CAPITOLO DUE
Capitolo Due: Origini.
"Solo al momento della morte, questo nostro orologio sconnesso della vita darà l'ora esatta."
Prätda e Styrkur si erano lanciati uno sguardo d'intesa mentre, con il respiro mozzato dalla corsa, si sedevano sul tetto della struttura degli Irosi.
Erano passate due settimane dal loro primo controllo e, secondo Wëskø, era giunto il momento di dare inizio al piano.
Prätda era stato molto attento nel non farsi vedere in giro per Città dei Peccatori e si era inoltre impegnato ad osservare ciascuna delle sette strutture.
Ridicole, le considerava lui.
L'attaccamento morboso che provava la gente del luogo per i peccati capitali era decisamente strambo, ai suoi occhi. Inoltre non capiva il perché avessero scelto un simbolo cristiano per portare avanti la loro religione.
I sette peccati derivavano, infatti, da una credenza cristiana, eppure gli abitanti di Città dei Peccatori erano tutto fuorché cristiani.
Styrkur la pensava allo stesso modo, e trovava assurdamente ridicolo il fatto che facessero dei loro peccati un motivo di vanto.
Anche lui, in passato, aveva provato del vanto nel sapere d'essere colui con il più alto numero di vittime tra i Quattro, ma era diverso.
Lui lo faceva per un obiettivo, un ideale che ai suoi occhi era perfetto: lo sterminio del male dal mondo.
Nel culto dei Quattro vi erano due soli Dei: Död e Liv, e bastavano a mantenere uniti un numero sproporzionato di fedeli.
Död era la morte e la sua opposta era Liv, la vita. Insieme tenevano le redini del mondo, l'una affianco all'altra eppure sempre distanti.
Död e Liv, quando il mondo era solo agli albori, avevano partorito i loro primi figli, i quali si erano evoluti in mostri dalle sembianze umanoidi, imbattibili e sottomessi al volere delle madri.
Essi derivavano da quattro animali: la serpe, l'orso, il lupo e il falco.
Si narra che un giorno arrivò sulla Terra il male, nato dal seme invidioso di un'umana che, ammirando la perfezione dei Quattro figli divini, strappò gli occhi alla figlia per punirla.
La colpa della bambina era essere nata senza le abilità che gli altri Quattro avevano.
La madre della bambina aveva quindi deciso che avrebbe impedito alla figlia di scrutare le meraviglie del mondo, perché lei stessa non lo era, e in quanto tale andava punita.
Död era furiosa e così lo era anche Liv.
Sarebbe stato impossibile per una donna umana dare alla luce una bambina simile ad uno dei Quattro, eppure la stolta pareva non riuscire a realizzarlo.
Liv aveva quindi mandato i figli a reclamare vendetta per gli occhi della bambina innocente.
La donna, in preda alla pazzia, aveva rinnegato le due Dee, e a quel punto la loro vendetta fu definitiva.
Le due Dee mandarono quindi i figli a punirla.
La Serpe si era avviluppata attorno al corpo tonico della donna, permettendo all'Orso di azzannarle gli arti, strappandoli.
Il Lupo aveva gioiosamente banchettato con le sue interiora e il Falco si era aggrappato al suo cuoio capelluto, dilaniandolo.
Quando il cuore della donna aveva ormai arrestato la sua corsa, la Serpe aveva smesso di stringere, e con le sue due zanne le aveva cavato gli occhi, donandoli alla bambina.
Styrkur aveva amato quella storia sin dal primo momento in cui l'aveva udita, perché per lui non era una leggenda, era la verità assoluta.
Dopotutto lui era l'ottava reincarnazione della Serpe, e l'orgoglio che provava era immenso.
Vi era stato un tempo in cui aveva provato invidia verso i fratelli: reincarnazioni di animali grossi, possenti, mentre lui era relegato negli abiti spogli di una Serpe.
Avrebbe voluto avere la stazza dell'Orso, la fedeltà del Lupo e lo sguardo del Falco, e invece era stato scelto per rappresentare un serpente.
Aveva capito, solo anni dopo, che non vi sarebbe stata scelta migliore per lui, che essere una serpe. No, no, non una serpe, ma la Serpe.
Styrkur era veloce, silenzioso e calcolatore, il che lo rendeva un nemico temibile. E lui amava la sensazione che questo gli conferiva.
