11. I pugni sono ammessi?
Cyran
Fasci di luce attraverso un buio inquietante e pecioso, veli trasparenti davanti alla mia vista, una musica d'arpa. Più che provenire dall'esterno sembrava risuonare dentro di me, riecheggiando mille e mille volte. Mi sentivo strano, leggero, incorporeo.
Sbattei le palpebre una decina di volte prima che riuscissi a guardarmi le mani. Le strinsi in un pugno finché non riusci a mettere a fuoco tutto ciò che mi stava attorno. Si trattava di un sentiero che proseguiva dritto, ai quali lati svolazzavano reti da pesca e teloni che conferivano a quel corridoio una forma tutta fluttuante. La melodia d'arpa cambiò e divenne una musica diversa, ritmica, simile a battiti di tamburi che andavano prima lenti, intonando una litania cupa, poi sempre più veloci, con maggior frenesia.
Abbassai lo sguardo sui miei vestiti, senza più avvertire la pesantezza della maglia metallica che portavo di solito o la solidità dei miei stivali dal rinforzo di ferro sulle ginocchia e sulle punte. Indossavo una camicia di un tessuto simile al velo, chiffon, completamente nera, con delle farfalle di un blu luminoso che parevano volare sullo sfondo. Maniche a sbuffo e una fascia di seta nera a mo' di cintura che mi circondava la vita, collegandosi ai pantaloni neri, aderenti alle gambe e stracciati sulle caviglie. Niente scarpe, per cui camminavo scalzo, ma era come se non sentissi la pressione del sentiero sotto le piante dei piedi.
All'improvviso, una eco di urla sovrastò la nenia ritmica dei tamburi, facendomi quasi sobbalzare. Non fu difficile riconoscere un nome, in quell'insieme di voci.
«CYRAN, CYRAN, CYRAN!» Non era un tono accusatorio, ma pieno d'entusiasmo. Sembrava che mi incitassero per qualche ragione.
Una schiera di soldati emerse dai veli che circondavano il sentiero, con le spade che si alzavano ed abbassavano al ritmo delle loro voci. Rimasi fermo, mentre dentro di me si faceva strada subito una punta di circospezione. La mia mano andò dietro alla schiena, verso lo spadone, ma purtroppo mi accorsi che in quel posto ero assolutamente disarmato. Scaltro, questo Somnus.
«Vi stavamo aspettando, nostro valoroso mercenario.» disse qualcuno dalla mischia, ma poi emerse qualcun altro, mentre un cerchio di soldati mi si accalcava intorno e mi accerchiava con fare minaccioso. «Li abbiamo uccisi, sono tutti morti!» un'altra voce, di qualcun altro, da qualche altra parte. «Com'era tuo desiderio, Cyran.» E intanto i cori di voci che intonavano il mio nome proseguivano all'infinito, continuavano, continuavano e continuavano. Sembrava che più io mi guardassi avanti ed indietro, cercando di riconoscere qualche faccia fra i soldati, più quelli si stringessero e divenissero delle forme confuse e sfocate.
«No! Io non l'ho mai voluto, non volevo uccidere nessuno!» mi affrettai a dire, mentre cercavo di rivolgere le mie parole a qualcuno in particolare. Eppure, non appena mi soffermavo su una faccia, quella diventava sfocata, come circondata dalla nebbia. La cosa era disorientante.
«Sei un mercenario, un guerriero spietato. Devi obbedire al tuo potere. Devi uccidere!»
Iniziai a camminare più velocemente, facendomi largo a spallate, e così le ombre attorno a me si diradarono, ma l'eco continuava creando una canzone lugubre di sottofondo.
La luce era spettrale, sembrava che un filo di pallore lunare penetrasse con difficoltà dai veli attorno al sentiero, ammantando tutto di uno strato bianco e polveroso. Continuai a camminare senza peso, quasi galleggiando, finché le voci non si zittirono. Per un attimo ci fu un silenzio assoluto. Poi un solo suono, l'eco di un pianto silenzioso, pervase l'aria. Mi guardai attorno e, ben presto, il sentiero si trasformò in un villaggio desolato, ormai raso al suolo dalle fiamme. Ciò che rimaneva erano fili lenti di fumo e resti carbonizzati di case.
