14. Morire al vostro fianco
Cyran
C'era un misto di chiasso e di silenzio. C'era chi non riusciva a parlare per la paura, e chi invece pareva che non potesse fare a meno di conversare per tenersi occupato. Io scendevo le scale a due a due, di fretta, scostando e dando spallate a destra e a manca per ricavare almeno uno spiraglio in cui farmi strada. Dovevo trovare una maniera per convincere il principe. Dovevo trovare un modo per poterlo mandare via. Forse ero ancora in tempo. Se aumentavo il passo, se correvo, se lo trovavo subito... I miei occhi individuarono una testa riccioluta, morbidi boccoli color caramello fuso, che si confondevano fra il caos e la calca fitta della fortezza.
Corsi, scesi gli ultimi gradini, senza staccare gli occhi da quella chioma rossa, come se fosse il mio punto fisso, senza neanche curarmi se calpestavo i piedi di qualcuno o travolgevo bambini così piccoli da non arrivarmi neppure alle ginocchia.
Tesi un braccio e poi, finalmente, riuscii a sfiorare la spalla esile, avvolta da un farsetto azzurro macchiato di terriccio e polvere. Mi accorsi che il principe stava prestando aiuto ad un bambino, posandolo sul tavolo e accarezzandogli i capelli, mentre gli mormorava sottovoce qualcosa. Evidentemente, il piccolo doveva avere paura e il giovane reale voleva rincuorarlo. Tuttavia, anche in quei temporaleschi occhi grigi, la tensione era evidente: come se fossero sul punto di far comparire tuoni terribili.
«Principe.» esclamai, prendendolo per un braccio, in modo da incitarlo a voltarsi, in mezzo a quel caos.
«Cyran!» sembrò quasi che i suoi occhi si illuminassero, ma evidentemente doveva trattarsi di una bella illusione prima del disastro. «L'incantesimo è completo?»
«Io... credo che sia quasi finito. Ma..» iniziai a trascinarlo via dal tavolo, cercando un luogo più appartato. «..posso offrirvi un compromesso.» Superai i colonnati dell'atrio, posando le spalle contro il muro, cercando di ottenere un briciolo di privacy in una semplice nicchia nella parete. Ma almeno la folla era accalcata al centro della stanza, e per questo ne fui grato. «Questo posto è troppo pericoloso. Voi non sapete con che razza di creature avete a che fare.»annunciai, mentre, insoddisfatto, mi guardavo intorno per capire se le mie parole fossero unicamente alla nostra portata d'orecchio. E poi abbassai gli occhi nei suoi, osservandolo ostinatamente. «Andiamocene insieme.» Tenne il viso alzato verso di me, la fronte aggrottata, il bel visino che mostrava evidenti tracce di confusione.
«Di che stai parlando?» chiese, fissandomi guardingo, come se lo stessi minacciando. Ma non potevo demordere. Lui non sapeva.
«Andiamocene e basta. Sapete bene che con me potrete salvare la principessa.» Continuai a guardarlo, con uno sguardo davvero, davvero implorante. No, lui non sapeva che razza di pericolo correva. «Venite con me.» lo pregai, cercando di tenere ferme le mani lungo i fianchi, e di non trascinarlo via. Lui fece un sorriso esasperato, stranito, mentre girava appena il capo verso la folla accalcata attorno al tavolo. «E' una scelta così difficile?»
«Non è semplice!» sbottò subito. Quel sorriso si tramutò in una strana sfumatura corrucciata e stizzita, ed infatti il nasino all'insù era arricciato in una smorfia che gli rendeva quella spruzzata di lentiggini sul viso ancor più fitta. «Voglio salvare la principessa. Ma non posso abbandonarli!» esclamò, voltando il capo verso i rifugiati che la fortezza conteneva a stento. E non mi importava di rendermi ridicolo, di rendere i miei gesti assurdi.
Mi inginocchiai, prendendogli entrambe le mani, quasi fossi sul punto di fargli una proposta di matrimonio. Ma il mio sguardo era implorante, non riuscivo a pensare ad altro che alla sua salvezza. Perché se gli fosse successo qualcosa...
«Non sapete nulla di orchi e di battaglie! Venite via con me e sopravvivete!» gli strinsi un po' più forte le mani, che per essere quelle di un uomo erano incredibilmente sottili ed esili, davvero pochi calli a dimostrare come non fosse un assiduo combattente. Avevo gli occhi assottigliati in due fessure, la mascella irrigidita. In me c'era un misto di implorazione e rabbia, rabbia non verso di lui, ma per la situazione, che lo costringeva a mettere in discussione ciò che era per salvarsi. Ma lui non rispose, rimase a guardare per diversi minuti le nostre mani che si toccavano, con un lieve rossore che gli imporporava le guance e al tempo stesso con un luccichio di dispiacere. Non sarebbe venuto.