"Cosa vuoi fare, fratello?" Era stato Wëskø il Lupo, a porgli la domanda, con un tono di voce vellutato e lento.
Styrkur provava dell'affetto verso il compagno, forse era impossibile non farlo, e quindi fu felice che a chiedergli ciò fosse stato proprio lui.
"Död ci ha indicato loro come i prossimi obiettivi, abbiamo aspettato fin troppo. Ormai conosciamo la loro routine, le loro credenze.
Non vi è nulla per noi da risparmiare, in quanto nulla di questo popolo potrebbe aiutarci.
Non li vedi?" Styrkur aveva puntato il dito verso la folla di persone che riempivano la piccola piazza della città, muovendosi goffamente per le bancarelle.
Wëskø aveva seguito lo sguardo del fratello, portandosi una mano tra i capelli nivei.
"Sono sicuro che abbiano però degli averi. Nella struttura degli Avari, Prätda dice di aver visto un gran viavai di merci. Potrebbero tornarci utili."
Le intenzioni di Wëskø non erano misericordiose, affatto, lui voleva salvare le merci, non quegli insulsi umani.
Non provava odio verso quella razza, solo una grande pena. Li aveva visti indossare vestiti di stracci e miseria, trascinandosi dietro bambini scheletrici e dalle ossa sporgenti.
Gli uomini erano bassi, tozzi, in grado di compiere qualche piccolo furto ma nulla più.
Le loro donne era ancora più penose: sporche ed incivili, forse più irose degli uomini stessi che, con la loro lingua intrisa di veleno, parlavano di tutto ciò che poteva alleviare minimamente la loro costante noia.
Un popolo sciatto, lasciato solo a se stesso.
La morte, per loro, sarebbe stata solo una liberazione.
"Non ci vorranno molti uomini per radere al suolo questa topaia. Va' ad avvisare Pràtda e Terseo: si attacca questa notte." Erano state le parole taglienti di Styrkur che, con un movimento veloce, si era alzato in piedi.
Dall'alto riusciva a vedere tutti quei miserabili volti, gli davano il voltastomaco.
Wëskø l'aveva quindi guardato, dubbioso sul da farsi, mentre si alzava a sua volta. "Tu non vieni, fratello?"
A Styrkur era venuto da ridere, ma si era contenuto per amore dell'altro.
L'apprensione del Lupo per i suoi affetti lo rendeva debole agli occhi di Styrkur, ma non avrebbe mai osato rivelarglielo.
"Io devo fare una cosa." Wëskø aveva seguito lo sguardo di Styrkur, puntato su una carovana dall'aria stramba.
Cocci di vetro la ricoprivano e mille sonagli gli erano stati imposti a forza sulle fiancate.
Le ruote che la sostenevano erano grandi, in un materiale che nessuno dei due riconobbe.
Wëskø era confuso, che bisogno aveva suo fratello di visitare una cartomante?
Ma decise di non porgli un'ulteriore domanda perché, dopo anni, aveva imparato a capire il carattere di Styrkur.
Quest'ultimo si era poi lasciato cadere giù dal tetto, atterrando senza produrre nemmeno un minimo rumore sul terreno ricoperto di ghiaia.
Fece attenzione a non farsi vedere e, come il serpente che era, sgusciò a capo chino tra i passanti.
Chissà come avrebbero reagito, quei poveracci, a guardarlo in viso! Il pensiero scatenò in Styrkur un debole sorriso.
Tutto a tempo debito.
La carovana era in un punto poco strategico, lontana dalle bancarelle di qualche metro e seminascosta dalle ombre.
I cocci di vetro però, a contatto con il Sole scintillavano, avvertendo i cittadini della presenza della cartomante.
Vårdande si recava a Città dei Peccatori una volta l'anno, impegnata com'era non si sarebbe potuta permettere più di quell'unica visita.
Era conosciuta in tutto il regno per le sue doti, perché Vårdande non sbagliava mai.
Nonostante questo non se ne era mai vantata, il merito non era suo ma delle carte.
Lei aveva imparato a leggerle, era una semplice portavoce ed era lieta di poterle servire.
La cartomante, all'interno della carovana, aspirò avida dalla sua sigaretta, chiudendo gli occhi per rilassarsi.
Le sigarette erano un bene di valore, nel 4000. Non tutti potevano permettersele, e Vårdande ringraziava il cielo di essere piuttosto richiesta e ben pagata.