Un gran brutto presentimento iniziò a farsi strada dentro di me, soprattutto quando capii che quella scena mi era in qualche modo familiare. Proseguii in silenzio fra gli scheletri neri di case che, un tempo, erano state divorate dal fuoco.
«Sono qui, Cyran.» Mi voltai verso la voce che mi aveva chiamato. Da un velo emerse la figura di un vecchio uomo, la faccia sporca di nero per il fumo, i vestiti mezzi bruciati. «Non mi riconosci, mercenario?» chiese. Strinsi gli occhi, confuso.
«Chi sei?»
«Questo era il mio villaggio.» Si guardò brevemente intorno con i suoi occhi stanchi, ma colmi di una rabbia ancora viva, come se avesse potuto rivedere mille e mille volte quell'incendio che aveva distrutto tutto, che aveva mietuto le vite di troppi innocenti. Poi ritornò a guardarmi, con ferocia ma anche amarezza, dimostrando che, ormai, non c'era più nulla da fare. «Ora non esiste più. L'hai spazzato via tu. E mi hai ucciso.» Fece una breve pausa. «Non sapevi che avevo un nome?»
«Non sono stato io...» Deglutii, girando il viso verso le macerie. «Non volevo questo.» Mi ignorò.
«Il mio nome era Anchus. E il nome della mia sposa...» Scossi la testa.
«Perdonami, ma non pos-»
«Perdonarti? Non vuoi sapere il suo nome?» Strinse gli occhi con disprezzo. «E così, le tue vittime non avevano mai un volto. Forse questo ti rendeva più facile ucciderle.» Mi guardò con ira. «Senza pietà.» sibilò. Una voce alle mie spalle mi fece voltare.
«Il mio nome è Leporis.» Mi si mise davanti un giovane. Era molto più basso di me, ma nell'espressione rabbiosa aveva un qualcosa di imponente. «Avevo due fratelli. Uno di dodici e uno di sedici anni. Hai ucciso anche loro. Vuoi sapere i loro nomi?»
«No.» Feci un passo indietro, mentre scuotevo la testa. «Tutto questo appartiene al passato.»
«Ximaco e Trefore» E poi una serie di uomini emersero dalle reti da pesca che sembravano ancora circondare quel paesaggio, come una vecchia scenografia che continuava a cambiare ma in fondo restava sempre la stessa. Altri si rialzarono da sotto alle macerie carbonizzate delle case. I volti di alcuni ancora fumavano, e quando aprivano la bocca per parlare, si potevano vedere rivoli di cenere uscire dalle gole.
«Il mio nome è Ikar e mio fratello e io siamo stati i primi a morire. Era Mel.» E poi altri uomini parlarono, le loro voci si sovrapposero, questa volta i loro visi erano ben chiari, mi guardavano con collera mentre ognuno diceva i loro nomi. E più parlavano, più si facevano vicini, mi circondavano di nuovo.
«Fermi, non vi avvicinate.» li misi in guardia, indietreggiando, per poi avanzare quando mi accorgevo che altri mi incalzavano alle spalle.
«Non siamo noi ad intrappolarti. E' il peso della tua coscienza.» disse uno di loro, con le guance talmente ustionate che la pelle era un groviglio di muscoli rossastri. Un altro mi si piazzò accanto, fissandomi con gli occhi vuoti e duri.
«Hai un solo modo per porre fine a tutto questo.» disse, il tono grave e solenne pur essendo avvolto da quella rabbia fredda e dolorosa. Reggeva una spada fra le mani, me la porse. «Uccidici. Tu sai come.» La spinse contro il mio petto, con l'elsa rivolta alle mie mani. «Impugna la spada.» Un coro di voci si alzò, cantilenante.
«Uccidici.» La litania ritornò a troneggiare fra gli anfratti bruciati delle case distrutte. Strizzai gli occhi. «Uccidici. Uccidici.» Presi la spada. Non l'avrei rifatto, anche se si trattava di un sogno. Io non ero così. Non lo ero mai stato, neanche nei miei periodi peggiori. «Uccidici!»
«Somnus!» urlai, alzando la testa verso l'alto, forse verso quell'entità che era al di sopra di tutto. «Non mi costringerai a farlo!»
