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CAPITOLO CINQUANTASEI

Capitolo Cinquantasei: la favola della buonanotte

"Gli ingordi si scavano la fossa con i loro stessi denti." - James Howell

Shahrazād, Styrkur e i tre dei avanzavano tesi. L'aria sapeva di muffa e di urina e le mura, sempre più annerite man mano che avanzavano, erano incrostate di sangue dall'odore ferroso.

Erano effluvi a lei familiari, ma in quel contesto la disturbavano. Una parte di lei fu grata di non poter vedere la scena, perché era certa fosse terrificante.

Styrkur, dal canto suo, ripercorreva in quei tunnel le stesse vie che aveva imparato molti anni prima. A malincuore, dovette ammettere a se stesso che quel luogo ancora lo disturbava. Si sentiva percorrere da lunghi brividi freddi ogni qual volta erano costretti a girare l'angolo. Aveva il terrore di veder sbucare qualcuno, di esser preso in contropiede proprio quando era così vicino alla fine.

Ciclicamente, poi, afferrava la mano di Shahrazād. Stava subito meglio.
Era il brivido che il suo palmo caldo provocava contro il suo, gelido, a ricordargli per cosa stava facendo tutto ciò.

Maniacalmente, immaginava ancora e ancora lo svolgersi dello scontro. Gli arcieri di suo fratello che si arrampicavano su per le mura, incendiando il cielo notturno di frecce dall'odore di lardo e resina. Una volta disperso il panico, sarebbero scesi in piazza per aprire le porte dall'interno.

L'Orso e il Lupo sarebbero quindi entrati a Città dei Santi, dividendosi una volta arrivati nella pizza principale.
Styrkur era certo che avrebbero cercato di evacuare i cittadini, probabilmente radunandoli sotto la chiesa cittadina. Era certo solo del fatto che quelle persone sarebbero morte, ma non aveva idea di come.

Il campo di battaglia era il terreno che conosceva meglio. Sapeva come muoversi, come fondersi alle ombre e sparire. Sapeva come uscirne vivo.
In quel momento, invece, si sentiva titubante. Sottoterra, asfissiato dagli odori nauseabondi del tunnel e reso praticamente cieco dall'oscurità, Styrkur si sentiva come se fosse tornato ragazzino.

Quando Caspian lo scortava lungo quei corridoi tetri, facendo roteare un mazzo di chiavi attorno l'indice. Imparerai, gli diceva l'uomo. Non era certo di ricordare cosa volesse insegnargli, sempre che una lezione da imparare ci fosse mai stata.

Shahrazād, intanto, si trascinava lungo i tunnel con il palmo della mano sinistra premuto contro il muro.

Quest'ultimo, in pietra massiccia, non era evidentemente mai stato levigato. Ogni qual volta il suo pensiero tentava di migrare, uno dei suoi polpastrelli scivolava su un'increspatura, ricavandone una minuscola ferita.

Quando, dopo almeno un'ora di cammino, tutte le sue dita furono ridotte a un groviglio di taglietti e sangue, voltò il palmo e scelse di usare le nocche.

Cercava le stesse insenature che Eternità le aveva mostrato. Era certa che fossero lì e che lo fossero per un motivo; dovevano esserci.

Davanti a loro, i tre dei procedevano lentamente. Tutti, tranne Gniew, l'Ira. Borbottava mestamente il suo malcontento per non esser sceso in battaglia e malediceva i suoi fratelli per non avergli permesso di eliminare prima quell'assurdo culto.

Se anche lui e i suoi fratelli avessero spinto per il predominio del loro credo, così come per secoli avevano fatto i Quattro, una barzelletta come Città dei Santi non sarebbe mai sorta.

Sover, quasi leggendogli nella mente, scosse la testa.
"Gli uomini starebbero meglio senza dei..." e affidò la frase all'aria, lasciando che si consumasse e si esaurisse nel suo stesso significato.

Città dei Santi era una minaccia, certo; ma lo era per un motivo. Che questo fosse fanatismo religioso o pure follia, non importava.

In un mondo alle soglie della rovina, in cui tutto nasce o muore ma mai vive, la propria fede mutava in affermazione. E le affermazioni andavano diffuse, per chiarire a tutti cosa fosse sbagliato e cosa, invece, giusto. Così la fede di uno diventa nemesi di un altro e, conseguentemente, soddisfa le credenze di uno e smentisce crudelmente quelle dell'altro.

La fede era rivalsa, dominio, potere. Certamente non era salvezza.