Ma se gli fosse successo qualcosa per colpa mia, non me lo sarei mai perdonato. E così mi alzai. «Vi offro ancora un po' di tempo. Decidete in fretta.»esclamai, prima di infilarmi fra la folla per sparire molto rapidamente, con un'inspiegabile senso di desolazione. Mi dileguai dall'altro lato dell'androne di quella fortezza, issandomi sulle scale di legno per cercare di vedere fuori dalla finestra, nel tentativo di scorgere qualcosa, delle figure, dei movimenti, dei rumori. Per il momento, tutto sembrava calmo.
Eppure, all'interno della fortezza, neanche uno dei cittadini poteva dirsi calmo: si torturavano le mani, piangevano, pregavano gli dei, accarezzavano i figli, baciavano i compagni, si aggrappavano alle armi, rimanevano in silenzio a guardare il vuoto, cantavano sottovoce. Ma nessuno, neanche uno di loro, provava ciò che provavo io.
Un dolore, profondo, lancinante e spaventoso, che si irradiava dal petto al resto del corpo. Un senso di mortificazione e di frustrazione, di amara solitudine. Come se in mezzo a tutta quella folla ci fossi solamente io, e solamente io avrei dovuto combattere contro tutti. E intanto la mia mente riviveva all'infinito lo stesso incubo, vedendolo passare davanti agli occhi con la velocità di un cavallo imbizzarrito, eppure ripetuto così tante volte che pareva una scena senza fine.
A distanza di anni, riuscivo ancora a sentire le urla dei soldati, mentre il rumore delle loro ossa triturate nelle bocche degli orchi era distinguibile a seconda del pezzo di arto. E il sibilo delle carni che venivano strappate, delle voci disperate che si trasformavano in urla animalesche al momento dello strappo. Dei comandi di salvare i civili nonostante lo strazio che si manifestava sotto i nostri occhi, della completa indifferenza, della mia impotenza che si trasformava in rabbia. E la rabbia in calore, quel calore terribilmente doloroso e bollente nei palmi delle mani, che inghiottiva qualsiasi cosa, mostri ed innocenti, lasciando solo la distruzione dietro di sé.
Chiusi gli occhi, sentendo il tremore scuotermi le mani, e il terrore sopraffarmi. Non avrei mai permesso che una cosa del genere accadesse di nuovo. Nella mia testa, la mia stessa voce continuava a rimbombare, ad urlare.
E, mentre quel pensiero mi si formulava in mente, vidi una nuvola di polvere alzarsi nelle vicinanze delle mura. Molto, molto vicino. A quel punto scesi dalla mia zona di vedetta, mi precipitai giù per le scale, e mi fiondai verso la figura vestita d'azzurro. Lo afferrai per un braccio, strattonandolo verso di me non con rabbia, ma con un senso d'urgenza che mi cresceva nel petto.
«Non abbiamo tempo per le decisioni.» esclamai, senza quel sottotono implorante, ma sicuro, convinto di portarlo con me. «Andiamo.»
«Non correrò via lasciando sole queste persone.» rispose lui, strattonando via il braccio dalla mia presa e puntando gli stivali sul pavimento di legno. Un nodo mi si formò all'altezza dello stomaco.
«Quindi rimanete?» chiesi, senza riuscire a nascondere un lieve tremolio nella voce.
«Sì» sbottò lui, mettendosi le mani sui fianchi e guardandomi severo, come se le mie richieste fossero paragonabili ai vaneggiamenti di un pazzo. Lanciai uno sguardo sulla folla, stringendo i denti, senza riuscire a guardarlo per la frustrazione.
«Dei maledetti, Francis!» sbraitai, stringendo gli occhi in due fessure e i pugni per la rabbia, mentre lui mi guardava sgomento, senza riuscire a capire perché ci tenessi così tanto a volerlo portare via. O forse perché avevo imprecato, o forse perché avevo detto il suo nome. Ma io non potevo restare lì. Avrei perso il controllo. Perché il vero pericolo non erano gli orchi, ero io.
Se non potevo rimanere per proteggerlo in una tale situazione di pericolo, allora lui doveva venire con me. «Questa decisione ti ucciderà.» gli risposi, aspro, mentre gli stringevo il bavero del farsetto azzurro. E, mentre lo guardavo, in quel misto di rabbia e frustrazione, lo attirai a me e, senza più pensare alle mie azioni, lo baciai. Fui attraversato da una scossa improvvisa, che mi fece venir voglia di stringergli il farsetto con ancor più rabbia. Lui, inaspettatamente, socchiuse le labbra e mi mise le braccia intorno al collo, appoggiando leggermente le mani, quasi esitando, sulla nuca. La mia lingua esplorò la sua bocca alla disperata ricerca di un rifugio contro il dolore che sentivo dentro di me. Era una sensazione talmente bella da fare male.
