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18. Scambi inopportuni


Francis



Ancor prima di aprire gli occhi, capii che c'era qualcosa che non andava. Un dolore sottile, come la sabbia ruvida che ti graffia la pelle, mi corrodeva l'epidermide. Non faceva molto freddo, anzi, l'arrivo dell'estate rendeva l'aria satura di calore e umidità. Eppure, il vento mi solleticava la nuca come dita gelide ed artigliate, lasciandomi una sgradevole percezione del gelo.

Il corpo era scosso da lenti e al tempo stesso convulsi tremori, il fiato pesante come se avessi corso chissà per quanti metri, lo stomaco attorcigliato in una morsa di nausea. Aprii gli occhi, tossendo, come se non riuscissi a sopportare il dolore graffiante sul fondo della gola. Sfarfallai le ciglia più volte, mentre ancora steso lungo la stuoia invasa dal terriccio, volgevo lo sguardo al cielo e mi accorgevo che la vista era macchiata da piccole, minuscole chiazze rosse, come se mi fossero scoppiati dei capillari per uno sforzo eccessivo.

Mi tirai velocemente a sedere, movimento seguito da un imprevedibile giramento di testa. Cosa mi stava succedendo? Forse avevo ingerito un qualche tipo di veleno, un'erba tossica che mi stava facendo sentire terribilmente male. Sull'onda di quel pensiero, mi scostai dalla spalla i lunghi capelli biondi.

Lunghi capelli biondi?

Fu allora che iniziai a guardarmi intorno e un urlo mi morì in gola, quando mi accorsi che un paio di occhi grigi, che avevo visto soltanto di fronte ad uno specchio, mi stavano fissando con uno sguardo agghiacciato. Saltai in piedi così velocemente che un capogiro mi colse all'improvviso, la scarpa scivolò contro la stoffa della stuoia e caddi a terra, a gambe all'aria, con un tonfo sordo che fece gemere dal fastidio chi ancora stava dormendo.

«Tu...» Alzai un dito tremante e troppo lungo per far parte della mia mano, verso la persona che stava seduta di fronte a me, con soltanto la catasta di legna a dividerci. Una specie di singulto strozzato si spezzò a metà della gola prima che lasciassi andare il resto della frase. «... Sei me.»

Dovevo essere il protagonista di un sogno particolarmente folle, perché non era possibile che quel ragazzo dai capelli fulvi e riccioluti come il disco rosso del sole in procinto di tramontare, fossi proprio io. Potevo solo sperare che fosse qualcuno che mi somigliava in modo impressionante. O qualche altro fanatico che, dopo la banda degli abitanti col cattivo gusto per i cappelli rossi e quella dei Mistici con qualche dio folle da seguire, avevano deciso di prendersi gioco del povero principe.

Tuttavia, sapevo che non era così, pur cercando di convincermi del contrario. Perché, ne ero certo, non avevo mai avuto lunghi capelli biondi, non avevo mai avuto le gambe così lunghe o i piedi così grandi. E non mi ero mai sentito, in tutta la mia vita, così male.

Nemmeno quando, in quell'insolito giorno di sole troppo forte – perché nel regno di Gilerines pioveva sempre – mi ero preso un'insolazione così potente che la principessa era rimasta tutto il pomeriggio accanto al mio giaciglio di cuscini di seta a tamponarmi la fronte bollente con il suo personale fazzolettino bagnato.

Mi rimisi a fatica in piedi e mi sembrò di guardare il mondo dall'alto di una sedia, mentre continuavo a fissare la persona di fronte a me con aria circospetta, come se mi aspettassi di vederla trasformarsi in un mostro enorme e pieno di zanne da un momento all'altro. Ne avevo abbastanza di mostri pieni di zanne, dopo gli orchi nel regno di Kijani.

«E tu sei me, principe Levou.» disse, con quella voce delicata e appena più acuta di quanto mi immaginassi. Davvero la mia voce era così, sentita dagli altri? Per la prima volta nella mia vita, avevo la possibilità di guardarmi dall'esterno. E mi resi conto che ciò che vedevo non era ciò che mi aspettavo: i miei occhi, grigi come un temporale, sembravano più severi di quanto immaginassi; le mie labbra erano più carnose e rosate di quanto io avessi mai fatto caso, e i capelli... Pensavo che averli pettinati ogni giorno bastasse per domare quella criniera riccioluta degna di qualsiasi leone. Evidentemente non era così. Ora capivo perché ai miei occhi le mie due sorelline parevano sempre spettinate. Dovevo dare agli altri la stessa impressione.