Shahrazād si fermò lentamente, quasi come avesse sempre saputo dive si stava dirigendo. Si tolse i sandali che portava ai piedi e scoprì che il pavimento si increspava sotto i suoi talloni per sprofondare lungo le piante. Due solchi simulavano perfettamente le impronte della ragazza.

Gniew si voltò a guardarla, sospettoso. Non era certo che fosse bene fermarsi, sopratutto ora che ancora parevano lontani dal loro obiettivo.

A quel punto, però, Ira non era più certo di cosa o chi stessero cercando. Scambiò un'occhiata dubbiosa con Wyulma, osservandola distendere le sopracciglia: dovevano fidarsi.

Se persino sua sorella, la più affezionata tra loro a Sover, non fiatava, allora andava tutto bene.

"Shahrazād?"

Sentire il suo nome roteare giù dalla lingua di Styrkur le fece contrarre le dita dei piedi, mentre lunghi brividi gelidi le scalavano la schiena. A quel punto sapeva che doveva fare attenzione.

Attenzione a non sbilanciarsi troppo, a non far trasparire l'ansia e la paura che cullava nel petto. Attenzione nel dosare il tono di voce, il tremore delle mani e l'inumidirsi degli occhi. Ora che pensava a tutte le cose che avrebbe dovuto nascondere agli occhi dei presenti, si sentiva montare in gola un groppo acido.

Per un attimo ebbe paura che avrebbe rigettato il suo stomaco per intero proprio lì, su quel pavimento che all'olfatto le sembrava talmente sudicio e lercio che il suo vomito non avrebbe influito poi così tanto sull'insieme generale.

Fu tentata di assecondare i salti mortali in cui le sue viscere si stavano esibendo e di capitolare, anche lei, al cospetto dell'ansia.

Si morse il labbro fino a sentire il sapore ferroso del sangue sulla lingua, quindi chiuse gli occhi ed espirò a fondo col naso. Doveva calmarsi, e se c'era una cosa in cui era sempre stata brava, quella era l'autocontrollo.

Shahrazād non piange mai! Soleva dire suo padre ai vicini e agli amici, tessendo le lodi di quella che pareva proprio essere la bambina più tranquilla che Città dei Peccatori avesse mai visto.

La verità era che aveva capito sin da piccola che piangere non l'avrebbe portata a nulla. Sua madre non sarebbe accorsa, preoccupata, ai suoi piedi e nessuno si sarebbe commosso nel vedere grandi e lucidi lacrime gettarsi dai suoi occhi.

Non l'avrebbe fatto e non perché fossero tutti mostri, ma per diffidenza. Per scherno, magari, o per paura, forse.

Shahrazād era stata tante cose, in vita sua.

Una bambina silenziosa, dapprima. Una giovane accidiosa, poi. E ora, ora era qualcosa di completamente diverso, nonostante non avrebbe saputo dargli un nome specifico.

Ma prima di ogni altra cosa, Shahrazād era e sarebbe sempre stata malata. La sua condizione originale era quella e le implicazioni che aveva avuto nella sua vita erano decine, se non centinaia.

Piangere veniva considerata una recita, a Città dei Peccatori. Non c'era da sorprendersi, quindi, se a consolarti era un attore.
Per questo e per molto altro, Shahrazād ricacciò indietro le lacrime.

"Qui dietro," aveva iniziato lei, "c'è qualcosa qui dietro."

Con le dita percorse le figure scavate nella roccia, sentendo i polpastrelli bruciarle. Styrkur le si avvicinò da dietro, poggiandole il mento sulla spalla. Inspirò profondamente l'odore di gelsomino e lavanda che timido si annidava tra i capelli rossi della ragazza; poi, baciandola tra l'orecchio e la mascella, voltò lo sguardo verso la parete.

Strinse saldamente la torcia in mano e la alzò in aria, poco sopra le loro teste, per osservare qualsiasi cosa Shahrazād gli stesse indicando.

Effettivamente, nel muro si estendevano linee spesse e alte fino a due metri. A una prima occhiata gli erano sembrati rovi, poi serpenti uniti in danza. Nonostante tentasse, Styrkur non riusciva a carpirne la natura.

Shahrazād, invece, era sicura che quella fosse la figura dell'impiccato. La stessa che Eternità le aveva mostrato in una delle sue stanze.

Ancora col cuore stretto in gola per il bacio ricevuto, la fanciulla si era sporta ulteriormente verso la roccia. Ci poggiò la fronte, il naso e infine la guancia, sentendola ruvida ma calda.

Emanava un forte fetore, come tutto il resto d'altronde, ma un odore spiccava sugli altri: era certa fosse l'aroma crudo e ferale del sangue.