«Uccidici, uccidici.»
«Se li uccidessi di nuovo, riusciresti a fermarmi!» Strinsi più forte l'elsa della spada. «Stai usando il passato di un uomo che ora è scomparso.» Alzai l'arma verso l'alto. «Un uomo che non esiste più!» E la sbattei al suolo. La spada si infranse in mille pezzi, fragile come se fosse fatta di vetro soffiato.
Le figure degli uomini scomparvero, così come quel paesaggio desolato e arso più che dal fuoco, dai miei incubi. Rimasi solo su quel sentiero illuminato dalla luce lunare. Quindi ripresi il cammino.
***
Dopo parecchi minuti in cui credetti di essermi perso in un limbo senza fine, all'improvviso, vidi una luce dorata al termine del sentiero. Iniziai a correre a tutta velocità, mentre quell'alone dorato si faceva ondeggiante, come l'insieme di tante candele che tremolano al vento.
«Mi sacrificheranno, non mi sacrificheranno, mi sacrificheranno....» Una voce proveniva dal fondo di quella luce. Una voce squillante e allegra, una voce familiare.
«Non vi sacrificheranno, principino.» ribattei, mentre mi fermavo sulla soglia della porta ad osservare la scena. La stanza era completamente rivestita d'oro, e così le luci delle candele ne facevano brillare ogni punto. Fontane di marmo intagliate in teste di leone sputavano sprazzi cristallini di acqua che, una volta che toccava terra, evaporava all'improvviso in un filo di fumo bianco. Al centro della stanza, un grosso letto rivestito di seta accoglieva il corpicino esile e grazioso del principe, che se ne stava mollemente steso con una margherita in mano a strappare petali ed intonare una canzoncina monotona.
Era grazioso, no, era bello, se non di più: i riccioli, volute di morbido caramello, erano intrecciati a fili d'oro che li facevano scintillare più del solito; gli occhi grigi avevano una sfumatura più scura, come l'ardesia, che se fosse stato serio, sarebbero risultati stranamente minacciosi su un volto dolce come il suo. Una veste bianca gli fasciava il corpo e, più che farlo assomigliare ad un agnellino sacrificale, pareva in effetti uno sposo. Non appena si accorse di me, i suoi occhi sembrarono farsi più chiari.
«Cyran!» parlò, balzando giù dal letto per giungere a grandi passi verso di me. E, sebbene non vedessi l'ora di accoglierlo fra le braccia per scoprire quanto potesse essere bello avvolgere il suo corpo contro il mio, quanto potesse essere piacevole fondermi col suo profumo, alzai una mano verso di lui per arrestare il suo arrivo.
«Aspettate!» Sentivo un leggero dolore alla punta delle dita, come se la mia mano desiderasse ardentemente di toccarlo e, non facendolo, si lamentasse. «Non so se posso fidarmi di voi.» dissi. Lui aggrottò le sopracciglia, confuso.
«Non vedo come potrei ingannarti. Sei nel mio sogno, e questo dovrebbe eliminare ogni tuo dubbio!» esclamò, incrociando le braccia sul petto. Ma non era così ovvio. Dopo l'apparizione di quegli uomini, a Somnus bastava schioccare le dita per far apparire ciò che desideravo in quel momento e fermare la mia impresa. Mi sarebbe bastato toccare il principe per dimenticarmi ciò che dovevo fare. La mia mente già aveva imparato a memoria la lentezza con cui l'avrei spogliato, per gustarmi ogni istante.
«Ditemi qualcosa di voi che ancora non so.» spiegai, senza inoltrarmi in quella stanza ma rimanendo sulla soglia. Come se la vicinanza con il rosso avesse il potere di destabilizzare i miei nervi saldi. Mi misi le mani sui fianchi e aspettai. E così lui tornò a sedere sul letto, e un poco mi dispiacque perché speravo ancora che si gettasse fra le mie braccia.
«Mi stai mettendo alla prova?»
«Somnus conosce i segreti della mia mente. Ditemi qualcosa di voi che non so.» ripetei, perentorio, il tono serio che traspariva dalla mia voce. E così lui annuì, facendo oscillare graziosamente i riccioli rossi.