Ero stregato. Stavo baciando un principe che era già promesso ad un'altra. Stavo baciando un ragazzo che, con quegli occhi temporaleschi, era il rovescio del mio malefico potere. Staccai precipitosamente la bocca dalla sua.
Francis pareva stordito. Le ciglia rosse sfarfallarono verso di me, cercando di capire cosa gli avessi fatto. Mi chiesi cosa ne avrebbe pensato, in un momento più calmo. Ma in ogni caso, riflettei, c'era la possibilità che il domani per lui non sarebbe mai potuto arrivare. Rimaneva solo il presente e, se avevo voglia di baciarlo, in fondo... Sarebbe stato solo un bacio.
«Se sarete ancora vivo, vi aspetterò a tre villaggi di distanza.» spiegai, senza dare alcuna informazione in più, ma voltandomi per iniziare a correre, nonostante il petto mi facesse terribilmente male. Ma se fossi rimasto, avrei messo in pericolo la vita di tutti.
Non c'era più tempo per riflettere.
Spalancai le porta della fortezza, giusto per accorgermi che questa era pervasa da uno strato trasparente simile al vetro. L'incantesimo. Riuscivo tranquillamente ad attraversarlo, visto che non ero un orco. Uscii e corsi a tutta velocità verso le stalle, dove i cavalli erano stati chiusi e nascosti, in modo che non corressero l'apparente pericolo di essere divorati. Apparente, perché niente fermava un orco.
Presi velocemente un cavallo, il primo che trovai, senza curarmi minimamente se fosse il mio o meno. Non c'era abbastanza tempo. Non ce n'era neanche per recuperare parte dei nostri oggetti. Avevo tutto quello che mi serviva: un cavallo, il mio spadone, me stesso. Ma non il principe, e questo mi fece storcere le labbra.
Buttai fuori un respiro, montai sul destriero, lo condussi fuori dalle stalle. Poi, con un colpo di redini, partii a galoppo, svettando fra le case e i viali della città, diretto verso le porte principali che aprivano le cinta murarie. Proseguivo veloce, con il vento che mi sferzava i capelli e la criniera del cavallo, superando strade e case. La città sembrava oramai abbandonata: le abitazioni con le porte ancora spalancate per la fretta con cui la gente era fuggita; bambole di pezza abbandonate a terra, probabilmente di qualche bambina che voleva portarsele dietro ma che per la confusione le aveva smarrite; armi spezzate gettate in una montagnetta nei giardini. Eppure, alcune di quelle case erano state sigillate, chiuse con l'illusione che nulla potesse entrare. Dovevano esserci delle persone all'interno.
Ma non mi fermai certo per preoccuparmene: continuai quel galoppo sfrenato, ben sapendo che il tempo era poco, e che forse non avrei fatto in tempo. Eppure, quando arrivai dinnanzi alle mura, dinnanzi alle massicce porte di legno, chiuse, mi bloccai.
Mi voltai a guardare, in lontananza, la fortezza di pietra, appena rialzata rispetto al resto della città, come un volatile che guarda dall'alto di un trespolo il paesaggio. E così, ripensai ai miei compagni di viaggio. Al piccolo mago con dei poteri pericolosi tanto quanto i miei e uno strano rapporto con la morte. All'irritante erborista con l'espressione tipicamente impassibile su qualsiasi cosa e le parole secche e tanto abili a pungere sul vivo. E poi a lui, al principino viziato e al tempo stesso altruista, ai capelli morbidi, di quel tenue color caramello, e agli occhi lievemente spaventosi, turbinanti come la tempesta, grigi come un temporale. Mi passai una mano sulle labbra, ricordandomi di ciò che avevo fatto, della morbidezza di quel contatto. Sapeva di zucchero.
Strizzai le palpebre, mi costrinsi a guardare le grandi porte. Dovevo andarmene.
Ma non ci riuscivo.
Non potevo lasciarlo da solo a combattere quelle bestie. Io volevo restare. Io volevo combattere al suo fianco, per assicurarmi che sarebbe stato al sicuro. Volevo, per una volta, riuscire a controllarmi, senza causare guai. Volevo che la mia presenza, per quella missione, avesse un senso. Io dovevo proteggere il principe. E lo avrei fatto.
Sull'onda di quel pensiero, ruotai il cavallo verso l'interno della città, alzai il capo in direzione della fortezza. E, sul punto di alzare le braccia per battere le redini sul manto del destriero e partire al galoppo, un frastuono alle mie spalle mi fermò, facendo agitare il cavallo tanto da farlo alzare sulle due zampe posteriori per disarcionarmi. Caddi, per fortuna rotolando sull'acciottolato, evitando così di ferirmi, per poi mettermi rapidamente in piedi.
