostruire la città. Ero rimasto abbastanza colpito dalla prontezza del principe Francis, così calmo nel prendere provvedimenti, come se dopo quel disastro non si fosse perso d'animo, ma fosse deciso a ricominciare. Anche se la mia espressione non lo dava a vedere, tutto quel sangue mi aveva scosso. Ed anche il mercenario sembrava essere turbato, di un turbamento che però era del tutto scomparso, una volta lasciata Kijani.

Tornai a pensare a quel giorno, alla lotta, alla situazione disperata e poi alle fiamme che avvolgevano tutto. Cyran Rouge non era un semplice umano e questo dovevamo averlo capito tutti.

«Dove sono il principe e il mercenario?» domandai, spostando lo sguardo fra gli alberi e poi verso il cielo. Sin da piccolo avevo imparato a capire l'ora dalla posizione del sole e, a giudicare da come quel cerchio giallo spariva fra le fronde degli alberi, doveva essere pomeriggio inoltrato, quasi sera.

«A caccia. Anche se presto dovremmo raggiungere una locanda, per oggi è meglio rimanere accampati. Sta per calare la sera.» mi rispose Rhod, alzandosi dalla stuoia per poi passarsi i palmi delle mani sui pantaloni, spolverandoli dal terriccio secco. Per un momento rimasi in silenzio.

Forse avrei dovuto scusarmi di quel giorno, di come l'avevo scostato bruscamente, di com'ero fuggito via senza neanche dargli una spiegazione. Ma se l'avessi fatto, avevo lo sgradevole presentimento che lui mi avrebbe chiesto qualcosa. Ed io non potevo, non volevo dirgli nulla. Non avrei lasciato che quei ricordi tornassero a galla.

«E' strano non avertelo chiesto subito.» esordii, abbassando gli occhi dal cielo a lui, che adesso stava vagando per la radura alla ricerca di legna e rami da ardere. «Ma cosa credi che sia, il mercenario?» conclusi. Non era quello che volevo dirgli e forse non era quello che lui si aspettava di sentire. Non eravamo mai rimasti soli da quel giorno e questo, con tutta probabilità, era il momento migliore per chiarirci. Ed io lo sprecavo così.

Eppure, anche quella domanda mi assillava ed ora che il mercenario non c'era, volevo cogliere l'occasione per rivolgergliela. Lui aveva molta più esperienza di me, nel campo della magia, ed il mercenario sembrava proprio quello: magico.

Lo scalpiccio che si udiva nel silenzio fino a poco prima, si arrestò. Rhod si voltò verso di me e sbatté più volte le palpebre, senza dir nulla. Forse era rimasto deluso, perché immaginava che gli chiedessi scusa, che gli fornissi una spiegazione. Invece, poco dopo, rispose.

«I-io davvero... non lo so. Non è... non è affatto un mago, questo è... certo.»

«Cosa te lo fa dire?»

«E' semplice.» iniziò, avvicinandosi verso di me, per poi aprire delicatamente le braccia, lasciando cadere sui resti del focolare del giorno prima, la nuova legna da ardere. Anche se eravamo piuttosto vicini, non feci molta fatica a notare che stava evitando il mio sguardo e teneva la testa bassa, molto più del solito. Cercava di nascondere gli occhi dietro le due sottili treccine ai lati del viso, con scarso risultato. «I maghi... i maghi... p..possono piegare gli elementi come... come vogliono.» Non era difficile capire che si stava sforzando per non balbettare e il tentativo non faceva che peggiorare le cose. Provai un sottile senso di dispiacere: lui non aveva mai mostrato grandi problemi nel parlare fluentemente con me. Eppure, oggi non era così. Evidentemente, doveva sentirsi più a disagio di me, in quella situazione, ed era solo colpa mia.

«Continua.» lo invitai, avvicinandomi un poco a lui, che era ancora inginocchiato davanti alla catasta di legna, mentre infilava meticolosamente i bastoncini più piccoli in basso e quelli più spessi in alto, gli uni sugli altri.

«Sì. Be'... come dicevo... io posso volare usando... usando l'aria che mi circonda. Posso... posso combattere con dell'acqua... se sono vicino ad un fiume, o delle fiamme se... se ho un fiammifero.» Mentre parlava, aveva alzato lo sguardo verso di me, ma poi lo aveva riabbassato rapidamente, rigirandosi fra le dita un rametto secco con fare impacciato. «Quel che intendo dire... è... è...»