Quando realizzai con estrema sicurezza che io non era più io, e che quella persona era me... Fui seriamente indeciso se avere un infarto o accasciarmi nuovamente al suolo come una bambola brutta buttata in un angolo a fare la muffa. Eppure, presi a respirare più velocemente, schiudendo le labbra in un'espressione palesemente sgomenta, scioccata.

«Per tutti gli dei del cielo e della terra e del mare...» E se io invocavo così tanti dei in una sola frase, c'era davvero da preoccuparsi. Ma al momento ero troppo occupato ad angosciarmi di fronte all'immagine di me stesso per abbandonarmi a tali pensieri. Al contempo mi fissai le mani, nel tentativo di capacitarmi dell'assurda scoperta e, all'improvviso, mi accorsi di un dettaglio sconcertante. «DEI! Non ho un dito! Non ho un dito!» Alla fine, mettermi a sedere per la terza volta mi fu inevitabile.

«Ma che diavolacci...» La coperta che avvolgeva il mago si smosse, nell'istante in cui lui decise di bestemmiare in quel modo, lasciandomi doppiamente sconvolto. Si alzò con una faccia seccata che non gli avevo mai visto prima. «Ma si può sapere che cavolo hai da urlare, fioraio?!»Mi squadrò dalla testa ai piedi, scuotendo la testa in modo da far oscillare le treccine castane ai lati delle tempie. Poi, però, come se avesse appena fatto una scoperta troppo interessante nel suo libro di incantesimi, iniziò a sogghignare in un modo a me molto familiare. Ma che non c'entrava niente col mago. «Oh-oh, ma tu guarda, allora sei in grado di urlare come una femminuccia anche tu, eh?»

«Io non sono una femminuccia!» puntualizzai, lanciandogli uno sguardo truce. Ma anche il mio disappunto scomparve, troppo incredulo nel sentire la mia voce così... Poco mia. Faceva quasi impressione ad ascoltarmi. E faceva impressione vedere il mago così disinvolto e beffardo, come mai lo sarebbe stato. Da quando diceva frasi in modo così fluente? Da quando imprecava insultando gli dei? Da quando ghignava in quella maniera? Poteva significare soltanto una cosa.

Ma speravo che non fosse così. Speravo seriamente di sbagliarmi.

Perciò mi catapultai come un sassolino lanciato da un'infallibile fionda in direzione del mercenario, ignorando il capogiro in risposta al mio movimento improvviso e rapido, scuotendo per le spalle il corvino, che in risposta bofonchiò qualcosa a bassa voce, che assomigliava tanto a "ancora cinque minuti di pace". Forse era ancora lui. Poi però, quando si voltò a guardarmi, mi dovetti sorprendere nel vedere le sue guance imporporarsi leggermente di rosso.

«A-André...?» Strabuzzai gli occhi. Il mercenario che arrossiva e balbettava era un avvenimento perfino più agghiacciante del guardare negli occhi me stesso. Al contempo, lo scalpiccio leggero di passi alle mie spalle mi fece intuire che il mio vero io si stava avvicinando. Il tipo con la mia faccia si chinò al mio fianco, con l'espressione piatta ed atona che mi rendeva davvero spaventoso, se accostato al colore severo delle mie iridi grigie, dello stesso colore del ferro.

Allo stesso tempo, quello con la faccia di Cyran si raddrizzò sulla stuoia, si strofinò gli occhi con un gesto che avrei osato definire tenero se solo non avesse avuto quella solita faccia da schiaffi e da beffardo Lancillotto abbronzato, e poi si toccò la gola, perplesso. «André... Pe-perché... Fai quella fa-faccia?» Il capo si sollevò verso di me, le sopracciglia si aggrottarono assumendo un'aria smarrita, ed io fui sul punto di scoppiare a ridere, o sbattermi una mano sul viso. Se solo non fosse stato così poco di classe l'avrei fatto. «P-p-perché... Ho... Que-questa voce?» continuò. E se all'inizio ero troppo sconvolto e ammutolito per accorgermi del cambiamento nella mia parlata, lui doveva aver colto immediatamente il cambiamento. Era intelligente, il mago.

Perché si trattava chiaramente di lui.