Il cavallo iniziò a correre furiosamente, sparendo verso una delle vie in fondo alla strada. Ed io lo guardai eclissarsi sotto ai miei occhi, prima che un nuovo boato scuotesse le porte della città, che distavano solo di pochi metri da me. Mi voltai verso di esse, strabuzzando gli occhi. Delle grosse crepe correvano nel legno massiccio delle porte, le travi che sbarravano le porte, pian piano, minacciavano di spezzarsi.
«Per tutti gli dei...» sussurrai, ben sapendo di essere completamente solo, ma lasciandomi andare a quell'imprecazione, prima che un nuovo colpo portentoso mi facesse sobbalzare, indietreggiare, e poi iniziare a correre furiosamente.
Corsi, mentre i miei stivali producevano un costante rumore di cinghie contro l'acciottolato. Lo spadone oscillava sulla mia schiena, rallentandomi, facendomi sentire ad ogni passo più pensante. Ma io ero abituato a cose ben peggior, ad allenamenti sicuramente più duri. Continuai a darmi a quella sorta di fuga fulminea, notando come, passo dopo passo, la fortezza di pietra si avvicinava. Intanto, il tramonto prendeva piede, lasciando che, senza alcuna torcia o candela, la città cadesse nel buio più completo. Ed io avevo il fiatone, la gola iniziava a farmi male per lo sforzo, la schiena inclinata per la pesantezza della mia arma, un rivolo di sudore che mi scendeva dalla fronte, facendo appiccicare una ciocca di capelli sulla pelle.
Finché, finalmente di fronte alle porte della fortezza, non sentii un boato fragoroso provenire minacciosamente dalle mura e capii, senza nascondere una traccia di paura, che erano dentro. Gli orchi erano dentro la città.
Posai i palmi delle mani contro le porte della fortezza, circondate da una barriera trasparente simile ad una bolla di sapone gigantesca, trapassandola ancora una volta senza problemi. Le spalancai con un rumore fragoroso, correndo verso le scale.
«Francis!» gridai. Alcuni cittadini lanciarono esclamazioni spaventate, aspettandosi di vedere, al posto mio, dei mostri orrendi. Ma una voce le sovrastò tutte.
«Sei tornato indietro!» esclamò il principe, la testa alta per guardarmi al di sotto delle scale, le labbra rosee aperte in un enorme sorriso. Gli occhi gli luccicavano, sembrava colto completamente di sorpresa.
«A morire.» risposi, con il fiatone e uno sguardo duro, ma determinato. «A morire al vostro fianco.» continuai, ed estrassi la spada dalla schiena, facendola sibilare. La presi fra entrambi le mani, restando sul pianerottolo delle vecchie scale di legno. Un boato scosse l'intera fortezza, facendo allarmare tutti. Ma io rimasi lì, voltandomi verso le porte dell'edificio. «TENETEVI PRONTI!» urlai, mentre il boato dei passi degli orchi risuonavano fin dentro all'edificio. L'erborista roteò l'ascia che portava fra le mani, il principe estrasse la spada e corse sulle scale, venendo verso di me, i cittadini alzarono le armi, lanciando grida di battaglia.
E, in quel momento, la porta si spalancò.
***
Rhod
Forse ero uno dei pochi pazzi che non erano a ripararsi nella fortezza. Certo, se gli altri matti avevano preso l'inaspettata decisione di barricarsi nelle loro casette piccole e fragili, io invece non avevo avuto altra scelta che posizionarmi sopra un torrione della fortezza. Mi stavo già pentendo amaramente di aver proposto quell'incantesimo. Non sarebbe durato molto, ma almeno avrebbe mascherato un poco l'odore del sangue, così da creare confusione nell'olfatto dei bestioni. Gli orchi non erano intelligenti, certo, ma erano terribilmente spietati e famelici. E quando non si nutrivano da un po', la faccenda si faceva particolarmente sanguinosa.
In realtà, si trattava di guadagnare tempo. Ed io al momento ero già al lavoro: seduto in una posizione d'instabile equilibrio sul tetto della fortezza, le mani congiunte, palmo contro palmo, le gambe incrociate in un incastro perfetto. Avevo imparato la formula a memoria, così come i movimenti delle mani, ma avevo comunque lasciato il libro aperto al mio fianco, nella peggiore delle ipotesi. Tuttavia, le distrazioni non erano ammesse, e girare il volto per leggere era una di queste. Dunque, o ricordavo, o ricordavo. Ma non era un grande problema. Non ero per niente bravo con le persone, ma con gli incantesimi ci sapevo fare.
