CAPITOLO CINQUANTATRE
Capitolo Cinquantadue: la discesa
"L'unico modo per fuggire dall'inferno è conquistarlo."
- Scott Hawkins
Quando la notte avvolse Città dei Santi nel suo abbraccio, fece un unico favore alle cicale: a lora avrebbe permesso di cantare, quella sera.
Il ringhio del vento era diventato un latrato e poi un guaito, sofferente e lacerante, mentre gli stivali di Prätda affondavano nel fango.
Lui e i suoi uomini procedevano spediti, silenziosi, con i volti sporchi di intrugli verdi e marroni per mimetizzarsi meglio.
C'era gente d'ogni tipo, lì nel mezzo. Con gli occhi grandi venati di sangue e le pupille ritratte, in ritirata dal macabro spettacolo.
Il primo squadrone si era diviso dal gruppo di partenza, salutando gli altri con un cenno del capo.
Circa venti uomini erano sgattaiolati lateralmente rispetto alle mura che contornavano la città. Si muovevano lentamente, quatti quatti, con le sacche piene di zolfo a pendergli dalla cintura.
"Tenetevi pronti," erano state le ultime parole di Prätda al gruppetto, prima che questo sparisse definitivamente dalla vista.
Quella notte, avrebbero fatto piovere fuoco.
Il gruppo da venti, composto per tre quarti da uomini, si era fermato davanti al lato est della struttura. Arrampicarsi non sarebbe stata una passeggiata, di questo erano tutti certi, ma una volta raggiunta la fine, avrebbero fornito un valido vantaggio all'intera squadra.
Si sentivano già eroi, i venti uomini. Pregustavano il sapore del vino, con i calici alzati in aria, mentre dalle loro bocche si sporgeva, sfacciato, il primo cenno di saliva. Avrebbero mangiato carne di maiale e le verdure dell'orto, poi avrebbero bevuto ancora, fino a perdere i sensi e svenire sotto le stelle.
"Bagneremo le frecce con la naftalina solo quando saremo in cima, intesi? Non ci tengo ad accendermi come una maledettissima torcia."
Le borracce di metallo, tenute ancorate in vita e contenenti la miscela incendiaria, avevano preso a scintillare sotto la fioca luce della luna.
Avevano annuito all'unisono, lanciando uno sguardo alle frecce. Ne potevano contare circa trenta a testa, la metà con la punta rivestita da una patina oleosa di resina vegetale e lardo.
L'odore non li toccava più, non dopo tutti quegli anni passati ad occuparsene.
Cos'è la prima cosa che prende fuoco? I venti uomini avrebbero detto le narici, con peli e ciglia annesse.
Erano sempre loro, chiamati i fumantini, a prendersi carico di certe operazioni. A sceglierli era stato Prätda stesso, e non senza criterio. Aveva tirato su un gruppo di ex fenomeni da baraccone, tutti provenienti dallo stesso buco polveroso: Sirka.
La loro comunità si era formata per sfida. Una ripicca contro coloro che, dopo il cambiamento climatico, avevano deciso di abbandonare l'Africa.
I più forti e coraggiosi erano stati trattenuti dalle radici della terra, dalle tradizioni, e il loro corpo si era quindi modificato per adattarsi. C'era qualcosa di sacro, per i Sirkan, nei loro occhi neri e lucidi come l'ossidiana. Erano la prova che erano riusciti a fondersi con l'ambiente, a mutare il loro corpo, per impedire che a cambiare fosse casa loro.
Gli uomini moderni, invece, della vita non avevano capito nulla. Uomini che si credevano dei, e dei troppo umani per punirli.
I Sirka lo sapevano bene, forse meglio di chiunque altro, e per questo cercavano di non disturbare la natura con le loro sciocche macchinazione.