«Lasciami pensare...» mormorò, mentre andava a mordicchiarsi il labbro inferiore in un gesto spontaneo, ma che in me suscitò l'enorme voglia di leccargli le labbra, di baciarle. Rimasi fermo. «Questo lo sa solo chi è entrato nei miei appartamenti al castello.» Si scostò una ciocca di capelli rossi dagli occhi. Ogni suo gesto era naturale, eppure ammantato di un'eleganza, di una classe che raramente è presente in una persona ma è più normale vederla in un cigno, in una creaturina indifesa e graziosa. «Colleziono barattoli pieni di acqua piovana.»
«Che?» Come si collezionavano barattoli di acqua piovana? C'era una differenza fra l'uno e l'altro? Inevitabilmente, scoppiai in una fragorosa risata.
«E smettila di ridere!» Gonfiò le guance. «Piuttosto, mettiti qualcosa addosso!» Solo con quelle parole mi accorsi di essere a torso nudo. Forse non lo avevo capito prima perché ero troppo impegnato a guardare lui.
«Sì, siete indubbiamente voi.» Annuii con un cenno del capo, senza riuscire a nascondere il ghigno che mi stava nascendo sulle labbra. Superai la soglia della stanza e mi sedetti sul letto, accanto a lui, sfiorando con la mano il drappeggio della veste bianca che indossava. «E comunque, che carino...» Il mio ghigno si ampliò, mentre mi azzardai a sfiorargli un lato della guancia con la punta delle dita. Quando lo feci, smisero di dolermi. «Sognarmi a torso nudo. A quanto pare il mio viaggio onirico e il vostro sogno da piccolo pervertito si sono sovrapposti.» gongolai.
«Com'è che mi hai chiamato?!» esclamò, mentre mi godevo il rosso che gli affiorava sulle guance. Era davvero divertente punzecchiarlo, così come rendermi conto di che effetto gli facevo. Sapevo di non essere indifferente alla maggior parte delle donne e di diversi uomini, ma questo non significava che dessi per scontato di piacergli. Anzi, il fatto che si impuntasse per fingere che io non lo attraessi rendeva le cose molto più divertenti. Ma poi mi ricordai della situazione in cui eravamo, mi ricordai che volevano costringere lui a macchiarsi le mani di sangue e ad uccidere, in modo da farlo fuori, e ritornai serio. «Che cos'hai?» chiese, notando la mia espressione turbata.
«Ascoltatemi, principe, vogliono che voi uccidiate e dovrete opporvi con tutte le vostre forze.» lo avvisai, allontanando la mia mano dal suo viso controvoglia.
«Credevo volessero darmi in sposo a Somnus.» bisbigliò, strabuzzando gli occhi. Non sembrava lo dicesse a me, più a se stesso.
«Somnus vuole che voi perdiate la vostra innocenza, per essere immolato come sacrificio in suo onore.» spiegai.
«Ho già superato una delle sue prove.» Si fermò per prendere un respiro, come se dovesse dire qualcosa di sgradevole. «I miei avversari erano due, li ho fatti uccidere a vicenda.» Si mordicchiò un labbro, mal celando un'espressione preoccupata. «E' stato un errore?»
«Non credo, altrimenti vi avrebbero già sacrificato.» replicai, scuotendo la testa. Allora lui balzò all'improvviso giù dal letto. Un vero peccato. Nelle mie fantasie l'avevo già scaraventato sul materasso.
«Ho capito!» Mi si mise di fronte, alzando un indice. «La prima regola è: non uccidere!» Sembrò soddisfatto dalla sua brillante deduzione. «Mi rimane un'altra possibilità...» Guardò un attimo per aria, come se stesse arrivando ad escogitare un meraviglioso piano. Poi inclinò la testa e inarcò le sopracciglia. «Qual è?!»
«Ho bisogno di tempo. Usate quello che conoscete per difendervi. Il mio viaggio nel mondo dei sogni sta per finire, arriverò da voi.» esclamai, alzandomi in piedi anche io. Forse per avvicinarmi di nuovo a lui, forse perché era ora di andare.