E così presi un respiro, pronto ad iniziare. Non dovevo creare alcun cerchio, non dovevo accendere nessuna candela. Quella barriera doveva provenire da me e innalzarsi, in un certo senso. Ignorai il fermento che si udiva chiaramente dall'interno della fortezza. Ignorai la vista magnifica del sole che, pian piano, iniziava a ripararsi dietro agli alberi della foresta, quasi impaurito, cedendo il posto alla sera. Aprii un poco le mani, in una coppa, poi chiusi gli occhi. Mi concentrai, rilassando le spalle, con l'intenzione di creare dell'energia all'interno di esse. All'interno delle mani, l'aria si fece densa, tremula, mentre queste venivano percorse da una sorta di formicolio, come se mi si fossero addormentate e poi risvegliate. Un pizzicore, piacevole ma anche un po' doloroso.
E poi la sentii, fremente fra le mani, quell'energia, una sorta di calore morbido e appena palpabile, come l'acqua calda che ti scivola fra le dita. La strinsi, concentrandomi per avvertire meglio la sensazione di calore, e cercai di amplificarla, di ricordare qualcosa di altrettanto caldo. Il calore di un focolare, il calore di una risata amica, il calore delle braccia di André che mi avvolgevano. Avvertii la magia che attraversava il mio corpo: scorreva come acqua, come una cascata che mi bagnava dal capo fino ai piedi, ed io la accoglievo, immaginando che quella sfera di energia si amplificasse. E si amplificasse, e amplificasse.
Aprii gli occhi.
Attorno a me, che circondava l'intera fortezza, c'era una grandissima sfera trasparente, come un'enorme campana di vetro sottile. Ora che ci ero riuscito, la parte più faticosa era mantenere quella barriera e rafforzarla. Ma, a quel punto, avrei dovuto ricorrere a qualcosa dentro di me. Un ricordo piacevole, qualcosa che creasse un equilibrio fra quel potere e il mio corpo umano.
Ricordai delle calde giornate estive nella mia fattoria, di come mi nascondevo nel granaio a provare incantesimi, la luce blu carica di magia scintillava sotto al sole che tramontava. Ricordai il silenzio, e quel profumo delicato di fiori. E quando mio padre, dopo aver frantumato il grano e preso le uova delle nostre galline, creava le brioche allo zenzero, quasi come se fosse una magia, cospargendo tutta la casa di quell'odore per giorni e giorni.
Sentii la magia vibrare dentro di me, pizzicarmi le dita, fremere per aumentare, implodere dentro di me. Ero ubriaco. Ubriaco di incantesimi, di potere e forza. Sentivo le punte dei miei capelli che scoppiettavano. Sentivo quell'energia fra le mie mani che era diventato un qualcosa di solido, che sprizzava scintille.
La barriera divenne visibilmente più spessa, ed io la immaginai dura e coriacea come una pietra, come il ferro forgiato dal miglior fabbro.
Eppure, quando sentii un orribile boato, la mia concentrazione vacillò. Socchiusi gli occhi e, data l'altura su cui era posta la fortezza e la mia posizione favorevole, potei benissimo vedere: le porte che sigillavano le cinta murarie erano saltate via e qualcosa stava facendo capolino da fuori. Distolsi immediatamente lo sguardo. Se fossi rimasto a guardare ancora per un po', l'incantesimo si sarebbe spezzato per la paura. Perciò, fissai gli occhi di fronte a me, verso il cielo che si tingeva dei toni scurissimi del blu, ma in realtà guardavo la barriera, trasparente e completamente invisibile, se non fosse stato per un leggerissimo tremolio che pareva rendere l'aria elettrica.
Non sapevo grazie a cosa riuscissi a continuare quell'incantesimo. In realtà, stavo morendo di paura. Non nel senso che ero molto spaventato, nel senso che se fosse stato possibile morire per il terrore, allora in quanto maledetto sarei stato già stecchito.
Io non avevo mai affrontato un orco, ma ne avevo sentito parlare e avevo letto molto su di loro nei miei libri. Erano altri fra i due e i quattro metri, con una corporatura massiccia, avevano un colorito rosato-giallastro quasi fossero purulenti, gli occhi erano minuscoli e gialli, la bocca piena di zanne ricurve, le braccia decisamente più lunghe delle gambe, e non avevano capelli; si diceva che respirare il loro alito facesse contrarre una brutta forma di malaria e che odiassero mangiare le mani e i piedi delle vittime, per questo le strappavano via prima di divorarli. Ma il dettaglio più raccapricciante era la loro passione per gli occhi: con le dita massicce che si ritrovavano, non potevano semplicemente toglierli via, così ti staccavano la faccia semplicemente con un morso.
E intanto, mentre sentivo la magia solleticarmi i piedi fino a sentirmeli bruciare, mentre i denti iniziavano a battermi per la paura e il sudore colarmi dalla fronte per la fatica, rumori fragorosi di quelli che potevano essere passi enormi, scuotevano le strade, avvicinandosi minacciosamente alla fortezza. Ogni tanto i rumori si facevano ancor più assordanti, e capii che qualche orco doveva aver buttato giù una casa. Rabbrividii: alcuni si erano barricati dentro di esse.