Viaggiavano su carri che, col passare degli anni, si facevano sempre più grandi e sofisticati. Le ruote fendevano la sabbia quasi come volessero lavorarla in vetro,
Il fuoco era stata la prima fonte di luce per gli umani e sarebbe stata anche l'ultima. Polvere alla polvere, cenere alla cenere. Era il ciclo di ogni cosa. La vera cattiveria sarebbe stata ucciderli e lasciarli marcire a terra, dove i vermi e gli insetti avrebbero fatto banchetto dei loro corpi.
Non importava quanti anni avessero passato con i Quattro: per i Sirka, la morte apparteneva alle fiamme.
Una volta saliti fino in cima, i venti uomini si erano presi in momento per massaggiarsi i nervi tesi.
Amadi, il più anziano, aveva poggiato i palmi delle mani alla base del collo. Non era stanco, nemmeno affaticato, ma sentiva sulle spalle il peso della missione.
Il suo nome, gli aveva sussurrato sua madre prima che spirasse, era stato il segreto più ben tramandato della sua famiglia. Di origine nigeriana, Amadi significava "destinato a morire alla nascita".
Non era certa di quando la tradizione fosse cominciata, ma sapeva che era un tranello escogitato per truffare la morte. Amadi, destinato a morire alla nascita, viveva! Ogni giorno, quindi, la sua mera esistenza era un affronto, una sfida.
Così, mentre Amadi fletteva il braccio per allungarlo verso le frecce appese alla sua schiena, pensò che se proprio quel giorno fosse morto, allora sarebbe stato giusto. Equo, quasi.
Avrebbe spirato felicemente, sul campo di battaglia, per risvegliarsi nel caldo abbraccio della madre.
"Al mio via," aveva tuonato l'uomo, bagnandosi le labbra con la lingua, "scoccate." Ansimavano, eccitati, come cani affamati. Amadi e i suoi uomini non erano autorizzati, vista la natura dei loro compiti, ad esercitarsi. Il fuoco, quindi, giungeva loro solo in campo di guerra, non più e mai più su terreno bianco. Non perché fossero schiavi, si noti bene, ma perché i loro piedi avevano camminato troppo.
Erano lontani, lontanissimi, dal deserto in cui erano stati nomadi, ma anche cittadini. Quando avanzi, hai solo un certo numero di passi disponibili prima che il ritorno ti costi più dell'andata. E così uno cammina e camina, rimpiange la propria terra ma si consola al pensiero di tornarvici, un giorno.
Finché la linea retta tracciata dal viaggio non diventa uno scivolo, il quale devi scalare per risalire. A quel punto, puoi davvero tornare indietro?
Amadi aveva scacciato quei pensieri, temendo di distrarsi. Con lo sguardo aveva ispezionato il suolo deserto, le case con i lumi spenti e i giardini in fioritura.
I suoi uomini si erano calmati e, mentre Amadi si perdeva nelle sue considerazioni, si erano preparati.
Gli archi di quercia, levigati e intagliati a mano, risultavano magnifici sotto la luce della luna. Il dorso e il ventre dell'arma si curvavano dolcemente, mentre la corda si tendeva al massimo.
I venti uomini avevano alzato gli scalda-collo fin sopra il naso, quindi avevano bagnato le frecce con la naftalina. Erano pronti: le corde tirate e le dita umide di sudore che imploravano un rilascio.
"Uno," Amadi era l'unico a non aver imboccato la freccia, perché la sua sarebbe stata l'ultima; "due," gli occhi scuri dell'uomo avevano puntato il campanile, sotto al quale si ergeva l'edificio del governante; "tre!".
Fu come essere accarezzato, all'inizio.
Lo scoccare delle frecce aveva smosso l'aria umida, rendendolo spiacevolmente consapevole del rivolo di sudore che gli lambiva la nuca.
Poi, tutto si era accesso.
La naftalina non tendeva spesso al blu, anche se dipendeva sostanzialmente dai grassi scelti per la miscela, e nemmeno a un rosso vivido. Assomigliava all'arancione, a quell'attimo di bagliore che si può vedere del Sole, prima che questo ferisca gli occhi.
Quando era stato il suo turno, Amadi aveva preso un sospiro. Poi, voltandosi di poco verso destra, aveva mirato al campanile.