«Come farò a sopravvivere prima del tuo arrivo?!» domandò, il tono implorante che mi fece venire un'incredibile rabbia. Non potevo intervenire finché non arrivavo da lui. Ero intrappolato nel limbo in cui Somnus schierava contro di me vecchi ricordi, vecchie ferite ancora aperte, e finché non superavo ogni ostacolo ero impotente. Poi vidi la sua espressione confusa.
«Cosa c'è?» chiesi. Ma, prima ancora che parlasse, lo notai: stava svanendo. Un po' come un fantasma, piano piano diventava trasparente.
«Non lo so, mi sento strano...» Riuscii rapidamente a vedere attraverso il suo corpo la parete alle sue spalle. Dovevo trovare un modo per farlo sopravvivere fino al mio arrivo, un modo che non lo spingesse ad impugnare la spada. Ma si stava svegliando, e io dovevo fare in fretta.
«Parlare!» mi affrettai a dire. «E' quello che sapete fare meglio!» Allungai un braccio verso di lui, cercai di afferrarlo, trattenerlo. Ma la mia mano gli passò attraverso e affondò nell'aria. «Usate la vostra mente!» dissi, e lui scomparve.
***
Avevo perso l'orientamento o la cognizione del tempo, o forse entrambe. Perché dopo aver vagato senza meta in mezzo a quel sentiero lugubre, dopo aver svettato fra corridoi dove veleggiavano reti da pesca e teli viola e azzurri, non riuscivo più a capire dov'ero. Da un cammino si tramutò in una corsa, finché quasi non mi scontrai con una figura dalla stazza enorme, robusta e forse persino più alta di me.
«Sei sorpreso di vedermi?» chiese. Feci un passo indietro e osservai in faccia l'uomo. Gli occhi verdi, il volto rozzo e sgraziato, le armi che pendevano dai fianchi. Lo riconobbi e rimasi a bocca aperta, mentre gli occhi andarono a chiudersi in due fessure. Ma poi quell'espressione colma di stupore si tramutò in un ghigno.
«No, affatto. Non c'è nulla che possa sorprendermi ormai.» Rumori di svariati passi alle mie spalle mi fecero voltare. C'erano alcuni ragazzini su una decina d'anni, forse di meno. Quello al centro portava delle bende attorno alle mani.
«E noi?» disse il ragazzino al centro, la faccia arrabbiata mentre stringeva a pugno le mani fasciate. Questa volta ero davvero sorpreso.
«Drabel?!» esclamai.
«Ero certo non ti saresti scordato della prima vittima!» Si fece più vicini di diversi passi, con tutta la banda che lo circondava a mo' di falange oplitica. Uno dei tanti schemi difensivi che avevo imparato nell'esercito, per intenderci. «Io sono stato il primo di molti a cui hai fatto del male, non è vero?» Abbassò gli occhi sulle mani fasciate ed iniziò a togliere le bende, srotolandole via dalla pelle. «Guarda.» alzò le mani, ora libere da qualsiasi copertura. «Ho ancora la prova dei tuoi diabolici poteri.» disse, piantando i suoi piccoli occhi nei miei, il furore che risultava piuttosto evidente. E, nonostante fosse solo un bambino, sembrava quasi in grado di sovrastarmi, con tutta la sua ira stampata negli occhi.
«Stavi picchiando qualcuno più piccolo di te. L'avresti ammazzato. E quando mi sono messo in mezzo hai risposto con la stessa rabbia. Non ho avuto scelta.» Avevo ragione. Eppure, nulla giustificava ciò che avevo fatto io. Era stato almeno un decennio prima, probabilmente di più, ma non avrei dimenticato quel giorno.
«Il tuo cuore era puro allora. Come quello del principe.» iniziò, ed io in quel momento mi ricordai che non erano le persone che avevo conosciuto una volta. Erano burattini presi dalla mia memoria e manovrati a piacimento da Somnus. «Ma presto lui diventerà come te.» Sorrise.
«Sentirà il sapore del sangue!» parlò allora l'uomo alle mie spalle, quello stesso uomo che avevo incontrato in terre passate. «E allora verrà perseguitato dai demoni della vendetta. E avrà una prima vittima da ricordare.»
«Come me.» parlò il bambino.
«Il suo spirito sarà perseguitato dal rimorso. Gli urli laceranti delle vittime lo stordiranno.» proseguì l'altro.
«No.» sibilai.
