UN FINALE FELICE
TERZA E ULTIMA PREGHIERA
Buongiorno e buonasera, Dio-oltre-le-dimensioni.
Qui è Elettra, ma stavolta non ho domande. Dubito comunque che potresti rispondere, ed è buffo il fatto che provi ad attivare una conversazione tramite una radio rotta.
Ci insegnano che la freccia del tempo è solita puntare un'unica direzione, quella dell'Avanti, e che dall'Avanti non è possibile tornare Indietro. Ma se fosse una favola? Se dall'Adesso si diramassero infinite frecce, che vanno avanti, indietro, sopra, sotto, a destra, a sinistra?
Ammetto di non essermi mai sprecata a chiedermelo.
Quando varchiamo le soglie della porta lo facciamo tenendoci le mani, con la paura che i nostri corpi stiano per sciogliersi, magari per ricomporsi degli atomi altrui, magari soltanto per disperdersi in un vuoto che non conosce aria, sole, luna e terra.
Invece camminiamo. Continuiamo a farlo, in punta di piedi, come quando si entra in una stanza buia e si ha paura di svegliare chi dorme.
Ci muoviamo anche se sotto le nostre scarpe non c'è niente a sostenerci. Ho paura, ma guardo la mia mano e quella di Dante, che sono intrecciate in un filamento d'ombra destinato a scomparire. Al momento pare non importare. Sono consapevole che la mia coscienza sopravvivrà. Ho percepito l'assaggio di ciò che siamo stati per quel poco tempo in cui abbiamo avuto un corpo, ed è come se la mia mente fosse più limpida, come se potessi filtrare la spazzatura e distruggerla.
Mi sembra di capire un'infinità di cose.
Fa caldo, dico, ma le mie labbra non si muovono.
È vero, risponde Dante.
Mi sembra di camminare sul sole. Lo so perché credo di averlo già fatto.
Che cosa strana.
Vivere, è strano. Troppo complicato. Troppo pesante.
Qui è decisamente più calmo.
Vero. Dovremmo rimanere.
Non penso.
E perché mai?
Mi è rimasto appiccicato addosso qualcosa, dalla nostra ultima esperienza: si chiama curiosità.
Hai la curiosità di vedere cosa si trova in un mondo limitato, dopo aver vagato per gli universi?
Sì. Gli universi sono grandi, infiniti e solitari.
È privo di senso.
Ma siamo ancora in tempo. Abbiamo ancora delle opinioni. Dobbiamo fare in fretta, prima che scompaiano anche quelle.
La luce attorno a noi si comprime quasi volesse schiacciarci tra le proprie pareti, ma guadagniamo velocità spinti dal soffio della volontà. I nostri piedi toccano qualcosa di duro, materiale, che scricchiola sotto le suole di gomma. La luce si affievolisce e nel cielo sgombro appaiono le cime puntute degli alberi che vogliono conficcarglisi dentro, in centinaia di spille da balia. La mano di Dante nella mia, la sinistra, è calda.
Quella di Tancredi, a destra, è più fredda.
Il tetto si è bruciato
Ora
Posso vedere la luna
Misuta Masahide (1657-1723)
Ci fermiamo mentre le ultime texture si aggregano ricomponendo il limitare del paese. La casa della signora Xu e del gatto bianco in sovrappeso che sonnecchia sulla soglia, il capannone dove Diego, Alberto e il resto della comitiva si riunivano con le loro attività da encefalitici senza speranza.
L'aria è meno grigia del solito e si riesce quasi a udire il respiro della campagna non troppo lontana. Deve essere ora di pranzo, perché il sole è alto e le voci sono scomparse. Fa caldo. Forse è estate.
«Riconoscete qualcosa?» fa Dante.
Non sappiamo rispondere. Potrebbe essere un'estate futura o precedente, chissà. «Cerchiamo di scoprirlo.»
Tank solleva un braccio, sbarrandomi la strada. «Cautela. Se dovessero vederci creeremmo un paradosso, e a quel punto potremmo davvero compromettere la realtà.»
Lalo pianta le nocche sui fianchi: «Be', tanto io in questo buco di culo non voglio rimanerci un secondo di più».
Mi giro nella sua direzione, le sopracciglia aggrottate.
«Oh, tesoro, non guardarmi così. Mi pare la soluzione più logica: niente Valco, niente rischio di scontrarsi con l'Elettra di questa Valco, niente universo che fa bam!» dice, battendo le mani a un soffio dal mio naso così all'improvviso da farmi sussultare. «Via di qui!»
«È l'opzione migliore, ma...»
Le braccia di Lalo cadono lungo i fianchi. «Ma vuoi vedere cosa è rimasto dell'altra te.»
Ci scambiamo qualche sguardo.
Alla fine, si tira un ceffone sulla fronte così forte che ho paura di vederlo ribaltarsi all'indietro. «E sia. Facciamo saltare in aria la realtà.»
Mi incammino verso una strada lastricata e più pulita del solito. Quando sfilo di fronte al gatto della signora Xu, quello che è sempre sul punto di stirare le zampe, drizza le orecchie e alza il capo. Ci fissa per un'interminabile manciata di secondi.
«Dov'è Della Vigna?» chiede Dante.
Guardiamo tutti Lalo. «Ho un cartello al collo con su scritto "gatto-sitter"? Sarà evaporato, quel coso parlante.»
La voce gli trema appena, come se fosse sul punto di piangere.
Intanto, il felino non si muove di un millimetro. Ruota la testa e osserva qualcosa, o meglio, qualcuno: un signore anziano dalla pelle
incartapecorita, che siede su una panchina in ombra. Indossa un paio di ciabatte logore e una vecchia canotta, da cui sfuggono peli simili a fil di ferro.
Sul citofono della palazzina spicca il nome dei Della Vigna.
Ringrazio il gatto con un cenno del capo e ci infiliamo in un secondo vicolo. Nonostante il silenzio, la città non dà l'impressione di essere deserta: si percepiscono echi di risate, rumore di piatti spostati e tintinnii di bicchieri, il vagito di un neonato, le ultime del telegiornale. Mi fermo sotto una finestra ad ascoltare la voce della conduttrice, che commenta l'imminente ondata di caldo che colpirà il nord Italia.
«... l'estate del 1995 sarà la più calda degli ultimi dieci anni...»
Il 1995. Siamo tornati indietro di tre anni.
Durante la nostra passeggiata per le stradine, di tanto in tanto ci nascondiamo tra portici e box aperti.
Il rumore di gomme che grattano il brecciolino della strada bianca mi spingono a spostarmi dietro una Fiat Cinquecento parcheggiata non lontano dalla recinzione di filo spinato in cui zampettano alcune galline. Riconoscerei quel pick-up azzurro tra mille.
Tancredi mi fa cenno di muovermi non appena il mezzo ha girato l'angolo, solo che, invece di allontanarmi, gli vado dietro facendo attenzione a non espormi. Dopo un paio di minuti il pick-up si ferma di fronte al capannone, tra copertoni polverosi impilati gli uni sugli altri. Le
portiere si aprono e Alberto Bufera salta giù, berretto da baseball, jeans e immancabile camicia a quadri fuori dai pantaloni. Dietro di lui c'è Diego.
Il battito del mio cuore rallenta.
Li ho visti morire entrambi di fronte ai miei occhi. Ho visto le bugie di Diego infrangersi contro il terreno e lasciarsi trascinare nel pozzo.
Ha i capelli più lunghi, il fisico tonico, una cartellina sottobraccio e una penna dietro l'orecchio. Scambia qualche parola con un gruppetto di uomini all'ingresso del capannone, tutti in tenuta da operai, con le braccia abbronzate e le scarpe sporche di calcinacci.
«Sembra che lavori in una specie di ditta di costruttori» osserva Dante.
Detesto il fatto che abbia messo la testa a posto, o almeno è quello che suggerirebbe una prima occhiata. Non intendo indagare oltre. Non mi riguarda più.
«Andiamo verso il centro.»
Senza aspettare il consenso di nessuno, mi lancio a passo spedito verso il viale principale. Sono un po' ingenua, un po' avventata, ma questo calore che mi brulica lungo l'epidermide è tutto nuovo e voglio berne sempre di più.
Inizio a correre. Dante mi chiama, mi chiede "Dove vai?", ma la sua domanda si disperde nel vento. Mi fermo solo quando arrivo alla piazza principale, dove la bandiera italiana sventola da sopra il palco montato per un'occasione che mi sfugge e il Buco risplende, rimpinzato com'è di facce sconosciute. Turisti.
Non ho mai visto turisti a Valco di Nebbia.
Non ho mai visto turisti e basta.
Dalle casse si sprigiona una specie di musica folkloristica simil irlandese, e lo striscione in cima al palco in allestimento recita: "Cent'anni dalla fondazione di Valco di Nebbia".
La piazza pullula di bancarelle che vendono souvenir del circolo di pietre, statue di folletti e fatine in pose conturbanti. I minuscoli busti di
Ezio Tresoldi che scrutano vacui il vuoto.
Il sole brucia il terreno e i sassi bianchi del pozzo, chiuso e addobbato da vasi gravidi di fiori.
Una forza mi risucchia all'indietro: è Dante, che mi ha agguantata per un braccio e tirata dietro il carretto dei gelati. «Sei impazzita? Hai voglia di far collassare questo mondo per una festa del cazzo?»
«Scusa.» Arrossisco, e la cosa pare divertirlo abbastanza. «Solo che è tutto così assurdo.»
Inizio a prendere coscienza. Un'immagine dopo l'altra, un pezzo alla volta, mi sfugge un singhiozzo senza controllo. Mi ritrovo tra le sue braccia, senza che si sprechi in chiacchiere. In fondo non servono: ci capiamo al volo.
I rumori attorno a noi sono un amalgama di melodie dissonanti, che si legano fra loro senza alcun criterio. Le voci, le risate, la musica celtica, il carillon del carretto dei gelati, la radiolina dell'uomo col cappello di paglia che sonnecchia vicino al distributore e che manda le note di You spin me right round dei Dead or alive.
Un tizio in polo grigia sale sul palco e saluta i cittadini, che si radunano di fronte al palco. Alcuni si affacciano alle finestre, sventolando bandiere triangolari. La confusione mi impedisce di seguire il filo del discorso. Si parla delle ambiziose idee di Tresoldi, dei primi lavori di bonifica e del progetto di un lago artificiale fra le montagne.
A Valco di Nebbia c'è un lago.
Allontano appena il volto dal petto di Dante e alzo gli occhi fino ai suoi. Ho una voglia improvvisa di sfrecciare sulla sponda fino a non sentire più le ginocchia. Sto per dirglielo, ma il suo sguardo si perde verso qualcosa dall'altro lato della piazza. Le sopracciglia scure si corrugano, la presa su di me si indebolisce.
«Elettra.»
Faccio per alzarmi, ma mi trattiene per le spalle. Accenna a qualcosa oltre il nugolo di teste assiepate davanti al palco, dove salgono alcuni ragazzi con addosso le divise bianche e verdi della squadra di atletica del mio liceo. Nulla di eccezionale, a quanto ricordo. Di tanto in tanto ci qualificavamo per i campionati regionali.
O almeno così credevo. Gli occhi di Dante si scontrano in linea d'aria con una ragazza dalla corporatura esile e i capelli nerissimi tenuti su da una treccia alta che le sfiora la nuca. Indossa la divisa, pantaloncini giro-natica e top bianco.
Sta scambiando qualche parola con una donna che porta un elegante vestito estivo color malva.
«Mamma.»
Quella parola mi scappa alla stregua di un ultimo respiro vitale.
Se ne sta lì, come se fosse ovvio, con una di quelle macchinette fotografiche usa e getta tra le mani dalle unghie pitturate di smalto nero e il sorriso affilato ma educato, il tipo di espressione da tarantola che attende il momento propizio prima di sputare veleno. Un'espressione che, volente o nolente, le ho rubato. Parla con la ragazza, che si volta di profilo.
Sono io. Una versione un po' più giovane e forse migliore di me, chi può dirlo. Lei non ride, non in modo inutile, per lo meno, e questo mio
dettaglio non è cambiato.
Ma poi c'è lui, in camicia leggera e inamidata, che si scompone in un sorriso a denti coperti, di quelli che raggiungono anche gli occhi incoronati da una raggiera di minuscole rughe. Le tocca il gomito. Lo fa con una familiarità che mi sconvolge, mentre con l'altra mano cinge la vita della mamma. Ha i capelli lisci, nerissimi, separati dalla riga laterale.
Mi serve un secondo per capire. Quando succede mi volto e scappo. Via, lontano, non so dove.
Cosa era quello?
Corro fino a sentire le cosce bruciare. Magari l'universo si sfaldasse ora, magari tutti mi vedessero e fossero travolti da un maremoto di domande, e magari quelle domande abbattessero le incrollabili mura delle loro roccaforti.
Il grido di Dante è una folgore, ma non è in grado di colpirmi, di braccarmi nella sua rete di prudenze ed è-meglio-così e tutto-si-risolve.
Le suole colpiscono l'asfalto della strada che svicola verso la statale. Fuori, verso la via dei vivi.
Oltre il guardrail, i cespugli risecchiti si muovono appena e l'afa tremola sull'orizzonte. C'è una stria azzurra oltre l'assembramento di alberi alti e dritti, il confine netto che separa l'acqua del lago dal cielo. Individuo un buco nella recinzione di filo spinato che separa la statale dal sottobosco, segno che qualcuno deve essere già passato prima di me.
Fletto le ginocchia, ci passo attraverso e attacco a correre tra gli alberi. Ogni tanto incespico in sassi e rami disseminati per il terreno di quella frazione della città in cui non ricordo di essere mai stata. L'effluvio delle acque torbide mi penetra i polmoni, vi si appiccica e li strazia: è un odore che stringe il cuore tra mani invisibili, che ti entra nel midollo fino a toccare l'autocoscienza, e un po' ti mangia dall'interno, ti riporta a un'infanzia che non hai vissuto e di cui senti la mancanza. È una mancanza un po' triste, ti fa rendere conto di quanto il tempo che ci trasciniamo dietro sia una coda stanca che ogni tanto si brucia e perde pezzi.
Pensavo di essere brava con gli enigmi ma, si sa, finché si tratta di risolvere i rompicapi altrui siamo tutti bravi.
Sarebbe bastato un attimo, soltanto soffermarsi su quegli occhi azzurri e malinconici, sul loro modo di guardare e non guardare, sempre in
cerca di qualcosa appena sotto la superficie.
Penso che avrei potuto farlo io, ma anche lui, che è uno che scappa.
Compio un ultimo slancio oltre il confine del fitto, ma atterro male e rovino a terra, finendo bocconi contro una sabbia finissima e bianca. Scorre tra le dita come olio. Mi si appiccica alle mani, al collo e al volto. Ho il fiatone e il cuore che minaccia di sfuggirmi dal petto, così mi tolgo la giacca di pelle e la getto tra le sterpaglie che crescono nella rena.
Vorrei strapparmi di dosso i vestiti, i pantaloni troppo aderenti che mi soffocano in questo clima torrido. Mi stritola da ogni angolo, rubandomi il respiro. Mi sfilo anche questi e li ripongo vicino alla giacca, poi le scarpe e i calzini. Rimango in canottiera e mutande, gioendo di questo vento salmastro che mi asciuga il sudore e si insinua dentro di me.
Tancredi mi raggiunge sul bagnasciuga, e si ferma accanto a una barca di legno mangiucchiata dalle intemperie. Puzza di acqua di sentita. La vernice bianca è sbeccata e costellata di alghe e fossili.
Sono uguali, penso.
Stanchi e bisognosi di una mano di vernice prima di ripartire.
«Tancredi.»
Mi torna in mente il momento in cui ha stretto la cinghia attorno al collo di Alberto Bufera. Non ha battuto ciglio, indifferente a qualunque conseguenza sulla sua psiche già martoriata dai sensi di colpa. Gli sono scivolati di dosso: una goccia d'acqua che rotola su una stalagmite schermata dal grasso, impossibilitata a lasciare il proprio retaggio secolare di carbonato di calcio.
Tancredi si gira e il suo volto di cera si è sciolto. Mi guarda con una paura per se stesso che si riflette su di me — io, che non ho ucciso Diego quando avrei potuto.
«Come riesci anche solo a pensare di avere a che fare con me dopo quello che mi hai visto fare?» chiede.
«Non mi interessa.»
«Non si tratta solo di quello, ma di... di tutto, Elettra, santo Cielo. Ti ho abbandonata e non ho avuto il coraggio di tornare. Ho preferito rinunciare, ogni giorno. Sono finito dentro perché mi serviva una scusa che mi tenesse inchiodato da qualche parte, e quando ho saputo di Olga... Dio. Perché l'ha fatto...?»
«Perché si è ammazzata, vuoi dire.»
Nasconde la faccia nella mano. «Sono stato io. Io vi ho fatto questo.»
«Smettila.» Barcollo verso di lui, con la sabbia che mi frana sotto i piedi e vuole tenermi lontana.
«No, Elettra, è meglio se...»
Lo abbraccio, e lui contrae muscoli, tendini e ossa. So che è un modo per nascondermi. Gioco al gioco della ragazza che affila lingua e coltelli perché non ha armi più sofisticate per difendersi. Nessuno me l'ha mai insegnato, Diego ne è la prova. Magari Tancredi può.
«Me ne sono andato.»
«E ora sei qui. A meno che tu non sia fatto d'aria.» Gli tasto la spalla con l'indice e lui si ritrae come se l'avessi scottato.
Sospiro. «Senti, Tank, in altre circostanze ci sarebbero un mucchio di cose da dire, ma siamo quasi arrivati alla fine e voglio il mio cazzo di finale felice, per una volta.»
Non parla più. Si volta verso quell'orizzonte che vibra d'energia e particelle invisibili, che succhiano la linfa vomitata dagli altri mondi della Concatenazione. Ci troviamo in un globo immenso, intricato, respirante. Un giorno il cielo potrebbe aprirsi sulle nostre teste e non farebbe alcuna differenza per i noialtri di luoghi lontani, per i mostri e le ombre che non abbiamo il coraggio di guardare dritto negli occhi quando ci mettiamo di fronte allo specchio.
L'ho fatto, una volta, così a lungo da riuscire a staccarmi dalla mia insulsa prigione di pelle e ossa, e guardarmi dall'esterno, studiarmi, dalle labbra e le occhiaie livide agli ematomi che, tra le costellazioni di nei, parevano nebulose di sangue.
L'ho fatto di nuovo, prima, e finalmente ho capito: quella in piazza non ero io.
Avrà la mia voce, il mio vestito di epidermide e cellule e le mie ginocchia secche, di quelle che potresti spezzare con un calcio, ma non la mia storia. Siamo libri diversi, originali a loro modo.
Tancredi sfila il coltellino svizzero dalla tasca e fa scattare la lama all'esterno. Se la gira tra le dita, la ammira, e ammira il suo polso bianco dove si intrecciano stradari di vene azzurre.
Ho ereditato il suo bisogno di autodistruzione.
Poggio la mano sulla sua, quella armata, e scuoto piano la testa. «Ti ho perdonato parecchio tempo fa. Ora tocca a te.»
«Il nostro universo è appena collassato.»
«Mi sembra un ottimo motivo per ricominciare.»
Mi sa che l'abbiamo sempre saputo, noi due. C'è bastato guardarci un secondo, quel giorno al Buco, per renderci conto di quanto fossimo simili.
Potresti essere mia figlia, mi ha detto.
E me l'ha detto con i gesti, quando ha messo a repentaglio la sua ultima riserva di umanità, spezzando la vita di Alberto davanti a me.
Stringo la presa sul manico dell'arma, in modo gentile, e gliela sfilo dalle dita. Tancredi non oppone resistenza e mi osserva mentre porto la lama vicino al collo. Arrotolo una ciocca liscia tra le dita e la taglio sotto il mento. Lo faccio ancora, e ancora, senza smettere di guardarlo in quella cascata d'inchiostro che volteggia fino a depositarsi attorno ai piedi, sulla sabbia.
Voglio ricominciare davvero, tingermi di qualche strano colore, indossare gli occhiali e dei vestiti diversi, chiamarmi in un altro modo — Olga può andare, se voglio portare un pezzo della mamma con me. Una persona non è certo fatta solo di queste cose. Non sono dei dati in un archivio, una descrizione spicciola dei tratti, un'assicurazione, una bella casa, una macchina, un cane a pelo lungo, un gatto che si lecca le zampe e ti fissa come se ne sapesse sempre una più di te mentre ti sbatti dalla mattina alla sera per un salario e quello che si fa ingozzare
gratis è lui.
Io so che persona voglio diventare: una di quelle che la gente nota di sfuggita, che scappa via come l'aria e la pioggia, ma come la pioggia è
libera e ti rimane un po' addosso. Magari una di quelle che i buoni padri e madri di famiglia scrutano dal patio della loro bella villetta del cazzo scuotendo la testa, ma che in fondo, si dicono, che bello sarebbe affidare i nostri tre marmocchi a una babysitter per i prossimi dieci anni, separarci, andarcene a ballare sulle spiagge della California o sotto le stelle di diamante di Buenos Aires o sotto la notte eterna d'Islanda, dove la gente è silenziosa e ride senza invalidare i tuoi spazi, e il vento solare sventra l'universo con la sua autostrada verde fotoluminescente, e magari poi ci rivediamo, non so, in un'altra vita. Una vita lontanissima, quasi un'altra realtà.
Tanto, mi dico, l'universo è più fragile di quel che pensiamo.
Ho i capelli corti, da maschiaccio. Mi giro verso il bosco, lasciando cadere il coltello a terra.
Dante e Lalo ci aspettano, osservandoci quasi fossimo una specie di quadro un po' isolato davanti a cui si fermano solo quei due, tre turisti più attenti degli altri.
«Possono avvicinarsi?»
«Aspetta.» Stavolta è Tancredi ad abbracciarmi. Trema come se dovesse scomparire da un momento all'altro.
Rimango un po' interdetta, ma lo lascio fare. Sarebbe coerente ai miei principi interrompere questo momento di drammatica tenerezza, eppure non ho tanta voglia di spaccarlo a metà con la mia incapacità comunicativa. Non ho mai ricevuto l'abbraccio di un padre, ma ho sempre avuto l'impressione che non sappiano bene dove mettere le mani, quando sei grande, in un modo che lascia intendere che non vogliano invadere il tuo mondo troppo a lungo, perché loro non lo capirebbero e tu non capiresti il loro.
Tancredi invece non lascia perdere, lui che ha aspettato quasi vent'anni per questo abbraccio imbarazzante e goffo, e non vuole perdersene nemmeno un secondo.
Lalo lancia un verso che dovrebbe essere pieno di dolcezza, invece mi ispira solo calci sugli incisivi. Ci pensa Dante ad affibbiargli uno scappellotto sulla nuca.
Quando Tancredi pone fine a tutto questo, faccio loro segno di raggiungerci.
«Quindi ora come funziona?» domanda Lalo.
«Bella domanda.» Dante si guarda attorno, inquieto, prima di soffermarsi su di me. «È chiaro che qui non possiamo rimanere.»
«No, infatti. I tuoi?»
Alla mia domanda, le iridi gli si intorbidiscono, ma tira l'angolo della bocca in un sorriso. «Erano alla commemorazione, mi sembrava stessero bene. Mia sorella è cresciuta.»
Vorrei che aggiungesse dell'altro, lui che si è fatto carico del mio bagaglio di immondizia e l'ha buttato nel mare, poi penso che abbiamo tempo, che non si esaurirà tutto qui. Il mezzo sorriso trasla in uno di quei suoi ghigni da serpente che un po' mi fanno girare la testa. «Per quanto la vista non mi dispiaccia, è il caso di mettersi qualcosa addosso.»
Tancredi raschia la gola con un colpo di tosse e Lalo per poco non si strozza con la saliva nel tentativo di ingoiare la risata.
«Giusto, niente commenti del genere di fronte a paparino.»
«Ah, è tutto così squisitamente imbarazzante» cantilena Lalo, con un sorriso in grado di abbagliare una stradina di campagna nella notte.
«A proposito di imbarazzo» Dante gli lancia uno sguardo, «hai visto Spens?».
Il volto di Lalo si imporpora di botto, mentre io e il mio ragazzo — c'è voluta la fine del mondo per farmelo considerare tale — ci godiamo lo spettacolo, ché la vendetta è un piatto da servire freddo. Si ficca le mani in tasca con una risata nervosa. «No. Mica è tipo da perdere tempo in 'ste cazzate autocelebrative dove la gente va a farsi le seghe sui padri fondatori per sentirsi patriottica.»
«Ora che ci penso, non ho visto nessuna delle Spine» osservo.
Dante annuisce. «Forse il gruppo è ancora intero.»
«Siamo troppo forti. Sopravviviamo attraverso le dimensioni.»
«Piantala, Lalo. È ora di pensare a una nuova identità. Un nome decente, per una volta.»
«Oh, grazie a Dio. Ho sempre voluto chiamarmi Eustorgio Trentini. Trent per gli amici.»
«Non puoi... lasciamo stare.»
«Io dico che non saprebbe nemmeno scriverlo.» Mi chino a raccogliere i vestiti. Devo rubarne qualcuno in qualche store per turisti, con questo caldo non riesco quasi a pensare. L'idea di Dante e Tancredi che gironzolano con addosso una brutta canottiera della squadra locale mi fa sogghignare. «Meglio avviarsi, prima che arrivi qualcuno. Oh, Lalo.» Gli scocco un'occhiata da sopra la spalla. «Troveremo il tuo ragazzo, okay?»
«Non è il mio ragazzo.»
«Non ancora.»
Sta zitto per un po', poi si appoggia la mano sullo sterno e la voce gli trema appena, mentre cerca di mantenere viva la parte del bastardo cazzone. «Sei sleale, ragazzina. Cerchi di farmi commuovere?»
«Via, non ho voglia di abbracciare anche te.»
«Come se l'avessi fatto. Come se l'avessi fatto, Elettra.»
Finisce un po' così, con uno spericolato psicopatico dai capelli rosa, un tossicodipendente, uno spilungone vomitato dalle fiamme e una stronzetta in mutande e anfibi che si avviano verso la statale.
Da qualche parte, ne sono certa, ci sarà un gatto che ci sta seguendo con lo sguardo.
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