**
Shahrazād non era estranea al fuoco. A Città dei Peccatori, si usava per i lumi e per le fiaccolate, ma anche per illuminare le strade.
Nei giorni di festa, poi, venivano sacrificate al fuoco decine di balle di fiori e ortica; l'odore si levava nel cielo e soffocava le case per giorni, si avvinghiava ai vestiti come un ricordo.
Prima di perdere la vista, il fuoco era stato tra quegli elementi privilegiati che era riuscita a scrutate. Sfortunatamente per lei, i ricordi che Död le aveva rubato contenevano anche buona parte delle sue visioni.
In cuor suo, però, sapeva di conoscerlo. Sapeva, insomma, che era di un colore simile a quello dei suoi capelli, delle sue lentiggini. Ricordava che alle sue consorelle e confratelli, e conseguentemente a Sover, il fuoco non piaceva.
Era uno di quegli elementi, similmente al vento, che si generava senza confini. Le fiamme consumavano e basta, divoravano e avanzavano, ancora e ancora. Mantenerlo, quindi, era un lavoro attivo e quindi non adatto agli Stanchi.
Per questo, forse, l'inverno rifiutavano du accendere il camino e si assopivano tra strati e strati di coperte. Qualche volta, uno dei Lussuriosi, solitamente mosso a compassione, si imbucava nelle loro stanze e controllava che recapitassero. Che il freddo non le avesse prese con sé, addormentandole.
Il più delle volte, se lo sconosciuto o la sconosciuta giungeva fin là, poi si premurava anche di accendergli il camino.
Shahrazād aveva sentito il cuore stringersi nel petto a quel ricordo.
"Dobbiamo andare," Styrkur le aveva stretto la mano, cingendole la vita con il braccio libero per guidarla nel cammino, "mi spiace, se avessimo più tempo ti lascerei vagare a tuo piacimento, lo sai?"
Era davvero preoccupato di una sciocchezza simile in un momento del genere? Aveva scosso la testa in risposta, girandosi verso il suono della sua voce per mostrargli quella che credeva fosse un'espressione stupita.
In realtà, aveva sollevato fin troppo le sopracciglia e il suo viso sembrava adombrato da un piglio più che da altro. Nonostante questo, il petto di Styrkur fu mosso da una risata sincera.
"Adorabile," se solo avesse potuto osservare il tremore dei suoi occhi, avrebbe compreso che dietro di essi si celava la fame. Sarebbe bastato il sussurro di una richiesta, e lui avrebbe abbandonato le armi per soccombere con lei nel fuoco.
"Veloci," li aveva rimproverati Sover, mentre si trascinava lentamente con Wyulma al suo fianco, "vi copriamo noi."
Alla dea non era piaciuta l'affermazione, forse perché la vedeva troppo come aiutante piuttosto che come nemico. Nonostante ciò, stette zitta solo perché a parlare era stato il fratello.
La paura che sarebbe morto era ormai svanita, ma doveva ricordare a se stessa che gli unici a conoscere la formula segreta che preservava la vita di Sover era due umani: Shahrazād e Wëskø. Entrambi, poi, erano presenti sul terreno di battaglia.
Morti loro, morto Sover. Non poteva permetterlo; per questo e solo per questo aveva deciso di prestarsi a quel teatrino.
"Cosa stiamo cercando?" Kyà era intervenuto velocemente, avvicinandosi inconsciamente a Lust, la quale ancora sostava vicino la finestra. Dall'altra parte, il fuoco aveva iniziato a divorare i primi edifici.
"Le segrete. Dobbiamo andarcene tramite i tunnel e l'unico passaggio inizia da lì; se Liv ci assiste, potremmo trovare gli appunti di Caspian."
I Sette Peccati avevano stretto le labbra, grugnendo. Erano in piedi lì davanti a lui, in carne e ossa, ma comunque invocava un altra divinità. Incredibile! Per non dire oltraggioso, ecco.