«E non c'è niente che tu possa fare per salvarlo. Ti stanno trovando. Il tuo corpo morirà.» Il bambino sorrise. «E anche tu.»
«Io riuscirò a fermarvi.» dissi, ferreo. L'uomo sorrise, sprezzante.
«E in che modo?» chiese. Ma allora fu il mio turno di sorridere.
«Voi vivete solo nella mia mente. Ed io vi sconfiggerò.» dissi. Le mie parole risultavano ferree, il mio tono deciso. Quasi non mi riconoscevo. Io, che per sfuggire dai miei ricordi mi rifugiavo nel piacere dell'alcol e del sesso e ora, sempre io cercavo di combattere i miei ricordi. Strinsi i pugni tanto forte da farmi sbiancare le nocche, poi chiusi gli occhi.
E ripensai a tutto quello che avevo fatto, ripensai al mio luogo d'origine. Ripensai a come ero arrivato nel regno di Akra, a quanto tutto mi fosse apparso così strano e pacifico, così diverso. Mi sorpresi nel pensare alla bellezza di quella libertà e al dolore che avevo provato quando avevo rovinato tutto. Poi mi ricordai della seconda possibilità che avevo, mi ricordai del mago e dell'erborista che si stavano impegnando a tenermi vivo. Mi ricordai del principe, del suo sorriso sereno e composto nella sua reale educazione, mi ricordai che dovevo salvarlo.
E quando riaprii gli occhi non c'era più nessuno.
Ricominciai a correre, fulmineo, senza curarmi di ciò che mi circondava, della sensazione dei piedi che quasi fluttuavano a contatto col terreno, o dei veli che ondeggiavano davanti alla mia vista. Corsi, perché in qualche modo mi sentivo più debole, come se il tempo... fosse agli sgoccioli. Mi fermai solo quando intravidi un grandissimo portone di legno, contornato da colonne dorate.
Quando provai ad aprire, mi resi conto che non c'era alcuna maniglia. La porta non si muoveva neanche. Iniziai a sbattere i pugni, a scagliarmi a tutta forza contro quel portone, sperando che si aprisse. Sentivo dentro di me un senso d'urgenza, di pericolo, salirmi dentro; sentivo di dover aprire quella porta a tutti i costi. Ma non ci riuscivo.
«Resisti Francis.» sibilai, mentre sbattevo colpi. Neanche mi accorsi di averlo chiamato per nome, perché ero troppo impegnato a prendermela contro la superficie lignea del portone. «Ti raggiungo!» Ma una risata maschile mi colse alla sprovvista. Mi voltai verso la voce, quasi pensai che fosse un'altra riproduzione della mia mente, un'altra ombra presa dalla mia memoria. Ma i miei occhi tratteggiarono una figura familiare: altezza che rasentava i due metri, spalle larghe, capelli scompigliati. Eppure il buio mi impediva di vedere.
«No Cyran, non puoi andartene ancora.» disse quella sagoma nera, parlando con un tono di voce sprezzante, ironico, già sentito. «Devi superare la prova finale.» Mi avvicinai a lui, i passi silenziosi e cauti, gli occhi assottigliati in una linea mentre cercavano di riconoscere quella persona tanto familiare. Dentro di me, avevo già capito chi avevo di fronte. Ma era troppo sconvolgente da credere, perciò continuai ad avvicinarmi, seppur mantenendo una distanza di sicurezza.
«Dimmi chi sei.»
«Oh, mi conosci bene.» iniziò a camminare verso di me, in circolo, ed io lo seguii a ruota, camminandogli lontano per tenere le distanza. «Mi conosci meglio di qualsiasi avversario tu abbia mai affrontato. Sei giunto alla fine del viaggio.» E ogni passo che faceva, la sua voce mi sembrava sempre più riconoscibile.«Ma la tua mente non potrà fermarmi.» E questa volta, invece che camminare in circolo, mi venne incontro, mostrandosi sotto a quel pallore lunare che gli illuminò il viso. Aveva la mia stessa altezza, la mia stessa capigliatura corvina e pazzoide, la mia stessa cicatrice verticale sul labbro destro. Ma i suoi occhi erano neri, completamente neri. Disumani. «Perché io sono te.»