«Rhod. Io sono...» La mia voce prese parola, ma non ebbe il tempo di concludere la frase perché il corpo del mago lo interruppe bruscamente.

«Ma non potete tornarvene a dormire?!» Si sollevò di scatto, guardandoci sollevando un sopracciglio, incrociando le braccia. «No, dovete per forza svegliare di prima mattina, eh?» Il tempo di gettarci un'occhiata arrabbiata, in un misto fra la seccatura e il canzonatorio, prima di rendersi conto di quella situazione al limite dell'assurdo. Ma forse il limite lo avevamo superato sin dal nostro primo incontro. Sin da quando avevamo detto addio al castello reale di Akra.

Con un lungo sospiro, seguii la traiettoria dello sguardo del mago: stava chiaramente fissando il mercenario, con un sopracciglio alzato. Nessuno osò dire nulla per un lungo, lunghissimo minuto. Poi, il piccolo moro ritornò a stendersi sulla stuoia rigettandosi le coperte sulle spalle. «Sì, sì, niente più leprotti a cena.» bofonchiò, in un borbottio convinto. Avrei voluto credere anche io che fosse stata tutta colpa di qualche bizzarra indigestione. Ma, ahimé, era tutto troppo vero per cascarci.

Per ancora un singolo minuto, io, principe Francis Levou di Gilerines, assieme all'erborista e al mago, rimanemmo immobili senza dire niente. C'erano state cose strane, nel nostro viaggio. C'erano stati rituali pericolosi, ed alcuni del tutti innocui. C'erano state battaglie all'ultimo sangue e mostri marini nascosti nei laghi. C'erano stati fuochi e fiamme. E poi c'erano stati baci: ogni volta che ripensavo al bacio avvenuto quel giorno, durante lo scontro con gli orchi, mi veniva in mente la disperazione con cui Cyran aveva tentato di convincermi ad andare con lui. La rabbia miscelata al sentimento mentre s'arpionava alle mie braccia, convinto di dirmi addio. E poi dopo, un secondo bacio colmo di mestizia, mitigato dalle nostre rivelazioni e dalla pioggia di cenere che scendeva dal cielo quasi avesse deciso di nevicare in primavera. Il mio cuore si sentiva così, turbato come la primavera che all'improvviso cede alla neve.

Non ne avevamo riparlato. Erano passati cinque giorni e non c'era stato un secondo bacio, benché gli avessi guardato le labbra forse una volta di troppo, con un certo impacciato imbarazzo. E lui non aveva colto qualche strana occasione durante la caccia, anche se le nostre spalle, le nostre mani, le nostre dita si sfioravano casualmente di continuo.

Quando un nuovo capogiro mi costrinse a prendere un lungo respiro, tornai alla realtà, socchiudendo gli occhi e facendo ricorso a tutto il mio autocontrollo. Benché avessi soltanto una gran voglia di urlare. Volevo riavere il mio corpo. Volevo anche la mia voce, i miei vestiti, la mia buona salute, la mia faccia.

«Non è un sogno... Vero?» Mi guardai in faccia sperando che il mio vero io dicesse "Tranquillo Francis, torna a dormire, quando ti sveglierai tornerai ad avere i capelli rossi, il mago tornerà ad essere il solito timido e il mercenario non arrossirà più." Invece, quel rosso, che certamente non ero io, mi guardò in faccia senza fare una piega, come pronto ad annunciare mal tempo nella giornata di domani.

«No.» rispose, monocorde.

Mi lasciai sprofondare nel più grande sconforto e mi coprii la faccia fra le mani, inquietandomi nel sentire il dito mozzo premere contro la mia guancia. Cercai di convincermi a non fissarlo ancora. Poi, però, dovetti lasciarle ricadere in grembo, con i palmi premuto vicino alle ginocchia e gli occhi, adesso verdi, che si perdevano per qualche istante verso il cielo. Giusto per quel paio di secondi che mi occorrevano per fare il punto della situazione, per cercare un briciolo di pazienza che, probabilmente, avrei dovuto perdere tanto tempo fa.

Infine, mi voltai a guardare me stesso. Mi fissava, con gli occhi grigi e grandi, impassibili e a dirla tutta anche un po' spettrali, se non la smetteva di scrutarmi dritto, con quella faccia completamente priva di espressione.