Poi, qualcosa fece tremare il mio corpo dalla testa ai piedi, e sapevo che non ero stato io a farlo. No, uno scossone talmente violento mi aveva sobbalzato così forte da avermi fatto tremare perfino all'interno della barriera. E allora, non riuscii ad impedirmelo ed abbassai gli occhi.
Gli orchi erano peggiori di quanto mi aspettassi. Non erano semplicemente creature. Erano delle cose, delle cose affamate e grosse, di un colore innaturale e rosato che non assomigliava alla pelle, perché quel pallore quasi tendente al grigiastro e al giallo pareva quello di un morto. E avevano occhietti piccoli, di uno giallo lucente che assomigliava a quello dei serpenti, e la bocca piene di zanne enormi come quelle di un coccodrillo.
Ma la cosa più sconvolgente fu il numero. Mi si ghiacciò il sangue nelle vene.
Erano almeno un centinaio. Sarebbe stato impossibile affrontarli. La prospettiva che tutti sarebbero morti e io fossi l'unico sopravvissuto, mi fece rabbrividire.
Come seguendo quello sconcertante pensiero, un pugno enorme batté contro la barriera. E, in quel momento, una minacciosa crepa corse fulminea verso l'alto di quella cupola. Nello stesso istante, fu come se l'elsa di una spada si fosse abbattuta contro la mia tempia. Mi strinsi la testa fra le mani, lanciando un urlo.
Il prezzo da pagare per quell'incantesimo: se colpivano la barriera, colpivano me. Senza che io facessi nulla, quella resistette ad un altro pugno. Poi, fu inevitabile: si frantumò in un milione di pezzi che svanirono semplicemente nell'aria come polline bianca.
Non potei muovere un dito, quando l'orda mostruosa si abbatté contro le porte della fortezza. Feci da spettatore. E, mentre gli orchi partivano all'attacco, la folla nascosta all'interno si rovesciò fuori con la potenza di un'onda in tempesta.
Dopo, non seppi descrivere con lucidità e precisione cosa accadde. Il caos dilagò con una tale velocità da farmi schizzare gli occhi da un cittadino all'altro, da un'arma all'altra. I primi a combattere furono il mercenario e il principe, in testa a tutti quanti, con un tale coraggio che li invidiai. Cyran Rouge non era semplicemente un mercenario. Era un guerriero selvaggio e spietato. Non era veloce, perché l'armatura lo appesantiva parecchio, eppure rotolava fra le gambe degli orchi, schizzava fra l'uno e l'altro falciando loro i fianchi. Ma non si trattava di avversari facili e, non appena incassava un colpo, si rialzava subito.
Al contrario, Francis aveva un modo di combattere completamente diverso. Si vedeva che non aveva mai affrontato delle battaglie, perché non si buttava impetuosamente nella mischia come il corvino. Eppure doveva essere stato addestrato. Era molto veloce, in quanto a schivare e difendersi. Ma appunto, non faceva altro che saltare indietro, parare, evitare colpi potenzialmente mortali. E se riusciva ogni tanto a colpire qualche orco, era per pura fortuna.
Invece, non riuscii a vedere da nessuna parte André, e questo mi provocò un'angoscia tale da farmi attorcigliare le budella. Di solito, non provavo mai quel genere di paura, perché sapevo che se fossi morto, mi sarei risvegliato. Sapevo di non correre alcun pericolo. Eppure, adesso non si trattava di me, ma dell'erborista. Oramai, era inutile negare quanto lo avessi a cuore.
Poi, all'improvviso, il mercenario spedì un orco contro la fortezza, con una tale forza che l'intero edificio tremò, e il mio equilibrio precario andò a farsi benedire. Scivolai, rotolando, finché il mio corpo non sentii solo il vuoto sotto di sé, ed io mi aggrappai fulmineo all'orlo del torrione. Rimasi lì appeso per qualche attimo. Le dita mi facevano talmente male che capii di essermi strappato via le unghie mentre scivolavo, graffiando la pietra per non cadere. Ora le dita sanguinavano.
Intanto qualcuno, più lontano, aveva iniziato ad urlare. Ero troppo debole per volare tranquillamente giù. Ma, probabilmente, sarei riuscito ad attutire la caduta con un po' di magia. Così, senza pensarci due volte, mi lasciai cadere.
Per qualche secondo non feci nulla, sentendo il mio corpo libero da qualsiasi superficie, che semplicemente affondava nell'aria, mentre le orecchie percepivano il boato del vento. Stavo cadendo di schiena, per cui vedevo il cielo che si allontanava. Non potevo osservare gli orchi, ma sentivo i loro terribili ululati sopra il frastuono di qualcosa che crollava, del clangore del ferro e delle urla strazianti.