La donna aveva preso in mano le carte, scrutandole un'altra volta ancora.
"Povera ragazza..." Aveva borbottato lei, tracciando i contorni dei disegni. Il suo pensiero venne però presto indirizzato verso qualcos'altro: vi era stato uno spostamento d'aria, quasi impercettibile.
Vårdande, comunque sia, aveva tenuto gli occhi chiusi, aspirando nuovamente la sua piccola dose di veleno.
"Con tutti i soldi che guadagni, potresti concederti il lusso di migliorare questa carcassa."
Vårdande si era sentita attraversare da un profondo brivido, duraturo e maligno.
Aveva avvertito i suoi capelli drizzarsi e la sua pelle accapponarsi.
Forse, per una delle prime volte in vita sua, Vårdande aveva avuto paura.
"Ti aspettavo." Era stata la sua risposta netta, dettata dalla pura verità.
Vårdande aveva avvertito il suo arrivo, l'arrivo del male, quindi vedere Styrkur non era stata per lei una sorpresa.
Styrkur aveva tirato le labbra in un sorriso, afferrando tra le mani callose un barattolo contenente delle ciocche bionde di capelli.
La Serpe si chiese a cosa le servissero.
"Allora sono sicuro che tu sappia cosa voglio da te, strega." Aveva sibilato lui, assottigliando gli occhi inumani.
Vårdande aveva provato un moto di fastidio nel sentirsi chiamare in quel modo, e finalmente aprì gli occhi.
Le cadde della cenere sulle vesti, ma non se ne curò. La sua attenzione era totalmente puntata sull'uomo che, arrogante, maneggiava i suoi averi.
"No, mi è sconosciuta questa informazione." Vårdande aveva gettato il mozzicone di sigaretta mentre accendeva un cero giallo: protezione.
Styrkuer aveva sorriso come si fa ad un bambino sciocco, mentre lasciava andare la presa sui barattoli della cartomante.
"Non preoccuparti, sorella: solo io so che ti nascondi qua." Aveva poi borbottato lui, allargandosi in un sorriso sinistro mentre si mordeva la lingua lunga, sottile come quella di un serpente.
Vårdande avrebbe voluto sospirate dal sollievo, ma l'unica cosa che fece fu rilassare le spalle.
La cartomante conosceva Styrkur da sempre, da quando i suoi piedi avevano solcato il terreno terrestre.
Dopotutto, lei aveva assistito alla reincarnazione di ogni figlio di Död e Liv.
"Posso chiederti il perché?" Vårdande non era un'ingenua, né tanto meno una stupida e, nonostante fosse maggiore in età di Styrkur, non osò mancargli di rispetto.
Non perché aveva paura, ma per il semplice fatto che persone come lui avevano bisogno di sentirsi potenti. E lui lo era, certamente, Vårdande non avrebbe potuto negarlo.
Styrkur si era poi lasciato cadere sullo sgabello sul quale, mezz'ora prima, si era seduta Shahrazād.
"Volevo solo far visita alla mia cara sorella, e avvisarla di andarsene: entro domani mattina tutta la città sarà solo un lontano ricordo."
A Vårdande non era sfuggito il tono canzonatorio di Styrkur, né l'inclinazione che aveva preso la sua voce nel riferirsi a lei come una sorella.
Vårdande era stata concepita molto prima dei Quattro, senza mai reincarnarsi. Död, la Morte, le aveva fatto dono delle carte per aiutarla nella sua vita terrena.
La cartomante non era mai stata potente quanto i Quattro, ma possedeva una porta sul futuro.
Era stata concepita da Liv, la Vita, per aiutare l'uomo nelle sue decisioni, ma poco ne sapevano entrambe di quanto l'uomo fosse un animale indipendente e orgoglioso.
"Tu e gli altri tre mi state portando via tutti i miei clienti." Aveva borbottato mestamente la donna, scocciata.
Styrkur aveva invece riso, sinceramente divertito. La Serpe non provava rancore verso la sorella, né antipatia.
Se avesse dovuto esprimerlo avrebbe detto che provava una sorta di rispetto per lei che, graziata da Död e Liv, poteva prevedere il futuro.
"È necessario per preservare la Terra. Non vedi gli abitanti di questa città? Assassini, ladri, sgualdrine e peggio ancora. Che bene potrebbero mai portare alle Dee?" Styrkur era oltremodo schifato dalla gente di Città dei Peccatori, ed era sicuro che lo fossero anche le due Dee.