«Sì?»

«I maghi... noi non possiamo far spuntare... fiamme... dal nulla. Ma... ma... Cyran... dalle sue mani... il fuoco è esploso all'improvviso. O meglio... lui ha creato il fuoco.» Si attorcigliò una treccina attorno all'indice. «Noi... non possiamo. E' contro tutte le leggi fisiche della magia e... e... semplicemente... non ci riusciamo.»

«Ma quelle strane scintille blu che più volte ho visto attorno a te? Sembra fuoco, quello.» chiesi, palesando la mia curiosità. Non potevo certo dimenticare il suo attacco ai briganti. Subito prima che le loro teste esplodessero all'improvviso, c'era stato quel bizzarro crepitio blu attorno al mago, scintille che davano l'idea di poter esplodere in un fuoco.

Eppure, Rhod scosse fermamente la testa.

«No... ecco... non si tratta di fuoco. E' magia, magia... condensata... allo stato puro. Alcuni... alcuni lo chiamano... mana. O fonte del potere. O semplicemente... magia.» spiegò, tornando a sedersi, questa volta non sulle mie stesse coperte, ma sulla stuoia alla mia sinistra, facendo attenzione a starmi lontano. Sebbene si trattasse di un piccolo dettaglio, quella scelta mi procurò una piccolissima fitta al centro del petto.

«Ma... se il mercenario non è un mago, allora, che cos'è? Chi è in grado di creare fiamme dal nulla?» domandai, la voce sempre piatta come la superficie di un lago, l'espressione impenetrabile che non avrebbe fatto trasparire il minimo sentimento. Che io fossi curioso o deluso, non lo davo minimamente a vedere.

Rhod spostò lo sguardo sulla legna, che non avevamo ancora acceso perché la sera non era ancora calata e né il principe, né il mercenario avevano fatto ritorno con qualche vivanda. Sembrò rifletterci su per diversi minuti, tanto che credetti si fosse incantato. Eppure, ad un certo punto, parlò.

«Io... ho qualche idea. Ma... ma spero di sbagliarmi.» disse, e non aggiunse nient'altro. Poi si tirò le ginocchia al petto e posò la testa su di esse, voltando il capo verso sinistra, in modo che io non vedessi il suo volto ma soltanto i capelli corti.

A quel punto, cercai di ignorare la sensazione crescente del dover fare qualcosa, del dover sfiorare le sue guance, toccare i suoi capelli. Perché sentivo il costante rumore di qualcosa che tintinnava: il rumore dei lucchetti che cadevano, quei lucchetti che tenevano perfettamente chiuso il mio cuore, proteggendolo da qualsiasi tipo di sentimento. Eppure, non riuscivo in nessun modo a frenare la loro caduta.

«Ehi Rhod...» Allungai un braccio verso di lui, sfiorandogli un ginocchio con la punta delle dita.  «Sei arrabbiato? » domandai, vedendolo chiuso in se stesso in quel modo, più del solito. Non ero sicuro che lo fosse, probabilmente più deluso.

Continuò a tenere il capo voltato, senza neppure guardarmi e, quasi non sopportasse il mio tocco, allontanò la mia mano con uno strattone. Tuttavia, come se il caso non lo volesse, il suo dito si impigliò al polsino della mia camicia e l'effetto fu contrario: mi tirò verso di lui.

Venni strattonato in avanti e, per un meraviglioso momento di silenzio, ci fu soltanto un intrico di braccia che si muovevano. Poi, dopo un po', mi accorsi di essere cascato su di lui: il suo corpicino era schiacciato sotto il mio, il suo petto si alzava e abbassava, sotto la pressione del mio.

Tesi le braccia, in modo da lasciargli spazio, eppure restai fermo dov'ero, a sovrastarlo, in una posizione in cui era impossibile che sfuggisse. Fissai il mio sguardo su di lui, che aveva i grandi occhi blu spalancati, la bocca schiusa in un moto di sorpresa. Le due treccine sottili erano pigramente stese lungo il terreno, così come le sue braccia.

«Mi dispiace per quel giorno.» parlai, il tono di voce imperturbabile tanto quanto la mia espressione. I nostri petti erano molto vicini: quando li gonfiavamo per respirare, soltanto qualche centimetro ci allontanava. I nostri volti distavano di poco, riuscivo a sentire il suo fiato contro le labbra. «E' solo che... non mi piacciono, quelle cicatrici.» ammisi, sfarfallando le lunghe ciglia bionde, senza riuscire a distogliere lo sguardo da lui.