Prima che fosse troppo tardi, feci combaciare i palmi delle mani con uno schiocco, avvertii quel formicolio fra le dita e rallentai la mia caduta. Poi, la mia schiena toccò fastidiosamente il suolo, mentre le orecchie mi fischiavano, eppure riuscii a rialzarmi, accorgendomi di essere ancora incolume. Per il momento.
Adesso che ero all'altezza degli altri, potei osservare la situazione per com'era davvero. E mi resi conto che era peggiore di quanto potessi immaginare.
Il buio era completamente calato e l'unica fonte di luce era quel pallidissimo filo bianco di luna che tinteggiava la scena. La maggior parte delle case erano crollate. Molti cittadini avevano abbandonato le armi per fuggire. Gli orchi continuavano ad arrivare dalle porte della città. A vederli da così vicino mi resi conto che per loro non andava bene una definizione, un nome, una specie. Erano soltanto cose, affamate, arrabbiate. Uno di loro, di fronte a me, teneva fra le mani un paio di gambe. Il resto del corpo lo stava masticando mentre il sangue colava dalla bocca piena di zanne.
Impallidii, iniziando ad indietreggiare. Poi, mi accorsi di aver calpestato qualcosa. Per un momento credetti si trattasse di una pietra. Invece, era un braccio.
Non riuscii ad impedirmelo: caddi sulle ginocchia e vomitai. Sentendomi la gola bruciare, mi rialzai a fatica ed iniziai a correre. Volevo urlare anche ad altri di fuggire, ma non mi usciva la voce. Nelle vicinanze, due orchi stavano tirando un soldato, uno per le braccia e l'altro per le gambe, con l'intenzione di aprirlo in due. L'uomo gridava come un ossesso, ed io non ci pensai neppure per un momento a salvarlo. Avevo troppa paura. Così tanta che, mentre correvo, le gambe tremavano e mi battevano i denti. E poi, io non ero come il principe, non ero un eroe, e neppure come il mercenario, non avevo tutto quel coraggio. Voltai il capo, continuando a fuggire, sentendomi sul punto di vomitare di nuovo.
Correvo per le strade piene di macerie e di sangue, di orchi e di persone che lottavano per sopravvivere. Volevo trovare André, ma sembrava che più corressi, più di lui non ci fosse traccia. Iniziai a sentirmi arrabbiato e preoccupato, mentre il formicolio della magia tornava a percorrermi le mani.
Sentii delle altre grida. Svoltando un cumulo di macerie, trovai una delle coppie che si erano barricate in casa. Questi, cercando di sfuggire al crollo della loro abitazione, erano rimasti intrappolata al secondo piano. Ora, l'uomo e la donna penzolavano da una finestra che era miracolosamente intatta. L'uomo pareva stesse scivolando, e la donna tentava disperatamente di tirarlo su mentre restava aggrappata.
Rividi il viso dell'erborista, mentre mi salvava da un gruppo di briganti. Anche lui era disperato in quel momento? Strinsi le labbra in una linea sottile, talmente forte da farmi male. Poi, mi avvicinai alla casa mezza distrutta e alzai le braccia verso di loro, prima congiungendo le mani, poi aprendole in un gesto che assomigliava ad un abbraccio.
«Lasciatevi cadere, vi prendo io!» gridai alla coppia, senza capire perché li stessi aiutando.
«Sei impazzito?!» strillò l'uomo. Non avevo tempo di stare a discutere, soprattutto perché sentivo l'ululato degli orchi avvicinarsi. Quindi, avvertendo quel pizzicore nella punta delle dita, li afferrai entrambi con la forza del vento intorno a me, stringendo gli occhi per la fatica, staccando la loro presa dalla finestra. Mentre li stavo calando a terra, sentii passi pesanti venire verso di me.
«Attento!» urlò la donna, spaventata. Era un orco, e galoppava verso di me a tutta velocità: le sue fauci grondavano sangue, le zanne erano affilate come tanti coltelli acuminati. Nelle nostre vicinanze, sembravano tutti troppo occupati a combattere o a morire in modi orribili, per aiutarci. Tenendo ancora a mezz'aria la coppia, indietreggiai con le spalle al muro mezzo intatto della casa. Che ovviamente scelse proprio quel momento per crollare completamente.
Intrecciai le dita l'una all'altra, come se stessi pregando, quando invece stavo ripetendo mentalmente un incantesimo, bloccando per un pelo le macerie prima che ci cadessero addosso, schiacciandoci.
Sorreggendo la coppia e ora il muro sopra di noi, tentavo disperatamente di trovare le energie per fermare in qualche modo l'orco che avanzava contro di me. Ma non ci riuscivo, era troppo faticoso, ed io ero esausto. Sentii qualcosa colarmi dalle narici, e quando mi arrivò alle labbra capii che era sangue. La testa mi scoppiava.
L'orco mi era quasi addosso.