"È l'unico modo che hanno per preservarsi, puoi biasimarli? E poi, Styrkur, anche tu sei un assassino nonché ladro e oserei dire persino una puttana d elle Dee."
Le parole di Vårdande erano uscite velenose dalle sue labbra mentre, con fare arcigno, assottigliava le palpebre.
Styrkur aveva provato un moto di fastidio verso le parole della maggiore, un fastidio che rasentava l'ira.
"Tutto ciò che ho fatto è stato per servire le Dee. Se vogliono che io sia la loro puttana, allora lo sarò ubbidendo a qualsiasi loro volere. Ma tu, sorella, non hai alcun diritto di puntarmi il dito."
Per qualche istante era calato un silenzio pesante, carico di accuse non dette. Entrambi si erano limitati a lanciarsi qualche sguardo, ognuno fermo sulla propria idea.
Vårdande non apprezzava le azioni dei Quattro, per lei vi erano modi più pacifici per far tornare la Terra al suo splendore originario.
Ma i Quattro erano talmente radicati nella loro idea che nulla li avrebbe distolti dal loro piano distruttivo.
"Cosa ne farete dei bambini?"
"Prenderemo tutti coloro inferiori ai quindici anni e li addestreremo, faranno parte della nostra famiglia." Aveva detto Styrkur, con un moto di fierezza.
Non avevano mai ucciso dei bambini, e di ciò Vårdande era grata.
"Perché sei venuto qui da me, Styrkur? Non hai intenzione di uccidermi, lo so bene, eppure la mia mente vecchia non riesce a capire."
Le carte della donna sembrarono prendere fuoco mentre le stringeva tra le mani, proteggendole come si fa con un'infante.
"Voglio che tu mi indichi la mia Scelta."
Vårdande avrebbe volentieri preferito morire p iuttosto che affrontare quell'orrendo discorso che alle sue orecchie provocava un gran fastidio.
A Styrkur non era sfuggito il grugnito di Vårdande, né il modo in cui aveva velocemente cambiato posizione sulla sedia.
"Sai benissimo che non ti darò mai tale informazione." Vårdande non aveva paura dell'esito delle sue parole, avrebbe preferito morire piuttosto che cedere a Styrkur la risposta che tanto desiderava.
La Serpe aveva roteato gli occhi, osservando mestamente le carte.
"Perché ti opponi a qualcosa che è scritto nel Sacro Libro?" Era stata la sua domanda, intrisa di pura curiosità.
"Perché..." Vårdande aveva volto lo sguardo verso le finestrelle della sua carovana, scrutando il cielo riempirsi di nuvole, "...le tradizioni non sono sempre giuste.
E questa non lo è, affatto. Se tu non fossi così accecato da tutto questo lo capiresti."
Styrkur aveva inarcato le sopracciglia, sconvolto. Mettere in discussione le parole delle Dee era da pazzi, inconcepibile come Vårdande potesse aver pronunciato simili oscenità.
"Con o senza il tuo aiuto troverò la mia Scelta, desideravo una tua mano ma si vede che le Dee vogliono rendere la mia ricerca più stimolante."
A Vårdande era venuto da vomitare tanto era forte il disgusto che provava.
"Spero che tu non la trovi mai, fratello."
E si salutarono, come due vecchie anime conoscenti ma inevitabilmente in contrasto.
**
Shahrazād aveva dato da mangiare al suo pappagallo con dei semi comperati la settimana prima al mercato.
Aveva speso una quantità di denaro piuttosto misera e l'aveva considerato un affare.
Shahrazād usciva una volta a settimana, solo per
procurarsi lo stretto necessario per vivere, nonostante andasse contro il suo principio di Stanca.
Aveva smesso però di comperare delle medicine che un forestiero le vendeva ogni anno.
L'uomo le aveva parlato di pillole magiche, le quali potevano guarire la sua maledizione.
I suoi genitori gliele avevano somministrate sino ai quattordici anni, smettendo quando i soldi erano divenuti troppo essenziali per occuparsi degli occhi della figlia.
Le pillole le avevano permesso di non perdere totalmente la vista, lasciandole le ombre.
Shahrazād aveva apprezzato quella minima dose di fortuna fino a quando era stato possibile, in qualsiasi caso però sarebbero state inutili.