Così si issò sui piedi, allungando entrambe le braccia in alto, alla ricerca di chissà cosa.

"Cosa stai cercando, piccola volpe?"

Ma Shahrazād non ne era certa, perciò stette in silenzio, dilaniando la poco pazienza che Styrkur tentava saldamente di mantenere. Strinse la mano libera in un pugno, sentendo la mascella dolergli tant'era la forza con cui la teneva serrata.

Alla fine, sconfitto, aveva fatto ondeggiare la torcia, accompagnando la ricerca. Sopra di loro, ad appena qualche centimetro dall'ultima insenatura nella parete, si reggeva stabile un anello d'ottone.

Dal muro spuntava una mezza luna bucata al centro, come un nido forato allo stomaco, dentro al quale era stata incastrata quella che aveva tutta l'idea di essere una sottospecie di caraffa sbeccata.

Si reggeva a malapena, tutta storta e sbilenca, dando l'idea che da un momento all'altro sarebbe rovinosamente precipitata a terra.

"È un vecchio meccanismo," aveva tubato Wyulma soprappensiero, "devi cercare una leva al suo fianco."

Scontenta, Shahrazād si era fatta da parte, consapevole che le ci sarebbe voluto troppo tempo per trovare la leva. Eppure, la consapevolezza che sarebbero state le mani di Styrkur a trovarla, la rasserenò.

Era fatta anch'essa in ottone, ma la coltre di polvere e ruggine non ne aveva intaccato nemmeno una parte. Qualcuno si era assicurato di lucidarla, negli anni.

La azionò, tirandola verso di se con decisione. Produsse un rumore stridente, come di denti digrignanti e piatti rotti, che durò giusto il tempo di assecondare il movimento rotatorio della macchina.

La mezzaluna su cui si adagiava stretta la caraffa ebbe un sussulto, poi un altro e un altro ancora. Infine, e non senza qualche difficoltà, scattò in avanti. Styrkur si preparò ad afferrare al volo la brocca, ma questa non cadde. Finì di inclinarsi, come in un lungo inchino, e rimase lì, inerme.

Passarono una decina di secondi, poi la leva tornò da sola al proprio posto. La seguirono caraffa e mezza luna, accompagnate dal naturale stridio.

"È ovvio che il recipiente vada riempito." Gniew si guardò attorno, finalmente emozionato. Forse avevano trovato il primo tassello del puzzle.

"Sangue," aveva quindi aggiunto Shahrazād, le goti infiammate dalla fatica e dall'imbarazzo, "va riempito di sangue."

Sentì gli sguardi dei presenti cristallizzarsi sulle sue spalle come stalagmiti. Così, preoccupata di dare l'impressione sbagliata, si era sbrigata ad aggiungere: "l'odore è quello, senza dubbio. Sentite."

Si era fatta da parte, invitandoli a constatare. Per Styrkur non ce ne fu bisogno, comunque sia. Le credeva.

"Anche il colore lo ricorda." Wyulma si era avvicinata, accigliata, al macabro spettacolo.

"Di cosa si tratta, fratello?" Per la dea dell'invidia era ovvio che la porta non si sarebbe aperta semplicemente perché lubrificata da un po' di sangue. Doveva esserci dell'altro.

Sover, il più longevo nella stanza e tra i suoi stessi fratelli, aveva osservato il portone massiccio con aria vuota. Lo guardava, ma senza realmente vederlo. Era perso nelle migliaia di ricordi che possedeva, ognuno catalogato e riposto con cura in uno specifico cassetto della sua mente. L'aveva già vista da qualche parte, o così, almeno, gli sembrava.

"Ci sarà pur un modo per aggirare il meccanismo." Styrkur si era massaggiato la
mascella tesa, mentre i suoi occhi saettavo sulla sua Scelta. C'era qualcosa nel modo in cui continuava a mordersi le labbra, qualcosa nel modo in cui poteva vedere le dita dei suoi piedi distendersi e arricciarsi, mossi dal moto impetuoso dei suoi pensieri.

Shahrazād pensava. Pensava e sentiva, sentiva e pensava. I sassolini sotto i piedi la solleticavano, ma era un gesto sgradito, che quasi la disturbava. In un certo qual senso, alla rossa davano l'idea di tante mani in gara a chi l'avrebbe trascinata a terra per primo.

L'aria gelida, racchiusa come loro tra quelle mura sudicie, la stava facendo tremare come una foglia. Avvertiva i denti sbattere e dolerle, tanto stava soffrendo. Era aria di morte, quella.

"C'è una via per ogni cosa," aveva mormorato Sover, avvicinandosi alla parete, "ma non sempre è quella che speravamo."