Prätda sarebbe presto planato dal cielo, i suoi arcieri schierati sulle mura avrebbero anticipato l'esercito di Città dei Santi e le truppe di Terseo si sarebbero occupati del resto.
Wëskø, dal canto suo, avrebbe condotto i suoi uomini sul terreno nemico solo se ce ne fosse stato bisogno. Lui, comunque sia, avrebbe raggiunto i fratelli in ogni caso.
Shahrazād era stata guidata fuori dalla stanza e lungo il corridoio. Poggiando le dita sul corrimano delle scale, lo aveva trovato tiepido.
Il fuoco iniziava ad avvicinarsi, glielo sussurrava l'aria satura di zolfo e la sensazione di pesantezza ai polmoni.
Aveva tossito una sola volta, prima di realizzare che attorno al collo portava ancora il suo scialle. Lo aveva avviluppato due e tre volte attorno al collo, poi se l'era sollevato su fino al naso.
"Cosa intendi con 'appunti'?" Shahrazād aveva allungato troppo la gamba, agitata com'era dalla fretta di andarsene, e per poco non era capitolata di sotto. Certamente in quel modo, per lo meno, avrebbe fatto più veloce!
Styrkur aveva fermato la rovinosa caduta appena in tempo, stringendo il braccio sotto al suo seno.
Velocemente, quindi, si era piegato sulle ginocchia per cingerle gambe e bacino, issandosela in braccio.
Per un attimo aveva desiderato obbiettare, dirgli che era in grado di scendere un paio di scale, ma sospettava che sarebbero state solo le lamentele di una ragazzina indispettita.
Come consapevole dei suoi pensieri, Styrkur aveva stretto di poco la sua stretta, piegandosi su di lei per baciarle la fronte.
Non le disse niente, continuò semplicemente a scendere le scale, sussurrandole qualche "shhh" tra i capelli. Se avesse potuto, le avrebbe donato i suoi occhi.
Una volta scesi al piano terra, i Sette si divisero: Pycha e Chciwy, superbia e gola, si sarebbero diretti fuori per aiutare le truppe di Prätda.
Lust e Skapy, lussuria e avarizia, avrebbero stazionato al pianterreno per coprirli. Infine, Sover li avrebbe accompagnati assieme all'ira, Gniew, e sua sorella Wyulma, ovviamente.
"Io vi copro le spalle!" Aveva squittito Kyà, rosso in viso, mentre dava un veloce pizzico sulla guancia a Shahrazād.
Styrkur gli avrebbe reciso il dito seduta stante, se solo non avesse avuto problemi più grandi ai quali pensare.
"Maledetto gattaccio, ci abbandoni per...per..." non aveva saputo come terminare la frase, perché Lust era una dea e, in particolare, era una dea che li stava aiutando. Perciò si era fermato, zittendosi, senza riuscire a nascondere il piglio di fastidio nell'osservare l'entità eterea ghignare.
"Per una divinità?" Kyà aveva messo tutto il suo impegno per suonare petulante, aggiungendo anche un paio di espressioni teatrali, comunemente umane, per rimarcare il suo punto.
Certo, la dea era meravigliosa e lui avrebbe desiderato impiegare ogni minuto del suo tempo a cercare di guadagnarsi nuovamente un suo complimento...ma avrebbe davvero abbandonato i suoi amici per così poco? Si lecco' le labbra, improvvisamente offeso.
Certo che lo avrebbe fatto, ma non senza la consapevolezza che il suo aiuto non era necessario. Aveva una coscienza, lui!
"Io conosco la magia," Kyà aveva ripreso il suo discorso, trovando la prima giustificazione plausibile.
"Allora potresti esserci utile di sotto, nelle segrete, in cui notoriamente viene tenuto qualsiasi cosa contenga un briciolo di magia."
Aveva insistito Styrkur, sibilando nervosamente. Perché continuava a rispondergli e a fargli perder tempo?