Il forestiero le aveva detto con tutta onestà che le pillole non le avrebbero restituito la vista ma, in compenso, avrebbero rallentato il peggioramento della malattia, impedendole di divenire cieca.
Shahrazād non era riuscita subito a credere che la sua fosse una malattia invece che una maledizione, in Città dei Peccatori nessuno le aveva mai detto ciò.
Per lei l'influenza, la febbre e la peste erano malattie, non la perdita della vista.
Retinoblasfoma, l'aveva chiamata il forestiere. Da quanto le aveva detto proveniva da una città acculturata, scampata per puro miracolo alla distruzione della civiltà.
La città si chiamava Lux ed ospitava la più grande biblioteca della Terra,lì si studiava e si proteggevano gli abitanti affinché, un giorno, l'umanità potesse tornare al suo vecchio splendore.
Shahrazād sapeva leggere, a differenza della maggior parte degli abitanti di Città dei Peccatori.
Leggere e scrivere non erano doti particolarmente rilevanti nel loro piccolo ed isolato mondo, non trovavi un marito leggendo, né riuscivi a guadagnare un tozzo di pane scrivendo.
Suo padre, comunque sia, ci teneva a darle un'istruzione, ma i suoi sforzi erano risultati vani visto che Shahrazād non riusciva più a vedere le lettere sulla carta.
Era necessaria un ' elevatissima quantità di luce perché lei riuscisse a distinguere le parole, le frasi.
La ragazza aveva quindi sospirato, ricordando tristemente l'evento.
Shahrazād era stanca, aveva sforzato molto la vista e aveva camminato per tutto il tempo, inoltre il ricordo di ciò che le aveva detto la cartomante le era rimasto in mente, perseguitandola.
La cosa positiva, aveva pensato lei, era che non aveva pagato. Dopotutto non aveva totalmente perso tempo, aveva sbagliato a recarsi dalla donna e a confidare in una predizione sul suo futuro.
Shahrazād si era stesa sul suo letto, coperto da lenzuola fini che a Città dei Peccatori risultavano quasi inutili: era una terra del sud e come tale si aveva un caldo costante per tutto l'anno, ad eccezione degli ultime tre mesi dove il caldo diventava mite.
Aveva aperto leggermente le finestre accanto al suo letto per bearsi della leggera freschezza del vento, poi aveva chiuso gli occhi, lasciandosi abbracciare da Morfeo.
**
Styrkur aveva preso a tremare mentre guardava i fratelli, non per paura ma per eccitazione. Amava ciò che faceva e amava farlo per le sue Dee, e ancor di più amava cacciare.
Era un predatore nato dalla fortuna, e nulla gli dava più soddisfazione della caccia.
L'orso si sarebbe preoccupato di dar fuoco alle sette strutture, il Lupo avrebbe preso i bambini mentre il Falco si sarebbe premurato di prendere tutti gli averi di valore che si trovavano in Città dei Peccatori.
A Styrkur era toccato un compito più leggero, a detta sua, e meno stancante.
Avrebbe dovuto eliminare le poche persone che vivevano fuori dalle strutture, fare razzia dei loro beni e poi sarebbe potuto tornare a casa.
Non ci volle molto prima che la città sprofondasse nel caos. Le grida impestavano la città, mentre i Quattro se ne beavano.
Più erano le urla e più si crogiolavano nel loro malsano piacere.
Era pari ad un orgasmo, per loro.
Il Lupo fu veloce mentre, con grazia, radunava i bambini, gli adolescenti e gli infanti.
Li vedeva piangere e provava pena, non per aver distrutto le loro famiglie, ma per le condizioni in cui avevano vissuto sino ad ora.
"Non disperate, avrete nuove madri e moltissimi fratelli." Gli aveva detto sorridendo, mostrando le zanne con aria vittoriosa.
I bambini non si erano sentiti affatto consolati, ma avevano imparato molto tempo prima che nel mondo funzionava così, che la morte era una fase naturale e che quindi, per sopravvivere, avrebbero dovuto sottomettersi.
L'orso aveva fatto divampare l'incendio nella quinta struttura, scrutando con aria ammaliata le lingue di fuoco danzare. All'interno, forse vi era ancora qualcuno, ma a lui non procurò alcun dilemma.
Era la giusta soluzione, il giusto metodo per estirpare il male. E infondo sapeva benissimo quanto quella situazione lo eccitasse.
