UOMINI D'ONORE
Cosa potranno mai volere un branco di pirati zingari e un gatto spelacchiato da una come me?
È una domanda più che legittima quella che mi tortura durante la discesa fino alla piazza. Ho fatto giusto in tempo a indossare una felpa che mi arriva quasi a metà coscia, la sciarpa di lana e la mia miglior faccia di bronzo.
Mi fermo davanti a loro e li guardo, in silenzio.
«Be'?» prorompo.
Billy Idol mi si struscia contro i polpacci e il suo ventre vibra a contatto con la mia pelle. Fa comodo un alleato felino, di questi tempi.
«Sembra che tu gli piaccia parecchio. Di solito soffia a chiunque non faccia parte della banda» fa Lalo, accovacciandosi, e con una vocina zuccherosa che mal si addice alla sua reputazione di accoltellatore folle pigola: «Vieni qui, amore di papà».
Il gatto si stacca e gli salta in braccio.
Non rispondo, incrociando le braccia sotto il seno. Il fatto che sia stata gentile non significa che questi tre spostati possano farsi trovare sotto la mia finestra quando gli pare e piace. Questo è quello che una ragazza responsabile dovrebbe pensare, almeno, ma io e la responsabilità abbiamo troncato i rapporti un mucchio di tempo fa.
La verità è che sono assetata di distrazioni, anche se potrebbero costarmi la vita. Meglio ammazzata di botte da Diego che imbozzolata nella mia crisalide di apatia.
È solo l'istinto di sopravvivenza che mi spinge a guardarmi attorno. Il problema di abitare in un paese così piccolo è che la gente non si fa mai i cazzi suoi e parla troppo.
Per il momento, la piazza sembra deserta.
«Il tuo ragazzo si è allontanato» dice Tancredi, monocorde, così all'improvviso da farmi sobbalzare.
Da quanto è lì? Perché sembra sempre sbucato dalle fogne? E poi cos'è, una specie di genio della deduzione?
«L'abbiamo sentito gridare poco fa.»
Svelato il mistero.
Riesco finalmente ad articolare la mia domanda: «Cosa volete?».
Lalo rivolge una veloce occhiata a Virgilio, quasi aspettasse il permesso per parlare. «Il fatto è questo: ci sembri una brava ragazza...»
Divertente.
«... e frequenteremo spesso il bar dove lavori, prima di rimetterci in viaggio. È probabile che parleremo spesso. Ma quel tipo, Diego... si chiama Diego, giusto?»
Annuisco.
«Ecco, vedi, il Buco, è il nostro territorio e ci vogliamo andare senza problemi di coscienza, mi capisci? Quindi...»
«Quindi di' a quel grandissimo pezzo di merda di darsi una calmata se non vuole ritrovarsi appeso per le palle con le bandiere del Municipio.»
L'intromissione di Virgilio strappa una risata acuta a Lalo: «Sì, qualcosa del genere».
Mi è abbastanza difficile condividere l'ilarità del motociclista più strambo del West, perché sono certa che dirlo a Diego andrebbe a scalfire il suo già traballante orgoglio, e tutti sanno quanto ci tenga.
Mi stanno praticamente chiedendo di compiere un'azione suicida, ma magari con questi qui ci si può ragionare.
«Non dipende da me. Forse sarebbe meglio se parlaste tra voi.»
Ho l'aria di chi spera di cogliere la palla al balzo, ma neanche troppo. So che Diego finirebbe comunque per vendicarsi: da qualunque angolazione la si guardi, brancolo verso un vicolo cieco.
«A che ora torna?» chiede Lalo.
«Molto tardi, credo. È andato alla rimessa con quei trogloditi dei suoi amici. Fa le tre del mattino tutte le volte, come minimo.»
Significa che la banda di Diego è radunata lì e che nessuno di loro bazzica per Valco. Da ciò deduco che non possono avermi vista scendere in piazza, né potranno farlo per un bel po'. Forse stavolta riesco a scamparla senza incorrere nel solito ciclo insulti-schiaffi-correttore-giustificazioni traballanti.
«Vuoi venire con noi?»
Oggi è la giornata dei sussulti ed è ancora Tancredi a procurarmene uno.
Lo fisso, completamente soggiogata dalla sua atonalità e dal modo schietto con cui si rivolge a me.
«Non credo sia il caso» replico a bassa voce.
Virgilio Spina mi indirizza un ghigno velenoso, che pare dire "Voglio stritolarti fra le mie spire". «Non avrai paura.»
Odio reagire in questo modo, come una stupida ragazzina capace di farsi intimidire per così poco. Che dire, sono uno stereotipo su due gambe: depressa, alcolizzata e antipatica. Devo levarmi dalla testa l'idea che questi tre sciroccati siano degli affascinanti e vampireschi cattivi ragazzi un po' grunge.
Sono dei criminali. È gente con la fedina penale sporca, un bagaglio di sangue e vite sulle spalle, e non c'è niente di affascinante in questo. Non li conosco, non so fin dove siano in grado di spingersi, e ho la sensazione di star camminando in un lago di catrame.
Eppure, eccomi qui che sostengo lo sguardo del capobranco, come se fossi la regina di questo regno di cenere. «Ne converrai che le premesse per un'amabile scampagnata non siano tra le migliori, Spina» osservo, calcando sul suo ridicolo pseudonimo.
L'idea di godere di un minimo di libertà mi spingerebbe anche verso un fosso pieno di lame? Probabile.
Prima che possa rifilargli un "no" secco, Virgilio Spina mi passa il braccio attorno alle spalle. Mi pietrifico di fronte a quella smorfia insinuante: «Via, per chi ci hai preso. Siamo uomini d'onore».
Non mi dà neanche modo di ribattere che mi si carica in braccio e mi mette a sedere sul retro della moto.
Capisco che stia per succedere qualcosa di ineluttabile quando imbocchiamo l'unico viale che conduce fuori da Valco di Nebbia.
A volte mi domando se esista davvero un mondo, là fuori.
Non conosco queste persone, non mi fido di loro e quel poco che mi è stato raccontato farebbe venire i brividi a un macellaio.
Le arpie della chiesa sostengono che Lalo abbia ammazzato l'ultimo parroco sotto il crocifisso della chiesa, apparentemente senza motivo. A guardarlo, ti dà l'idea di uno a cui ogni tanto prendono raptus di follia omicida. Padre Dolce, si faceva chiamare dai bambini, e penso che ai cancelli del paradiso San Pietro gli abbia fatto fare dietrofront con un timbro in fronte che recitava "Veditela con Minosse".
Tancredi si è fatto cinque anni per possesso e spaccio di metanfetamina, anche se penso sia l'unica cosa per cui è riuscito a farsi beccare fuori dall'Italia. Si mormora che abbia fracassato la faccia a un tipo in prigione, ma non sono mai riusciti a provarlo. E Spina ha mezza Berlino alle calcagna, non so bene per cosa, ma è davvero l'ultima cosa che voglio scoprire.
Le moto sfrecciano fra i sentieri della foresta, in questo buio denso e colloso. La radio montata sul retro del veicolo di Spina ringhia qualcosa come Is she weird, is she white? Is she promised to the night? And her head has no room. Sono i Pixies? Che gusti raffinati.
Non presta la minima attenzione a dove sta andando. Batte il tempo sul manubrio, urlando assieme a Lalo ed effettuando brusche virate all'ultimo secondo, appena in tempo per evitare di sfracellarsi contro gli alberi. Tancredi, invece, ci segue come uno spettro.
Ho il vago presentimento che a casa non ci tornerò neanche per scherzo.
Ci fermiamo nel posto meno raccomandato per una passeggiata notturna: davanti ai cancelli sgangherati del cimitero. Quello vecchio e in disuso, dove rimangono i morti che nessuno ha reclamato per il trasferimento, mica quello ben tenuto dal Comune e dai discendenti del signor Tresoldi, con le lanternine, i fiori freschi e le lapidi pulite tutte uguali.
«Okay, questa idea non mi piace neanche un po'. Voglio tornare indietro» dico.