Alzò la mano verso il mio viso e mi diede un colpetto alla guancia, quasi con fare amichevole, come se si stesse rimirando allo specchio, ed io mi allontanai prontamente, mentre deglutivo. «Non puoi oltrepassare la porta senza avere la chiave. E non puoi vivere continuando a negare che sono io il vero Cyran.» I suoi occhi neri vorticavano oscuri, come un pozzo senza fondo. Non si riusciva a capire la differenza fra pupilla, iride e sclera. Il suo sguardo era completamente, orribilmente fatto di tenebre. «Siamo stati bene insieme per tanto tempo. Incutendo paura a tutti, superando ogni ostacolo e prendendo tutto ciò che volevamo.» Mi mise una mano sulla spalla, mentre la bocca era aperta in un ghigno malvagio. E, lì dove la sua pelle combaciava con la mia, sentii una sensazione bruciante, orribile. Ma sapevo che questo non era possibile, perché io non bruciavo. Eppure, quando tolse la mano, la bruciatura era lì, rossa e fumante sulla mia carne. «Quelli sì che erano bei tempi.»
«Quello non sono io.» Digrignai i denti. «Quello non è mai stato il vero me. Non voglio io questo potere, non l'ho chiesto io!»
«Ne sei certo? Eppure sei sempre così trionfante quando lo usi...» Iniziò a girarmi attorno, sembrava sempre più simile ad un serpente che circonda il topolino. «Credi di essere migliore di quello che eri una volta?» Scrollò le spalle. «Non è cambiato molto. Continui ad usare il tuo potere, continui ad usarmi.» Si fermò, guardò la porta, poi girò il viso verso di me, mettendo in mostra i denti con un grande sorriso. «Non sei niente senza di me.» Si fece più vicino di un passo ancora. Allungò una mano, il palmo aperto verso «Unisciti a me.» mi invitò. Serrai le labbra in una linea sottile.
«Durante questo viaggio nel sogno, ho incontrato persone a cui ho fatto del male, o che ho ucciso in passato. E non ho trovato il coraggio di far loro del male di nuovo.» Presi un grosso respiro. «Ma ora che sei qui davanti a me, so che questo può significare una cosa sola.»
«Sto aspettando, dimmelo.» La mia immagine inquietante sorrise.
«Significa che finalmente dovrò uccidere te.» E mi scagliai contro di lui.
Subito mi scagliò contro l'altra parte di quella sorta di caverna, la mia testa sbatté contro le rocce. La mia vista si offuscò, ma poi mi rilanciai contro la sua figura, questa volta con un calcio nello stomaco che fece arretrare il mio sosia. Con un verso sibilante, tentò di rifilarmi un gancio allo zigomo, ma reclinai la testa all'indietro e colpì solo l'aria. Ma poi un destro mi prese in pieno viso e, approfittando della botta, riuscì a strattonarmi per un braccio fino a lanciarmi verso una colonna, contro cui andai a sbattere con un tonfo tremendo.
«No no, fratello, non puoi andartene ancora.» disse, sorridendo, mentre mi afferrava per una spalla con quelle mani brucianti e mi schiacciava contro la colonna. Aveva la mia stessa forza, la mia stessa agilità. Conosceva ogni mia mossa e contromossa. Mi accarezzò una guancia. «Devi prima trovare la chiave.» E quella carezza si tramutò in un pugno che mi fece vedere tutto a puntini bianchi e neri. «Non temi il nemico perché sei sicuro del tuo coraggio.» Allungò le braccia verso di me, come se avesse voluto abbracciarmi. «Grazie a me!» Ma mi afferrò e mi sbatté nuovamente contro la colonna, facendo cozzare la mia testa dolorosamente contro la pietra. Strinsi i denti. «Tu sei una mia creatura, ricordatelo. Tutte le nobili qualità che ti hanno permesso di diventare un soldato... sono mie! La forza del tuo potere che ti rende così temibile e così speciale, anche questo lo devi a me!» E mi rifilò una portentosa ginocchiata nello stomaco che mi fece piegare a terra, accasciandomi ginocchia sul pavimento. Mi guardò con un misto di derisione e divertimento, per poi alzare le spalle. «Tu non sei niente.»