«E quindi... Tu sei André Sion.» Uno sguardo a quello che a chiunque sarebbe parso il mercenario, e lasciai andare un altro sospiro ancora. «E tu sei Rhod Hywel.» Il corvino annuì una volta sola, con quelle sensuali labbra carnose che si mordicchiavano con un fare timido, ricordandomi il modo in cui io le avevo mordicchiate. Forse avrei dovuto lasciar dormire il vero Cyran per il suo bene, ma non potevamo certo rimanere per sempre accampati in questa radura. Perciò, raccogliendo tutto il mio coraggio, mi diressi verso la sua stuoia e scossi piano la sua schiena, così minuta, mentre io ero diventato così alto tutto all'improvviso. «Cyran...» chiamai. Gli bastò poco per ridestarsi.

«Cos'è, all'improvviso io e te siamo diventati tanto amici da chiamarci per nome, fioraio?» esordì, voltandosi a guardarmi con un sopracciglio alzato e un'aria tracotante che stonava in maniera terribile, se associata a quel viso delicato, riservato. Forse avrei dovuto rimanere semplicemente zitto. Del resto, si sarebbe presto accorto della voce: non era affatto cavernosa, sensuale, profonda. Era... Quella di un ragazzino. Ma di rado riesco a star zitto.

«Cyran...» ripetei, con un tono di voce supplicante, sperando che non mi prendesse in giro come mi aspettavo che facesse. «Sono io. Sono il principe, Francis.» avrei voluto semplicemente sbattermi una mano al petto, ma mi sentivo piuttosto ridicolo, ed anche affranto in quel momento.

«Sì, e io sono la regina di Akra!» Per l'appunto.

«Oh, andiamo, almeno ascolta la tua voce!» Un buon osservatore si sarebbe accorto che qualcosa non andava anche solo osservando la mia espressione: il vero erborista non avrebbe mai esibito una smorfia così evidente. Non un individuo che annoverava la bellezza di una sola espressione standard per mille emozioni diverse. Ma, ovviamente, il mercenario non era tanto perspicace. Mi chiesi quale sarebbe stata la sua reazione, nell'accorgersi che i suoi bicipiti gonfi e torniti avevano lasciato il posto a delle braccine magre e sottili.

«Ma che cosa...» Iniziò, con uno di quei toni di voce che sembrano prepararsi al mandare a quel paese l'interlocutore. Uno di quei toni che sarebbero stati perfetti con la voce del mercenario, rivolti al vero André. Ma quello era il corpo del mago, e dentro l'aspetto del biondo... Be', c'ero proprio io. E la cosa mi stava piuttosto stretta. Non letteralmente, visto che a quanto pareva mi ero allungato in altezza. Quando lui richiuse frettolosamente la bocca, facendo scontrare i denti con un rumore secco, io lo guardai semplicemente, annuendo. «No...» Scosse la testa.

Poi, iniziò a prendere coscienza della realtà: si fissò le mani, le braccia. Poi si tolse con uno strattone le coperte e si guardò le gambe, si toccò il petto, la faccia, i capelli, seguì la lunghezza delle treccine, la curva minuta del naso. «Non può essere... Ditemi che ho solo bevuto troppo...» Chissà per quale ragione, si diede perfino una rapida occhiata dentro ai pantaloni, cosa che mi fece alzare gli occhi al cielo e al contempo arrossire. Il che doveva risultare piuttosto inquietante, sulla faccia di André Sion. Ma al momento al mercenario non importava: impallidì, scatto in piedi e poi, a pieni polmoni, esclamò: «Come farò a corteggiare delle belle sventole, così?!»

Ma perché proprio quello doveva essere il suo primo pensiero? Perché, nei giorni precedenti, mi ero lasciato baciare da un tale tipo rozzo? Anche se la faccia non era la stessa, dentro rimaneva sempre lui. Su questo non c'erano dubbi.

«Sentite.» L'eborista, nonché possessore ufficiale della mia faccia, avanzò lentamente sul terriccio inumidito dalla rugiada mattutina con una certa cautela, come se camminasse su una strada piena di trappole per orsi. Il viso, però, rimaneva sempre e comunque imperturbabile. Avrei giurato che l'accaduto non lo sconcertasse per niente. «Forse dovreste prendere in considerazione alcuni aspetti.» continuò, secco, ponendosi una mano sul fianco. Sollevò la mano verso il taschino dei mio – e ora suo – farsetto, le dita tentarono di stringersi su qualcosa, ma trovarono il nulla. Abbassando gli occhi verso la camicia che ora indossavo io, vi trovai i soliti occhialetti rotondi, molto simili a due fondi di bottiglia piuttosto piccoli. Li stava cercando?