Spina ride, scavalca il cancello e i suoi amici lo seguono. Sto per girare sui tacchi e correre lontano, ma la foresta che si apre di fronte a me è un bosco maledetto, una tana per demoni e streghe. Ho la sensazione che qualcosa di freddo, una bava di vento sottile come ragnatela, mi stia indirizzando verso l'ingresso.
Sarà la mente che mi gioca brutti scherzi, ma sembra di sentire il bambino del pozzo che ride fra i rami. Scatto in avanti e balzo dall'altra parte della cancellata, più vicina possibile a quei tre.
«L'avete sentito anche voi?»
«Sentito cosa?» chiede Tancredi senza guardarmi.
«La risata. Veniva dalla foresta.»
Spina ride ancora alla luna, premendosi la mano sul ventre. Deve trovarmi assolutamente ridicola. Con un'agile mezza piroetta mi si para davanti, sbarrandomi la strada. «Se te la fai sotto puoi sempre stringerti a me.»
Non so quale inappellabile forza del cosmo mi stia trattenendo dal tirargli un pugno.
«Non sto scherzando, è la seconda volta che la sento. Anche il...» mi blocco, abbassando gli occhi: «... gatto».
Quell'ultima parola risulta del tutto scarnificata di qualunque tipo di certezza. Ma io ricordo il modo in cui Billy Idol ha sostenuto il mio sguardo e gettato il sasso nel pozzo. Stava cercando di farmi capire qualcosa, di farmi vedere qualcosa. So che suona inconcepibile, ma ho la certezza che sia così.
Lalo salta in cima a una croce di granito conficcata nel terreno, le braccia spalancate per mantenere l'equilibrio. «Tu sei tutta strana.»
«Magari hai bisogno di rilassarti un po'.» Avverto la malizia languire nelle parole di Spina, ristagnarvi a fondo abbastanza da seccarmi la lingua.
La voglia che ho di rispondergli per le rime sparisce nel momento in cui Billy Idol punta qualcosa, miagola e si lancia tra le lapidi, così d'emblée. Qualunque sia questa interazione che lega me e il gatto di Lalo, so che è lì. Poco importa dell'imponente e affatto permissiva figura a becco di rasoio di Virgilio Spina, io so di non essere matta. Non ancora, per lo meno. Scarto di lato e lo aggiro prima che possa rendersene conto. Lo sento imprecare per la sorpresa. Non riuscirà a prendermi, avevo i tempi migliori nella squadra di atletica, al liceo.
Quasi non tocco terra, mentre lapidi e mausolei attorno a me diventano un'unica macchia confusa. Sfreccio tra i sentieri di terra battuta senza voltarmi indietro, e mentre i tre della Gang delle Spine domandano dove stia andando e quali pasticche abbia preso per stare così su di giri, le loro parole si tramutano in echi di fumo.
Mi fermo solo quando si ferma il gatto, con il fiato corto e l'adrenalina che scorre a mille sottopelle. Ci troviamo all'inizio di un vialetto lastricato, dalle mattonelle smussate e rotte in più punti. Billy Idol zampetta lentamente lungo il sentiero e io lo seguo. In fondo, c'è un piccolo edificio. Una sorta di mausoleo avviluppato da rampicanti stitici e muschio. Gli angeli si affacciano dal frontone simili a giudici inquisitori, le ali spalancate, che sembra debbano spiccare il volo da un momento all'altro. E qualcosa lo spicca, il volo, talmente all'improvviso da farmi guizzare il cuore del petto. Sono le cornacchie appollaiate in cima al tetto del mausoleo, che si librano in sinistri spostamenti d'aria.
Ogni passo che mi avvicina alla soglia dell'edificio suona intenso e cupo, come i rintocchi di un vecchio pendolo.
Mi fermo. Alzo gli occhi, lì dove le lettere consumate dal tempo riportano un nome che, anche se rovinato, risulta perfettamente leggibile: Adamo Della Vigna.
Asthetic by me. Immagini reperite da Pinterest, nessuna di esse è di mia proprietà.
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