«Quello che dici è vero.» Iniziai, alzando il viso verso di lui. Quel lui che era me, la mia parte cattiva, il mio potere. «Senza di te non esisterei.» Quell'essenza bruciante, la mia anima forgiata nel fuoco. «Ora ne sono certo, tu sei la chiave.» continuai. La chiave della mia esistenza. Ma poi spalancai gli occhi, rendendomi conto di ciò che avevo detto. «Tu sei la chiave!» Mi alzai in piedi, stringendo gli occhi, sentendomi all'improvviso più forte. «C'è solo un modo per varcare quella porta.» E il mio sosia iniziò ad indietreggiare, mentre io sorridevo. «Ucciderti.» Mi avvicinai a lui, ampliando il mio sorriso. «Non hai più nessun potere su di me. Io decido come usarti.» Con quelle parole, lo afferrai per un braccio e, con una forza che non credevo neanche di possedere, lo lanciai malamente verso il portone, che si infranse in mille pezzi, come se fosse stato fatto di vetro, mentre lui svaniva in una nuvola di fumo.
Oltrepassai con un balzo la porta e, finalmente, tutto cambiò. Ero corporeo, ero fatto di carne e di sangue, ero vestito con la mia solita armatura logora e consumata, il mio spadone se ne stava sulla schiena. E lo scenario che mi si parò davanti mi rassicurò.
Un tempio grande, illuminato da una miriade di candele, abitato da fedeli con cappucci e tuniche blu. Una sottospecie di gabbia rettangolare, una guardia con il brutto copricapo piano di corna che brandiva una spada e poi, Lui. Anche il principe teneva l'arma in mano, ma non l'aveva usata.
E lui era fantastico, mentre sollevava il capo e mi guardava, con gli occhi grigi come un temporale ma luminosi come il sole, mentre luccicavano di lacrime di gioia.
«Cyran!» Mentre lo diceva, la guardia gli piombò addosso. Non fece neanche in tempo a colpirlo con la spada che io l'avevo già raggiunto. Un colpo con il filo tagliente della lama sul suo fianco, che lui si accasciò a terra.
«Uccidetelo!» gridò un uomo dalla pelle scura, dall'alto di una specie di altare. Doveva essere qualcuno di importante, più degli altri fedeli. «Uccidete tutti e due!»
Arrivarono guardie a frotte, ma io ero pronto ad accoglierle, mentre con un sorriso di trionfo facevo roteare la spada. Un colpo, due colpi, tre colpi. Calci rotanti e pugni volanti, il mio senso di trionfo per essere riuscito a sconfiggere me stesso, il mio sollievo per aver fatto in tempo. E poi era già tutto finito, con i corpi delle guardie che mi circondavano a terra e i loro copricapi dotati di corna che stridevano sul pavimento. Li avrei bruciati molto volentieri, comunque.
«Ero certo che saresti venuto!» Il principe mi corse incontro. «Sapevo che non mi avresti abbandonato!» continuò, ma l'uomo dalla pelle scura venne verso di noi ed io misi una mano sulla spalla del rosso per fargli capire di mantenere la calma.
«Avete osato sfidare il figlio del dio del sonno. Somnus si vendicherà. Credete che vi lascerà uscire da qui?» disse, il tono freddo e composto, duro, lo sguardo affilato, come se non temesse la mia spada ma sapesse benissimo di essere protetto dalla grazia divina. Misi mano all'arma, ma non feci in tempo che Francis gli si scagliò contro.
«Ah!» lanciò un grido battagliero e gli piantò un destro sulla faccia tanto forte che lo mandò al tappeto. Subito dopo brontolò, sventolando la mano per il dolore. Poi mi guardò con le sopracciglia aggrottate in segno di preoccupazione. «I pugni sono ammessi?» chiese. Mi ritrovai a piegare le labbra in un ghigno, al limite della risata.
«Oh, state imparando in fretta.» risposi, mentre gli facevo l'occhiolino e lui si massaggiava con un sorrisetto di trionfo le nocche. Poi gli misi un braccio sulle spalle. «Ora torniamo dagli altri. Saranno preoccupati per voi.» E ci recammo verso l'uscita, sorridenti, vittoriosi.
Perché ancora non sapevamo quello che ci aspettava.
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