Il Falco era rimasto, invece, inizialmente in disparte. Amava osservare, possedeva una sorta di passiva aggressività alla quale non poteva fare a meno.
L'uomo era munito di grandi ali spesse, marroni, che fendevano l'aria come coltelli.
Poteva usufruirne per un tempo limitato, forse due ore, e con esse era riuscito a passare da una struttura all'altra, razziandole.
In esse aveva trovato gioielli, semi che permettevano l'agricoltura, stoffe e qualche animale da allevamento.
Aveva preso quasi tutto, aiutato dai fratelli minori facenti parte del suo culto.
Sarebbe stato impossibile svolgere il compito da solo, quindi si era portato dietro una quindicina di adepti.
Erano, tutti e quattro, in una completa estasi. Non avrebbero smesso nemmeno volendo, ormai era radicato in loro il male.
E con il male intendevano distruggere altro male.
Paradossale il modo in cui agivano, questo era certo, ma paradossale era anche il loro mondo.
Styrkur era sgusciato fuori dalla città, silenzioso e repentino. Con gli occhi abituati al buio non aveva bisogno di una torcia.
Le casette erano isolate di qualche centinaio di metri dalla città, una parte di lui si dispiacque a pensare che avrebbe dovuto uccidere anche loro.
Dopotutto vivevano fuori dalla cittadina e non facevano parte del culto dei Peccatori, o forse ne erano stati parte tempo prima, limitando il loro culto alle quattro pareti ovattate delle loro case.
Dormivano quasi tutti, alcuni erano stati ridestati dall'odore di bruciato ma non avevano fatto in tempo a comprendere la gravità della situazione.
Styrkur era stato veloce, netto, senza rimpianto mentre tagliava la gola alle proprie vittime, strangolandole o colpendole al cuore.
Normalmente avrebbe dedicato ore a coloro che perseguitava, ma doveva essere veloce. La conversazione con Vårdande era ancora viva nella sua mente.
Quante città aveva raso al suolo? Tante, ma in nessuna aveva ancora trovato la sua Scelta.
Styrkur aveva contato solo quattro case, ognuna distante dalle altre solo di qualche decina di metri. Erano piccole, scolorite e cadenti.
Si chiese chi mai potesse decidere di vivere in tali condizioni. Ma lui, oh lui, li avrebbe liberati dalla loro patetica vita di stenti!
Avrebbe consegnato le loro anime a Död e Liv e avrebbe tolto un po' di male da quel mondo marcio.
L'ultima casa che vide era piccola, in grado di ospitare un massimo di due o forse tre persone. Il tetto era mezzo sfasciato, la muffa impregnava le pareti e la porta cigolava.
La Serpe odiava il rumore.
Fu un suono squillante, gracchiante, a perforargli i timpani sensibili.
Un uccello dal piumaggio colorato aveva preso a volare, gracchiando con più forza possibile mentre si dirigeva in ogni direzione accessibile.
Sturkur aveva grugnito, balzando in aria con la mano tesa, afferrando l'uccellino nel palmo della mano.
"Dovrei darti in pasto a Prätda, un falco come lui adora gli uccellini come te." Aveva stretto un po' di più la presa, nella sua mano l'uccellino aveva continuato a dibattersi e a strillare.
"Pericolo, pericolo, pericolo."
Quel maledetto pappagallo proprio non ne voleva sapere di ammutolirsi.
Styrkur si disse che avrebbe fatto meglio ad ucciderlo prima che le sue grida svegliassero la sua vittima. Sempre se non l'avevano già svegliata.
Strinse talmente forte la mano contro la cassa toracica dell'uccellino, che esso emise un verso strozzato, gli occhi spalancati in una muta richiesta d'aria.
Styrkur scosse la testa e, con una misericordia che non pensava di possedere, lasciò andare il volatile. Quest'ultimo sbatté le ali per tre volte, posandosi a terra con aria stanca, avvilita.
Non grida più, il maledetto uccello. Pensò la Serpe, soddisfatta.
Un altro rumore giunse alle sue orecchie, rumore di passi. La sua vittima si era destata e ora si muoveva, povera illusa!
La caccia era appena iniziata.
Fatemi sapere cosa ne pensate!
A T T E N Z I O N E
*Död: Morte, in svedese
*Liv: Vita, in svedese
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