Ripensai al viso di André, agli occhi scintillanti di verde, all'espressione impassibile che si addolciva inaspettatamente. Dovevo provarci. Strinsi i denti e mi sforzai ancora, mentre la testa mi martellava e la vista mi si riempiva di macchie rosse.
Ma l'orco si bloccò inaspettatamente: la punta di un'ascia gli uscì dalla fronte, e quello crollò a faccia in avanti, qualche centimetro accanto a me. Mentre cadeva, qualcuno rimase con le gambe sulle sue spalle, in piedi, con le mani strette al manico dell'ascia. Poi, una volta che la bestia fu a terra, la figura esile rimase in piedi sulla sua schiena, strappando via l'arma con un movimento brutale.
Rimasi a fissarlo senza dire nulla. I capelli biondi erano sciolti e lunghi, scompigliati e chiarissimi, e alla luce della luna i singoli capelli bianchi rilucevano come fili d'argento; sul viso minuscole gocce di sangue erano sparse come tante lentiggini rosse, e l'espressione per una volta non era impassibile. No, gli occhi verdi luccicavano e il volto sembrava semplicemente... libero. Rimase a guardarmi immobile, mentre il sangue mi gocciolava fino al mento e le mie braccia tremavano.
Posai la coppia più in là, per poi fare qualche passo indietro e lasciar cadere il muro addosso al corpo dell'orco. Senza più reggere alcun peso, mi strinsi la testa fra le mani, barcollando, ma prima che potessi cadere, André mi sorresse.
«Rhod...» sussurrò, stringendomi per le spalle. Un coro di ululati, fin troppo vicini, quasi scosse la terra sotto ai nostri piedi. «Andiamo.» mi incitò, mentre mi aiutava a camminare, velocizzando il passo. Si stava dirigendo verso la fortezza, nelle vicinanze di molti cittadini, ma anche molti orchi. «Ti porto al riparo.»disse, con un tono di voce quasi dolce, mentre io barcollavo e mi asciugavo il sangue sulla faccia con il dorso della mano. Superammo velocemente un orco, che era troppo occupato a masticare il corpo di qualcuno per attaccarci, e l'erborista alzò il passo. «Non guardare.» bisbigliò. Ed io fissai gli occhi a terra, pietrificato quasi, muovendomi dolorosamente ed ignorando le urla orribili che ogni tanto si innalzavano.
Eppure, quando giungemmo nei pressi della fortezza, ci bloccammo. Ai nostri piedi, c'erano tanti, troppi corpi smembrati. A qualcuno mancava la testa, altri erano ridotti talmente male da essere praticamente irriconoscibili. Ancora si combatteva, ma era una battaglia a senso unico, era chiaro dalla quantità di sangue, chi fosse il vincitore. Tuttavia, la cosa che mi fece gelare il sangue nelle fu lo spettacolo che mi si parò davanti.
Il principe era riverso a terra, non seppi se svenuto o morto, mentre Cyran Rouge si ergeva dinnanzi a lui facendogli da scudo, quasi con le spalle al muro della fortezza, circondato da sei orchi. Aveva i denti digrignati, gli occhi spalancati come quelli di un folle e continuava a roteare lo spadone per tener lontane le bestie. Ma il cerchio di mostri si restringeva attorno a lui e al principe a terra, e il mercenario si ritrovò ad indietreggiare.
Dopo, iniziò a tremare. Ma non per la paura. Piantò la spada nel terreno, alzò gli occhi completamente rossi, come se sfrigolassero di lava, sugli orchi. Sollevò le braccia, i palmi rivolti verso di loro. Tremava per la rabbia.
Poi, le sue mani presero a brillare di luce, e quando capii cosa stava per fare, mi scostai dalle braccia di André e iniziai a correre verso il mercenario, strabuzzando gli occhi.
«Andate VIA!» gridò lui, in ringhio quasi animalesco e gutturale, primordiale. Disumano.
Ed io corsi in sua direzione, corsi più veloce che potei, ma ero troppo debole, e crollai sulle ginocchia. Allungai un braccio verso di lui.
«NO CYRAN, NO!» urlai, con tutto il fiato che avevo in corpo. Ma dalle sue mani, una luce esplose con la forza di un uragano e fu troppo tardi.
Le fiamme ci avvolsero.
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Un angolo di angolini angolari (?)~
Hola!
Avete visto come ho aggiornato presto? Lo so, mi commuovo anche io ç_ç (vabbe'). Ho scritto questo capitolo con una velocità sorprendente e mi sono divertita anche tanto nel farlo! Probabilmente perché era un po' cruento, e la mia mente sadica ha sghignazzato. Preoccupati per il finale di questo capitolo? Chi legge le mie storie da parecchio tempo mi starà maledicendo c: (sento le maledizioni arrivare prima ancora che le lanciate (?) ). Spero che il capitolo vi sia piaciuto!
Alla prossima ^^
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