Il dio aveva premuto il palmo aperto della mano contro la roccia e l'aveva sentita inusualmente calda, come il ventre pieno di una madre. Se avesse avuto pelle umana, se avesse avuto lo stomaco e il cervello di un essere umano, probabilmente si sarebbe sentito male. Poteva immaginare lunghi brividi tracciargli la colonna vertebrale e drizzargli i peli dietro la nuca, sulle braccia e sulle gambe; era in grado di sentire il sapore salato della miseria come se avesse già pianto. Come se piangesse da una vita.

Ma non lo era. Sover non era umano e niente nella sua natura gli avrebbe mai permesso di lasciarsi andare a emozioni mondane.

Con un grugnito gutturale, simile al latrato di un cane, il dio dell'accidia aveva schiuso le labbra in quella che Wyulma avrebbe definito come la sua espressione più comunicativa.

Era scontento.

"Riconosco il rituale. Pensavo fosse morto anni fa, assieme ai suoi dei. Qualcuno deve aver conservato le pergamene, anche se non mi spiego come Caspian sia potuto entrarne in possesso..."

L'unica spiegazione plausibile che era riuscito a darsi

"Lo dicevo, io, che quei maledetti selvaggi dovevamo farli fuori tutti, dal primo all'ultimo!" Gniew aveva colpito la colonna massiccia contro la quale, fino a poco prima, s'era appoggiato. Styrkur non fu in grado di vedere chiaramente il colpo, forse perché il dio era, nonostante tutto, incorporeo. Eppure, il rumore assordante che ne derivò gli fece domandare se non si fosse sbagliato.

"Parlate chiaro!" Era sbottato la Serpe, torvo in volto. Non ne poteva più degli dei e dei loro capricci, tantomeno sopportava il loro parlare per indovinelli ed enigmi. Aveva- avevano bisogno di risposte per poter agire, per muoversi verso la soluzione.

Shahrazād aveva fatto un passo verso la sua voce, sentendolo improvvisamente lontano. Non le piaceva come l'ansia storpiasse e inacidisse il tono di Styrkur; non che si fosse mai rivolto a lei direttamente in quel modo, certo.

Prima che a rispondere potesse essere l'impeto di Gniew o la scontrosità di Wyulma, Sover era intervenuto.

"Serve che il sangue venga donato, affinché il meccanismo parta. Non possiamo semplicemente dissanguare il primo malaugurato che troviamo lungo la strada. Noi abbiamo bisogno del consenso. Consenso per far del male, consenso nell'uccidere. Dev'essere un gesto d'amore."

Di sacrificio, l'aveva mentalmente corretto la ragazza.

Quand'era piccola, un'anziana sua consorella le aveva rivelato un segreto: prima di morire, pareva che la vita si ripresentasse agli uomini sotto forma di sogno. Gioie e dolori di un'esistenza intera si sarebbero prostate al suo capezzale per permetterle di viverle un'ultima volta, prima di trascinarla negli abissi dell'inesistenza. Si sarebbero presentate come una vecchia fiaba e senza rendertene conto, avresti udito la tua ultima favola della buonanotte: quella della tua vita.

Così, mentre la stanza calava in un silenzio glaciale, Shahrazād si trovò sorpresa nel sentirsi gettare indietro nel passato. L'aria fredda era diventata ovatta e il presente si era tramutato in una vecchia cartolina di cui non conosceva la locazione. Sapeva solo che lei era sia il mittente, sia il destinatario.

Chiuse gli occhi, sperando di vedere qualcosa, e invece i suoi ricordi la braccarono all'angolo della sua infermità, come a volerla sgridare: non si deve desiderare ciò che non ci appartiene.

Al tempo stesso, le sue orecchie sembravano esser sul punto di esplodere. I suoni di Città dei Peccatori l'avevano sovrastata, riportandole alla mente gli odori de mercato e della sabbia.

Sotto ai piedi poteva avvertire il pavimento deformarsi e cambiare forma, tramutandosi nei ciottoli del centro cittadino. Contro le gote, gli zampilli d'acqua del fiume in cui aveva passato le estati della sua infanzia.

Infine, il tintinnio dei vetri fuori dalla carovana di Vårdande, il sibilo delle carte durante la scelta e il pronunciarsi della sua profezia.

"L'appeso rappresenta un sacrificio da fare, tassativamente, per il raggiungimento di un obiettivo. È necessario che tu faccia qualcosa, che tu compia un sacrificio per un successivo benessere."

Prima di morire, gioie, dolori e realizzazioni l'avrebbero raggiunta per un'ultima storia.
Shahrazād stava per sentire la sua.

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