«Non me ne può fregare un accidente!» Cyran Rouge sbattè la stuoia a terra alzando qualche zolla di terra, irrequieto, scompigliandosi i capelli sulla testa che, essendo ora piuttosto corti, non risposero al gesto. Quella sua tipica matassa corvina, scompigliata ad arte, che tanto gli piaceva esibire, adesso non ce l'aveva più. A giudicare dall'espressione furente, la cosa non doveva piacergli più di tanto. «Rivoglio subito i miei muscoli.» Ecco il più grande problema del mercenario: la perdita dei muscoli. E, se avessi fatto un po' più d'attenzione, certamente mi sarei accorto delle continue occhiate che indirizzava al cavallo dei pantaloni, verso il suo vecchio corpo.

Per fortuna, certi dettagli mi sfuggivano.

Comunque, sospirai pesantemente. Lo stavo facendo troppe volte, osservai. Ma quando André Sion ci illustrò il vero problema, forse compresi che il cambio d'aspetto non era la vera preoccupazione del giorno.

«Se la maledizione di Rhod fosse vincolata alla sua anima, probabilmente s'abbatterebbe sul corpo del mercenario. Ma lui non è un mago, quindi non avrebbe il potere di risvegliarsi dalla morte. Non credete?» Rifletté, in silenzio e totalmente impassibile, come se non gli importasse poi tanto della morte di Cyran Rouge. A me però importava. Importava eccome. Ecco perché, mentre il mercenario se ne stava in silenzio, guardai la mia faccia in cerca di nuove risposte.

«Mi stai dicendo che il corpo di Cyran ha alte probabilità di morire e non risvegliarsi?» tradussi, sollevando le sopracciglia, mentre il mago – ora alto due metri, abbronzato, fin troppo bello e muscoloso – si avvicinava a noi. Era rimasto in disparte, a cercare di accettare la situazione, ma aveva ascoltato tutto.

«No, quello che vi sta dicendo è che se il corpo del mercenario muore, allora io ritornerò nel mio. E allora di lui non resterà nemmeno l'anima.»puntualizzò, mentre il diretto interessato si grattava la testa con l'aria di non capirci un accidente.

Io, però, ci capivo fin troppo. Ed in effetti mi resi conto che non era un problema avere i capelli biondi, lunghi, un dito in meno, una ventina di centimetri in più. Non era un problema sentirmi mancare il fiato, girare la testa. Non era nemmeno un problema guardarmi fare facce terrificanti per quanto riuscivano ad essere impassibili.

Il vero problema, era cercare di non far morire il mercenario. E, sinceramente, con la nostra sfortuna, già immaginavo che sarebbe stata una bella sfida.





❧❧

Un angolo di nuove note a margine~


Hola a tutti lettori!

Sì, sono le cinque di mattina. Sì, sono passati quasi due anni. Sì, ci voleva il giorno di pasqua per farmi viva. E sì, lo so che questo capitolo fa... Un po' pena. Devo dire che nella giornata di oggi, ho passato tutto il pomeriggio e la sera a rileggermi la storia e devo dire che mi ci sono appassionata di nuovo, nel senso che mi sarebbe piaciuto mandare avanti le vincende di Cyran, Francis, Rhod e André. Perciò mi ci sono fiondata a scrivere, (anche se domani/oggi mi devo svegliare alle otto, aiuto, scusate per i refusi quindi). Nonostante sia passato tanto tempo e non so chi seguirà ancora la storia, o chi sia rimasto dei vecchi lettori. Spero tanto che non me ne vogliate per l'immenso tempo che è passato, spero che qualcuno sia rimasto, e che sia disposto a recuperare questa piccola storiella lasciata indietro ma che ora è rispuntata(?). In quanto a questo capitolo, dato che non riprendevo la storia da un po', è quasi  "di transizione", ecco. Cerchiamo di rientrare nel mood della storia. Ovviamente voglio chiedervi: volete che continui? Avete deciso il modo in cui uccidermi? xD Avete bisogno di un mio piccolo commentino qui sotto che vi riassuma tutti i capitoli precedenti? (sono seria eh ahahah).  Spero che alcuni siano contenti del mio ritorno! 

Alla prossima ^^ (Giuro che non ci metterò due anni!)



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