«Ti... ti... ti... pre..go... t..t..togliti.» biascicò, girando appena il capo verso destra, come per mettere distanza fra le nostre facce. Fra le nostre labbra. Il sole che tramontava gli faceva scintillare quegli occhi blu come due gemme preziose, come una pennellata di colore su un quadro troppo strano per essere vero. Le sue guance erano teneramente imporporate di rosa, ed io mi sentii piuttosto contento dell'effetto che riuscivo ad esercitare su di lui.

«Ma non è che non ti volessi baciare, anzi...» Sull'onda di quelle parole, il mago tornò a guardarmi, questa volta con le gote tinte di un violento rosso. «... voglio farlo.»

Non fu improvviso: come se ce l'aspettassimo, il mio naso sfiorò il suo e, quasi timidamente, le mie labbra toccarono le sue, tremule.

«Ragazzi!» La voce allegra del principe risuonò per l'intera radura rimbombando. Francis spuntò da un punto indefinito degli alberi, ostentando un sorriso a trentadue denti. «Abbiamo trovato una cosa...» si bloccò all'improvviso, quando si accorse della situazione in cui ci trovavamo. «Oh! Uhm... Ecco... Ritorneremo più tardi!» Si voltò velocemente, ma rimase fermo sui suoi passi, alzando le braccia verso qualcun altro più avanti, celato dagli alberi. «Cyran! Cyran asp...»

Mi tirai a sedere, lasciando andare dalle labbra una sorta di sospiro, che ricordava tanto uno sbuffo. Intanto il mercenario uscì dal folto scuotendo i capelli, pieni di foglie. Il mago ritornò velocemente seduto, ma intercettò lo sguardo che gli avevo appena lanciato: arrossì fino alle orecchie.

«Oh, ecco i nullafacenti!» esclamò Cyran, camminando verso di noi mentre sventolava fra le mani un paio di lepri morti, tenendoli per le zampe inerti. «Mentre voi stavate qui a perdere tempo, noi ci siamo procurati la cena e... principino, fa vedere.» Gettò ai piedi della legna la selvaggina e si lasciò ricadere sgraziatamente su una coperta, facendo un cenno del capo al principe.

«Guardate.» esclamò, mentre si sfilava qualcosa dal collo: un pendente. Si avvicinò e me lo mise fra le mani, in modo che potessi guardarlo meglio. Per qualche ragione, quando incrociai lo sguardo di quell'occhio di vetro incastonato fra un turbine di foglie d'argento, dalla quale scendevano piccoli cristalli bianchi, provai uno strano brivido lungo la spina dorsale.

«E' inquietante.» commentai, anche se dal mio volto non traspariva la minima traccia d'inquietudine. Il mago, adesso completamente libero da quell'imbarazzo che rendeva ogni sua parola frammentata e balbettata, prese il gioiello dalle mie mani.

«Dove l'avete trovato?» domandò, osservando a lungo l'occhio azzurro che, di rimando, lo fissava inanimato. Negli occhi aveva quello scintillio che riuscivo a cogliere quando vedeva qualcosa che lo interessava in particolar modo, che fosse un incantesimo, un libro, o un oggetto.

«Fra le foglie, nel bel mezzo del bosco.» rispose il mercenario, mentre si metteva a trafficare con la legna, che già aveva preso fuoco. Non mi interrogai sul come: probabilmente l'aveva acceso grazie a quel suo strano potere.

Poi iniziò a spellare le lepri con cura meticolosa dettata dall'abitudine, come se avesse passato tutta la sua vita a spellare selvaggina: probabilmente non ero l'unico ed essere vissuto in viaggio, costretto a sostare per lungo tempo nel bosco. Ma se io avevo preferito la sicura presenza delle erbe, lui invece doveva essere solito alla caccia.

«Perché?» chiese il principe, guardando l'operazione di pulizia della lepre con una smorfia malcelata: non aveva certo l'aria di una persona che si procura il cibo da sola.

«Oh... niente. E' solo... solo che... ha un'aria familiare.» spiegò Rhod, rigirandosi il pendente fra le mani, finché non lo rese a Francis, che lo indossò ancora una volta al collo.

«Troverò il proprietario e lo restituirò.» disse, guardando l'occhio prima di lasciarsi cadere il gioiello contro il petto.

«Cosa? Pensavo di venderlo!» esclamò Cyran, alzando di colpo gli occhi sul rossiccio, mentre con le mani rigirava ramoscelli su cui aveva infilzato i leprotti, che adesso arrostivano emanando un odore quasi bruciacchiato, ma tutto sommato piacevole.

Mi alzai e, dalle borse vicino ai cavalli, presi qualcuna delle mie erbe secche: il timo sarebbe stato perfetto, su quel tipo di carne.

«Abbiamo già abbastanza denaro!» cominciò il principe, sedendosi al suo fianco e scuotendo la testa, in un moto d'esasperazione. «Pensa al proprietario: se fosse qualcosa di importante, per lui?» continuò, guardando il mercenario, che aveva appena finito di cuocere la carne. Con l'aiuto delle erbe, emanava un profumo delizioso.

«Ah, fa come ti pare.» si arrese il bruno, emettendo un grugnito di disapprovazione, eppure senza opporsi alla scelta del più piccolo. In realtà, capivo la mentalità del mercenario: se passi tutta la vita compiendo lavoretti, spostandoti di bosco in bosco, di locanda in locanda, capisci quanto sia importante il denaro per la sopravvivenza.

Soltanto dopo un po' mi accorsi che lui aveva perso l'abitudine del dare del voi al principe: qualcosa doveva essere cambiato, fra loro due. Mi chiesi che cosa mi fossi perso, mentre io prestavo tutta la mia attenzione al mago. Ed in quel momento ne presi atto: Rhod era riuscito a farmi dimenticare un sacco di cose.

Ad esempio, il motivo per cui avevo partecipato a quel viaggio. La Lingua di Drago.

«Tieni.» disse Cyran, porgendomi uno dei quattro pezzi che aveva ottenuto dalle lepri. Avevo così fame che addentai senza pensarci due volte, mentre stendevo le gambe poco più vicine al fuoco. Anche se l'estate si stava avvicinando, le notti continuavano ad essere fredde.

«Qual è la prossima meta?» chiesi, ingollando un pezzo di carne e avvertendo il sapore speziato del timo sulla lingua. Il principe alzò gli occhi verso l'alto, un gesto che a quanto avevo imparato a capire, compiva quando rifletteva.

«Siamo al confine del regno di Akra. Dobbiamo superare l'ultimo villaggio, poi saremo dentro il regno di Yalhi.» parlava senza mai masticare insieme, ma prima ingoiando e poi spiegando. Spezzettava la carne staccandola in bocconi minuscoli dall'osso e dopo se li portava con delicatezza alla bocca: non sembrava per nulla abituato a mangiare con le mani. «La capitale è molto vicina. Dicono sia bellissima.»

Il mago ascoltava in silenzio, con il capo basso verso il proprio pezzo di carne. Il mercenario sembrava piuttosto concentrato sul suo osso, spolpandolo come se andasse alla ricerca del più piccolo rimasuglio di cibo. Dopo, senza tanti complimenti, si buttò l'osso semplicemente alle spalle.

«Non stanno per iniziare le sfide sportive?» intervenni.

Se c'era qualcosa per cui il regno di Yalhi era famosa, erano le sue sfide sportive: uomini e donne di tutto il Continente Meridionale si raccoglievano il primo mese estivo nella capitale, per lanciarsi in sfide atletiche di tutti i tipi. I premi erano spesso ingenti somme di denaro e rarissimi oggetti magici.

«Ah, che scocciatura. Ci sarà un bel casino, allora.» sbottò il mercenario, distorcendo il suo bel viso in una smorfia.

«Cyran! Non dire certe parole!» sbottò il principe, lanciandogli un'occhiataccia fulminante. Lui voltò il capo in direzione del rosso.

«Cosa, casino?» iniziò a sogghignare pericolosamente. «Scommetto che il principino non è mai stato in un posto simile.» gongolò, mettendo in mostra un ghigno beffardo ed ilare tutto per il povero principe. Che, sentite quelle parole, arrossì visibilmente.

«Cyran!!» esclamò, a denti stretti, rosso fino alla radice dei capelli.

«Tranquillo principino...» gli si avvicinò, acchiappandolo da dietro con un braccio e stringendolo spalle contro il proprio petto. Poi si chinò sul suo orecchio e gli sussurrò qualcosa che non riuscii a cogliere e, dopo quella frase, Francis spalancò gli occhi e lo spintonò indietro, diventando letteralmente porpora.

«Sei uno stupido, Cyran Rouge!» gridò, stendendosi alla velocità della luce sulla sua stuoia per coprirsi velocemente con le coperte fino alla testa. Dopo quell'insolito scambio di battute, che io e il mago avevamo seguito passivamente senza battere ciglio, calò il silenzio.

«Mphf.» bofonchiò Cyran, con un sorrisetto divertito. «Io mi metto a dormire.» dichiarò, stendendosi lungo le coperte con le braccia incrociate dietro la testa e gli occhi rivolti verso il cielo.

A quel punto, rimanemmo seduti soltanto io e il mago, l'uno accanto all'altro su un'unica stuoia. Gli sfiorai la mano con la mia, guardandolo di sottecchi. Arrossì.

«Buona... buonanotte, André.» sussurrò, ed io immaginai che quello fosse il suo modo per dirmi di spostarmi dalla sua coperta. Così, a malincuore, mi alzai. «Oh, ecco...» continuò. Mi voltai a guardarlo. Lui teneva lo sguardo basso, incollato al terreno, e il viso nascosto fra le ginocchia, ma riuscivo a vedere il suo rossore dalle orecchie. «... non... sono arrabbiato.» furono le sue ultime parole, prima che si stendesse sotto le coperte.

Non risposi nulla. Eppure, la mia espressione eternamente impassibile si infranse: increspai le labbra in un sorriso.

Poi mi infilai sotto alle coperte, abituato al familiare fastidio di avere terra e pietrisco sotto la schiena, e caddi in un sonno senza sogni, sgombro da quei ricordi fastidiosi che mi tormentavano l'animo ogni volta che chiudevo gli occhi.

La mattina dopo, mi sembrò una giornata come le altre. Un risveglio come gli altri. Il sole brillava dei primi raggi mattutini, il vento faceva frusciare le foglie con quel suono familiare che riusciva a cullarti e gli uccellini cinguettavano senza lasciare spazio al silenzio.

Eppure, quando mi rialzai dalle coperte, capii all'improvviso che qualcosa non andava. Che c'era qualcosa di diverso.

Mi sentivo bene. Niente più dolore ogni volta che alzavo e abbassavo il petto per respirare, niente più dolore agli arti quando semplicemente camminavo, niente più dolore quando cercavo di mettere a fuoco qualcosa di lontano, che spariva dalla mia vista in una macchiolina scura. Tutta quella serie di dolori che erano cominciati diversi anni prima e che, man mano che gli anni passavano si aggravavano, mentre io mi abituavo a sopportarli e andavo avanti nella mia vita arrancando, adesso, era scomparsi.

Mi ero dimenticato di com'era quando non sentivo dolore. Mi ero dimenticato la sensazione di sentirsi semplicemente bene.

Ma sapevo che era impossibile: quel dolore attanagliante e perenne mi accompagnava giorno dopo giorno nella mia vita per ragioni che conoscevo perfettamente. Non poteva semplicemente passare.

Mi fissai le mani: non le riconobbi. Erano più piccole delle mie, dalla carnagione lievemente più rosata, con le unghie sottili e curate. Ma soprattutto, non avevano le bruciature sui palmi, o quelle linee sottili che percorrevano le nocche. Non erano le mie.

In seguito, iniziai a prendere atto di tanti altri particolari. Non indossavo gli stessi vestiti della giornata precedente, le mie gambe erano molto più corte e sottili. E non sentivo la presenza rassicurante dei capelli lunghi che mi riparavano la nuca dal vento.

Quasi come un fulmine a ciel sereno, quella consapevolezza si radicò in me all'improvviso, velocemente. Subito, capii: quello non era il mio corpo.

E così alzai gli occhi sui miei dormienti compagni di viaggio e lo vidi. Di fronte a me, oltre la catasta di legna spenta, oltre il lento filo di fumo che si innalzava da essa, c'era un ragazzo. La figura longilinea semi-coperta dalle lenzuola di lana grezza, la carnagione pallida come quella di uno spettro, gli occhi chiusi e le ciglia chiare che gettavano ombre sulle sue guance, i lunghi capelli biondi sparpagliati sotto il suo capo, fra le foglie.

Era l'erborista, il bambino disobbediente che viveva in una fattoria con un pazzo, quel ragazzo che andava alla ricerca disperata della Lingua di Drago.

Quello di fronte a me, ero io.


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