"Sai cosa? Io ero solo un apprendista, non sono così formato. Vårdande mi ha trascurato, sai? Avevo del potenziale, ma non lo ha sfruttato...e comunque, la maggior parte del tempo cerchi un modo per sbarazzarti di me, e ora mi vuoi al tuo fianco?"
Al semi-gatto fu sufficiente terminare la frase per sentire l'errore che in essa si celava. Styrkur non lo voleva con sé, ma con Shahrazād. Forse perché, oltre a lui, non ci sarebbe stato nessun altro di fidato vicino alla ragazza.
"Lascia stare," lo aveva liquidato la Serpe, una volta compreso che la possibilità di concludere l'avventura col semi-gatto si concretizzava, "ce la caveremo anche da soli."
Senza lasciargli tempo di rispondere, Styrkur si era sistemato Shahrazād tra le braccia e con passo veloce si era avviato verso strade che in passato aveva già percorso.
Il suo corpo tremava, come fosse in preda all'istinto di girarsi e fuggire. Ogni muscolo della Serpe era tirato, vigile e contratto, pronto per la lotta o per la fuga.
La ragazza avvertiva il suo respiro, solitamente lento e calmo, velocizzarsi e il suo cuore iniziare a correre, spaventato.
Cosa ti hanno fatto? Avrebbe voluto chiedergli lei, mentre con la mano gli accarezzava la mascella tesa. Ebbe un fremito nel sentire la sua pelle sulla sua, e quasi non si fermò lì per stringerla e fingere di essere altrove con lei, ovunque ma lontano da lì.
Se quella notte fosse andata secondo i piani, lui avrebbe ucciso sua madre e forse salvato suo fratello. Non poteva dimenticare che l'unico nemico non era Caspian, il quale seppur un mostro rimaneva comunque umano. No, Liv lo aveva avvertito: Död non avrebbe accettato quell'unione, non dopo ciò che aveva fatto per assicurarsi la sua disfatta.
Non riusciva a capire come Shahrazād non lo biasimasse, nemmeno un minimo, per quel che riguardava la sua vista.
"Gli appunti," si era ricordata lei, nervosamente, "cosa intendevi prima? Caspian tiene dei documenti nelle segrete?"
Sover e Wyulma, avanti di qualche metro, avevano teso le orecchie per sentire la risposta. Non si preoccupavano della direzione intrapresa, perché riuscivano a vederla proiettata dall'intenzione di Styrkur. Lui la ricordava, e questo faceva muovere l'aria e la sua energia, formando un percorso visibile solo agli occhi di chi aveva visto la vita iniziare.
Nuovamente si era sentito spossato, vittima di quel posto e dei suoi ricordi. Così, senza pensare, aveva stretto le dita attorno al fianco della ragazza. Sentiva le sue unghie aggrapparsi alla veste e poi alla pelle sottostante con disperazione, paura. Si impose di non gemere e di non sobbalzare, perché il dolore non era tale sa a infliggerglielo era lui.
"Caspian aveva l'abitudine di segnare i progressi fatti, le procedure alle quali si era stati sottoposti, con successo o meno. Così facendo, poteva pianificare le prove successive. Se non riuscivi a superarla, allora doveva renderti in grado di farlo. Perfezionarti, migliorarti, ferirti."
Aveva scosso la testa, allontanando quei ricordi. Non poteva permettersi di essere debole in quella situazione, quindi non poteva permettersi di ricordare.
"Scusami," le aveva sussurrato all'orecchio lui, baciandole la testa per annusarle i capelli; Shahrazād non poteva immaginare cosa lo avesse reso così cupo, ma non importava.
Ora ricordava di quando, da ragazzini, si erano incontrati al lago. Di quando lui era giunto con la casacca imbratta di sangue e gli occhi gonfi e viola. Era scappato da Città dei Santi, trovando rifugio lì, da lei. Sarebbe stato così per sempre, se ne sarebbe personalmente accertata.
Se tutto fosse andato secondo i suoi piani, se le stanze nelle quali era stata con Eternità le avevano rivelato il vero, allora quella sera si sarebbe sporcata le mani di sangue.
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro