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15. Fiocchi di cenere



Francis



Mi faceva male il corpo.

Ogni arto e muscolo, ogni singola particella, come se mi avesse schiacciato un grosso, pesante macigno. Ma, soprattutto, un dolore pulsante mi attanagliava la testa. In effetti, quando non ero riuscito a schivare la manata dell'orco, non avevo calcolato il volo di svariati metri e lo scontro violento sul muro della fortezza. Avevo perso i sensi, ma non sembrava fosse passato troppo tempo, perché il caos ancora imperversava attorno a me ed io lo udivo chiaramente, con un clangore di spade e ululati mostruosi che mi facevano martellare le tempie.

Aprii le palpebre, provando quasi una sorta di sofferenza nel separarle l'una dall'altra, e quel che vidi mi fece venir voglia di urlare. Era buio e l'unica cosa che rischiarava le strade, le lotte, il sangue, era la luna. Gigantesca, un cerchio pallido e luminescente. No, non solo la luna.

Davanti a me si ergeva la figura possente del mercenario. Le spalle ampie, il profilo dei capelli scompigliati, lo spadone in una mano, i cumuli di cadaveri mostruosi ai suoi piedi. Qualcosa, fra le sue mani, brillava. Una lanterna? La mia vista era così sfocata che non lo capivo. Ma ciò che riuscivo con chiarezza a distinguere, fu il gruppo di giganteschi orchi che incombevano su di noi. Eravamo accerchiati.

Ed io, invece di urlare, rimasi immobile. Prostrato a terra e congelato, a chiedermi come ne saremmo usciti. Il cerchio intanto si restringeva, gli orchi avevano le fauci spalancate e il sangue e la bava si mescolavano cadendo a terra sfrigolando, quasi fosse acido corrosivo. Cyran rimase fieramente in piedi, ma fu costretto ad indietreggiare. Non ne saremmo usciti.

Quando lo capii, dalle labbra mi sfuggì un sibilo rauco che assomigliava ad un lamento, ma più amaro e silenzioso. Invece di guardare verso il corvino e le bestie su di noi, rimasi a fissare gli occhi gialli e spalancati di una delle carcasse, poco lontane da me, come se mi aspettassi di finire nello stesso modo.

Quando ero partito per quella missione, l'idea di morire non mi aveva neanche sfiorato. Ero così sicuro che tutto sarebbe andato bene, così sicuro che io e miei compagni ce l'avremmo fatta, che non avevo guardato la realtà. Ma la verità era che non volevo morire.

Non si trattava solo del fatto che nessuno avrebbe salvato la principessa. No, io volevo vivere. Per la prima volta, iniziai a chiedermi se fosse saggio avventurarsi nel Continente Sconosciuto. Era quasi ridicolo fare quel pensiero, quando probabilmente fin lì neanche ci sarei arrivato. Così chiusi semplicemente gli occhi, in trepidante attesa di un dolore e poi, il nulla. La morte.

Quel pensiero mi sconvolse così tanto che iniziai a piangere silenziosamente.

«Andate VIA!» le parole del mercenario mi portarono a riaprire gli occhi, guardando la sua schiena attraverso il velo di lacrime. Quella voce non sembrava neanche la sua. Era roca, più bassa del solito, gutturale e cupa. Non sembrava neppure di un essere umano.

Quella luce adesso era molto più forte, abbastanza da farmi capire che non c'era nessuna lanterna fra le mani del corvino: no, erano le mani stesse a brillare.

Con le guance umide di lacrime e gli occhi strabuzzati, sentii cedermi la mascella per far spazio ad un'espressione sbigottita, a bocca spalancata. E non ci fu tempo di dire nulla, non ci fu tempo di riflettere, di capire cosa stesse succedendo. Il mago corse verso di noi, potei intravedere la sua piccola figura fra le gambe degli orchi mentre si avvicinava. Stava urlando qualcosa, ma non riuscivo a capirlo.

Poi, quando fu finalmente abbastanza vicino, intuii.

«No, Cyran, NO!» Ma era troppo tardi.

Dalle mani del mercenario volarono scintille e, dopo, le fiamme. Gigantesche, enormi, così rosse e calde, così fameliche e rabbiose che divorarono ogni cosa. Senza far distinzione fra buoni e cattivi, senza capire quali fossero gli orchi o i cittadini. Avvolgevano ogni cosa, ogni casa e persona, immergendo l'intera città in una coperta di fuoco color arancio. Sentii le urla e la puzza di bruciato, vidi le fiamme avvicinarsi, soffocarmi, intrappolarmi. Ed io gridai a squarciagola, coprendomi il viso con le braccia, rotolando pur di allontanarle, scacciando la sensazione della carne che, lentamente, si sarebbe ustionata.

Eppure, mi accorsi che il fuoco mi era addosso, ma non mi faceva nulla. Aprii con cautela gli occhi. Non provavo dolore. Nessuna ustione, nessuna bruciatura. Ma le fiamme mi avvolgevano, mi erano praticamente addosso, come un vestito scomodo.

Solo dopo aver superato lo sbigottimento iniziale, mi accorsi che il mio corpo era percorsa da uno strano strato luminescente. Come una seconda pelle, come se una grande bolla azzurrina e trasparente mi ricoprisse e mi proteggesse. Ed era così.

Sentivo il calore delle fiamme, percepivo i peli sulle braccia bruciacchiarsi, eppure la mia pelle era fresca e riuscivo perfino a respirare a pieni polmoni. Non mi chiesi come potesse essere possibile, anzi, alzai la mano verso il fuoco ed iniziai a toccarlo e plasmarlo, disegnando forme che ruotavano nell'aria.

Finché finalmente quell'esplosione rossa ed incontenibile non si esaurì, e non restarono che cittadini sbigottiti, orchi fumanti e case in fiamme. Le capanne bruciavano e i superstiti si guardavano intorno confusi, sconvolti, le armi gettate a terra ed ancora insanguinate, i volti coperti di rosso, chiazzati di grigio e rigati di lacrime. Lacrime di felicità per essere sopravvissuti, di speranza per chi desiderava ricostruire la città e ricominciare da capo; ma anche lacrime di disperazione, per chi non ce l'aveva fatta.

Ma nessuno era morto per le fiamme. C'erano cadaveri straziati e pozze di sangue e le persone erano chine a terra, a piangere i propri cari, con le mani fra i capelli e il dolore dipinto sui volti. Fra quelle c'era l'erborista. Era seduto a terra, gli occhi totalmente inespressivi tanto quanto l'espressione, mentre accarezzava la fronte del corpo scomposto accanto a sé, mollo come una bambola di pezza e senza vita. Il mago.

Lui ci aveva salvato dalle fiamme ed era morto.

Mi alzai sulle gambe tremanti, facendo perno contro la parete della fortezza, l'unica cosa che, per qualche motivo, non era stata rasa al suolo dalle fiamme. La luna era ancora alta nel cielo, ma le case ardevano ancora e contribuivano a gettare un alone rosso-arancio sulle strade. Da quelle scendevano tanti piccoli fiocchi di cenere, che davano l'illusione di un cielo innevato. Mi premetti le mani contro la testa, che vorticava tanto da farmi barcollare. Però riuscii a restar piantato sulle mie gambe, camminando malfermo mentre calpestavo le ossa scricchiolanti degli orchi e scivolavo sul sangue. Poi lo vidi: Cyran.

Era rimasto in piedi, distante di qualche metro da me e di spalle, immobile, a guardare le case in fiamme e i cittadini che gridavano e piangevano, lasciando che la cenere cadente si depositasse sulle sue spalle e le macchiasse di grigio e di nero.

«Cyran!» gridai, in sua direzione, nonostante avessi la voce roca e mi facesse male la gola. Ma lui non mi ascoltò e non mi degnò di uno sguardo. Anzi, iniziò a camminare, lentamente, superando le vittime e i superstiti, calpestando cadaveri e intere pozzanghere di sangue che gli schizzavano sugli stivali, senza fermarsi a guardare niente e nessuno. Avanzava verso le porte della città come se non gliene importasse nulla di tutto quanto, guardando fermamente soltanto di fronte a sé, come un sonnambulo, un burattino a molla che di fronte ad un muro continua a muoversi.

Per un attimo, pensai semplicemente di lasciarlo andare. Eppure, quando superò le porte distrutte fra le mura, non ci riuscii. Iniziai a camminare, lasciando che la cenere mi cadesse addosso, solcandomi le guance con delle ampie strisce grigie. Mi tolsi la spada insanguinata che mi ciondolava dal fianco destro e poi presi a corrergli incontro. Scivolai nel sangue di qualcuno e caddi ginocchia a terra, ma mi rialzai e ripresi la corsa, saltando le macerie fumanti sulle strade ed ignorando le lingue di fuoco che uscivano dagli scheletri rimasti di ciò che un tempo erano luoghi abitati da qualcuno, luoghi che chiamavano casa.

Le lacrime di disperazione per quella vita che quasi mi era stata strappata e per la tristezza di tutti quelli che non ce l'avevano fatta, ancora mi scorrevano sulle guance, mentre superavo le mura e percorrevo il sentiero verso il bosco. Una volta di fronte all'entrata del folto, mi fermai per riprendere fiato e per asciugarmi il viso. Poi, avanzai.

La foresta era buia. La luce della luna non riusciva a filtrare attraverso i rami e ogni tanto qualche raggio tinteggiava singolarmente un arbusto, del fogliame, una parte del terreno; il vento trasportava i fiocchi di cenere, e quelli continuavano a insinuarsi fra la boscaglia, dando quasi l'impressione che il cielo scuro crollasse a pezzi verso terra, fondendosi con essa.

«Cyran?» chiamai, forse un po' impaurito, perché la minaccia degli orchi poteva essere ancora presente nonostante tutto, ma anche perché il buio era talmente fitto che non riuscivo neppure a capire dove mettevo i piedi. Avanzai a tentoni, cercando di dirigermi nei punti in cui la luna proiettava pagliuzze di luce, dando l'impressione che il bosco fosse decorato con grosse perle bianche. «Cyran?» ripetei e, per un momento, temetti d'aver sbagliato strada e d'essermi perso. Invece, lui era lì.

In piedi, con le spalle abbandonate contro un tronco, le mani aperte a coppa, a raccogliere i fiocchi di cenere che gli cadevano sui palmi e gli sporcavano la pelle ambrata di carbone. Il suo volto era illuminato dalla luna e lì, con quell'espressione mesta ed in qualche modo ferita, mi resi conto di quanto era bello. I suoi occhi color tramonto erano splendidi, lucidi di lacrime trattenute.

Non dissi nulla, rimasi semplicemente a guardare il modo in cui la cenere si scontrava con le sue mani, diventando un tutt'uno con la pelle. Percepì la mia presenza, eppure non mi guardò e continuò a seguire il silenzioso percorso di neve nerastra.

«Perché sei venuto?» disse, improvvisamente, e la sua voce cavernosa risuonò per l'intera foresta, secca. Inizialmente non risposi, ma mi strofinai il farsetto, una volta azzurro, ora intriso di sangue. Non andava via.

«Perché te ne sei andato?» ribattei, fissando un fiocco che si era impigliato fra le sue ciglia. Strinsi le labbra e feci un passo avanti, avvicinandomi cautamente, come se avessi a che fare con una bestia pericolosa. A quel punto, lui alzò gli occhi verso di me e mi guardò con un'intensità tale che credetti potesse bruciarmi sul posto.

«Ho distrutto tutto.» disse, buttando fuori un sospiro, come se avesse trattenuto il fiato per tutto il tempo ed ora non riuscisse più a comprimerlo. La sua voce era monocorde, ma i suoi occhi scintillavano di lacrime.

Con le braccia lungo i fianchi, mi strinsi il tessuto dei pantaloni nei pugni. «Ci hai salvati tutti.» mormorai, scuotendo lievemente la testa ed abbandonando le mani lungo i fianchi. Mi avvicinai a lui, che increspò le labbra in un sorriso amaro.

«Il mago vi ha salvati. Non io.» replicò, stringendo le mani a coppa in due pugni, che liberarono uno sbuffo di carbone. Poi si lasciò scivolare verso il basso, con la schiena contro la corteccia dell'albero e le gambe sul terriccio. Posò la testa contro il tronco e levò gli occhi verso il cielo, osservando il modo in cui i rami nascondevano la luna.

«Lui ci ha salvato dalle fiamme.» dissi, mentre iniziavo a camminare verso di lui, per poi ricadere al suo fianco. «Tu dagli orchi.» mi sforzai di mettere su un flebile sorriso. «Siamo una squadra.» voltai il capo per guardarlo. Ma lui non ricambiava lo sguardo.

«Immagino conoscerai la Guerra degli Orchi.» chiese, mentre il capo si inclinava verso il cielo e le ciglia folte sbattevano, facendo ricadere gli ultimi rimasugli di cenere ancora intrappolati nel suo sguardo.

«L'ho studiato, sì.» Me l'aveva spiegato il mio insegnante durante le lezioni di storia. Si trattava di una lunga guerra, durata per più di settant'anni, fra gli uomini e gli orchi, che desideravano possedere le terre popolate dai primi, un tempo delle bestie. Alla fine l'avevano spuntata gli uomini, ma non era stato un trionfo così grande da poterlo chiamare vittoria. Le perdite erano state così ingenti da decimare la popolazione. La guerra si era conclusa soltanto sei anni prima, con la distruzione massiva delle tribù di orchi, eppure, talvolta i superstiti tornavano ad attaccare le città, come era accaduto quella notte.

«Ho prestato servizio anche io in quella guerra, gli ultimi anni.» Posò le mani sui pantaloni, scostandosi con inaspettata delicatezza i fiocchi di cenere. «Sapevo che sarebbe stata una dura battaglia. Ma, essere lì...» si fermò, mordendosi il labbro dal lato della cicatrice. «Non potevo immaginare.» chiuse gli occhi e rimase per un po' in silenzio, tanto che pensai non volesse più proseguire. Però, poi, parlò. «C'era così tanto sangue e così tante urla... il caos. Se da un lato riuscivamo a salvare i civili, dall'altro perdevamo il doppio dei soldati. E in modi così orrendi che...» scosse la testa e deglutì. «Non riuscii a trattenere la rabbia.» Strinse i denti. «Io non ce la feci. - poi, finalmente, girò il capo verso di me. «Sai cosa successe?»

Scossi la testa, senza avere il coraggio di proferire parola perché, in fondo, sapevo che cosa era capitato.

«Li uccisi.» mi fissò e, nei suoi occhi, lessi un dolore così grande che il cuore iniziò a farmi male. Mi misi una mano sul petto. «Tutti.» strinse le labbra e abbandonò il capo contro il tronco lasciando che un duro silenzio seguisse le sue parole. «Per questo sono stato esiliato. All'inizio non riuscivo a capire perché non ero semplicemente stato condannato a morte.» Rimasi ad ascoltarlo in silenzio. Temevo che ogni mia parola avrebbe bloccato quella cascata di parole, quell'ondata di sentimenti. Ed io non volevo. «Poi ho capito che l'esilio era una condanna ben peggiore. Perché sarei vissuto fino alla fine dei miei giorni con questa colpa. Questo peso.»

Dall'avere lo sguardo fisso su di lui, abbassai gli occhi. Come se volessi concedergli un momento di privacy, con se stesso e i suoi sentimenti; con i suoi ricordi e il suo dolore. Tuttavia, perfino smettere di guardarlo mi faceva male. «Ho provato ad iniziare di nuovo. Ho provato a dimenticare. Sono perfino tornato ad Akra, nella speranza di mettermi l'anima in pace salvando la principessa.» Quindi non era solo per la gloria. Forse non lo era mai stato, chissà.

«E cos'è andato storto?» domandai, esitando quasi, soppesando la sua espressione in qualche modo smarrita.

«Io.» rispose, in un sussurro. «Vivevo... vivo» si corresse «nella paura di commettere gli stessi errori. Ed oggi, se non fosse stato per il mago...» ritornò a guardarmi, e mi accorsi che aveva gli occhi lucidi. «sarebbero morti tutti. Saresti morto tu

«Ma io sono qui. Sono vivo!» esclamai, voltandomi verso di lui per mostrargli la curva inarcata delle sopracciglia. La prospettiva che lui potesse uccidermi, proprio lui che mi aveva salvato fin troppe volte, mi sconvolgeva. In tutta risposta, scosse la testa, facendo oscillare i capelli corvini e morbidi.

«Sapete, non mi è mai dispiaciuto fare il mercenario. Combattere per il bene comune. Ma non puoi farlo se allo stesso tempo sei un mostro che causa morte e distruzione.» mi disse, con uno sguardo così afflitto che avevo voglia di piangere. Per un momento fui sul punto di alzarmi, di sbattere i pugni e di dire che non era affatto così. Ma ero così distrutto, intriso di sangue dalla testa ai piedi, con la testa che mi girava e con le lacrime sul punto di riaffiorare, che non ne ebbi le forze. Quel solito fastidioso ottimismo che mi caratterizzava, dopo quella notte, si era polverizzato come il carbone che ci scendeva addosso.

Gli sembramenti, il sangue, i denti che divoravano, la fame degli orchi... L'avevano spazzata via, pur per questa sola sera. Forse sarebbe tornata. Forse la consapevolezza di questa brutalità non mi avrebbe più lasciato. Così, con gli occhi che mi pungevano di lacrime e la bocca che mi tremava, parlai.

«Odiavo essere un principe.» iniziai, fissando il modo in cui gli alberi, in fondo alla foresta, si incurvavano verso il basso. - I bambini fuori dal castello non mi accettavano, erano invidiosi di ciò che io potevo ottenere essendo nella famiglia reale e mi punivano lasciandomi solo. Gli adulti con me erano così finti... Pensavano che, se si fossero comportati gentilmente, allora sarebbero entrati nelle grazie del sovrano. Avevo così tanta paura di non essere accettato, che odiavo il mio ruolo. Volevo essere una persona normale, parte del popolo. Mio padre non me l'ha mai perdonato.»

Abbassai lo sguardo sulle mie mani, aprendo il palmo sinistro per seguire con le dita della destra le linee tracciate sulla pelle. Ricordare quella vicenda mi faceva sentire strano. Non volevo guardarlo. Non volevo che leggesse nella mia espressione quella sensazione. «Quando avevo dodici anni, mi obbligò a partire assieme ai soldati per trattare con i ribelli che volevano spodestarlo. Anche lui aveva fatto una cosa del genere, quando era giovane, e mi disse che ciò che aveva imparato quei giorni aveva fatto di lui l'uomo che era.» 

Buttai fuori un respiro. «Io odiavo quell'incarico.» Scossi la testa, stringendo gli occhi. «Non ero tanto bravo a parlare con le persone, prima. E i ribelli erano... popolani del più basso rango, grandi e grossi, ed io solo un ragazzino. Ma dovevo comportarmi in veste ufficiale. Non importava quanto insultassero la mia famiglia o quanto mi prendessero in giro. Io cercavo di essere superiore, di sbrigare le mie faccende in fretta ed ignorarli. E per un po' ha funzionato. Finché un giorno... Non più.»

Alzai le spalle e mi fermai, sollevando il viso verso la luna, osservando il modo in cui tanti piccoli crateri la facevano assomigliare ad una grossa ruota di formaggio. Tutto, pur di non guardare verso di lui. «Non sopportavano il fatto che un bambino facesse la vita agiata che loro desideravano. Non tolleravano il fatto che fosse stato mandato proprio quel bambino a parlare con loro, come se il re non li prendesse sul serio.» Strinsi le labbra tanto forte da farmi male.

 «Non so come sia cominciato, ma ricordo che avevo la sensazione che stesse per capitare qualcosa di brutto. E ho commesso l'errore di volermi difendere.» Chiusi gli occhi. «Loro, attraverso di me, volevano dimostrare a mio padre le conseguenze dell'averli sottovalutati. I soldati che mi avevano scortato, per qualche ragione, tennero la bocca chiusa. E loro mi picchiarono, percuotendomi con così tanta violenza che dovettero riportarmi a palazzo in una barella.» Quando riaprii gli occhi, mi accorsi di avere le guance inondate di talmente tante lacrime da precipitarmi in grembo, bagnando il tessuto dei pantaloni. Cyran strinse i denti.

«Fottuti mostri.» sibilò, stringendo la mascella. Annuii, senza dire nulla. «Mi dispiace.» sussurrò, avvicinandosi un po' di più, sfiorandomi la spalla con la sua.

«Quell'incarico avrà pure reso mio padre quello che è, ma...» sorrisi e poi, finalmente, mi voltai a guardarlo. «... Ha anche reso me quello che sono ora. Dopo quell'avvenimento, non sono più uscito dal castello. Ho smesso di tentare di integrarmi o di provare ad essere uno di loro.» Scossi la testa, lasciando che un debole sorriso prendesse il posto delle lacrime. «Sapevo che non lo sarei mai stato. Ma soprattutto non volevo esserlo.» 

Lo guardai e cercai la sua mano posata sul terreno. «La loro cattiveria era ignorante e colma d'invidia. Rifletteva ciò che loro erano.» Tirai su col naso, posando la mia mano sulla sua per stringerla. «Ma la vera cattiveria, quella che è davvero imperdonabile, è la cattiveria che facciamo a noi stessi.» Lo guardai, profondamente, lasciando che le lacrime mi offuscassero la vista, e che la mia mano stringesse la sua. «Quando abbiamo troppa paura di essere ciò che siamo davvero.»

Cyran ricambiò il mio sguardo, ed io mi accorsi che una lacrima solitaria gli era scesa lungo la guancia. Fui sicuro che quello fosse il nostro personale segreto: di certo, in futuro, non avrebbe mai ammesso di aver pianto. Intrecciò la sua mano alla mia.

«Vi avevo giudicato male.» sussurrò, avvicinandosi a me per prendermi il volto fra le mani. «Pensavo foste solo un principino viziato da proteggere.» soffiò, accarezzandomi il viso con la punta del pollice per asciugarmi le lacrime. «Ma non era vero.»

«Dovresti smetterla di darmi del voi.» replicai, sorridendo questa volta talmente tanto da farmi male alle guance.

«Allora Francis...» iniziò, allontanando la schiena dalla corteccia per chinarsi su di me. «Grazie.» mormorò, accarezzandomi il viso per scacciare le lacrime. Poi, i suoi occhi si abbassarono sulle mie labbra. E, inaspettatamente, come se non avessimo aspettato altro fino a quel momento, la sua bocca fu sulla mia, e se il primo bacio che mi aveva rubato era così intenso e rabbioso da farmi girare la testa, questo invece fu così dolce da farmi sciogliere il cuore.

Schiusi le labbra, posandogli una mano sul braccio, come a cercare un incastro, mentre la sua bocca premeva contro la mia e combaciava perfettamente in uno scontro di pelle e di denti. Con la lingua mi leccò il labbro inferiore, trovando uno spazio d'accesso grazie alla quale quel bacio divenne più intenso, tanto che, se non fossi stato seduto, probabilmente mi sarei accasciato a terra. Ed io risposi con lo stesso fervore, con una strana sensazione che mi albergava nello stomaco e che mi faceva formicolare le dita.

Poi, però, mi staccai, alzandomi da terra e spolverandomi i pantaloni. Non dissi nulla, semplicemente seppi che le mie guance si erano imporporate di un vivace rosso, in completo contrasto con la mia pelle color crema. «E quindi... tu sei un mago?» chiesi, stringendo gli occhi mentre lo fissavo con le sopracciglia aggrottate. Ma lui scosse la testa, posò una mano sulla corteccia dell'albero alle nostre spalle e si sollevò.

«No. Non so cosa sono.» rispose, sospirando. So solo che il fuoco fa parte di me. «Come... un organo fondamentale.»

«Come il cuore.» replicai e, dicendo quelle parole, avvampai, senza neanche sapere esattamente il perché. Ridacchiò, scrollando le spalle.

«Sì, ecco.» Mi porse la mano. «Ora usciamo dal bosco, è una zona ancora pericolosa.» disse, mentre io gli prendevo di rimano la mano, intrecciandola alla mia e aggrappandomici, poiché ancora barcollavo.

«Sì, torniamo dagli altri. Avranno bisogno di noi.» sussurrai, con la voce forse un po' tremante e il fiatone. Questo, perché il mio cuore ancora batteva all'impazzata e quasi temevo che potesse sentirlo. Tuttavia, non riuscivo a spiegarmi quel bacio. Sapevo che, prima o poi, sarebbe stato un grosso problema da affrontare, perché il mio futuro era con la principessa.

Ma, in quel momento, non mi importava affatto. 






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