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TRE PIUME

UN'ALTRA PREGHIERA

Ehi, Dio, sono sempre io.

La questione è questa: ho la sensazione di essere arrivata a un punto di non ritorno. Non ho mai avuto la presunzione di potermi voltare indietro e tornare sui miei passi, ma ora ho le spalle al muro, capisci?

Mi chiedo che genere di destino abbia in serbo per me, ammesso che tu non sia frutto dell'immaginazione collettiva e che si possa davvero parlare di qualcosa di "già scritto". Tutto quello che so è che ci sono queste strane forze che ci spingono verso l'inesorabilità delle cose.

Fino a pochi giorni fa ogni mio respiro era in funzione di ciò che avrebbe detto e fatto Diego, ma ora mi sembra di guardare la realtà dall'alto, come se non mi appartenesse.

Quella lì è Elettra, la ragazzina alcolizzata e autolesionista con un fidanzato morbosamente attaccato alle sue attenzioni. Adesso si è messa in società con tre delinquenti per acciuffare un essere demoniaco. Poverina. Fortuna che non mi è toccata una sorte simile.

Sono riuscita a spiegarmi? Quella non sono io. È come se qualcuno mi avesse presa, plasmata a mia immagine e somiglianza e rimpinzata di ricordi. E vedo chiaramente che tutto questo non finirà bene, ma... non posso fare a meno di andare avanti.

***


Il pavimento pulsa sotto i nostri piedi e il ritmo mi raggiunge la giugulare. C'è una festa, al piano di sotto, ma nessuno di noi quattro ha l'aria di volersi dare alla pazza gioia. Aleggia un silenzio irreale, in questa banda sgangherata, che accoglie lo scricchiolio delle macerie frantumatesi al ritmo dei passi.

Siamo a metà tra la danza dei vivi e la danza dei morti.

Il primo piano è un'immensa area spaziosa e buia: la luce delle stelle e dei falò accesi all'esterno balugina attraverso le vetrate che corrono lungo la parete, molte delle quali sono infrante. Non c'è molto da vedere, qui, se non alcune voragini che si aprono nel pianale a mostrare reticolati di ferro e la massa palpitante del piano terra, soppressa da filtri viola e blu.   

Seguiamo diligentemente Billy Idol. Fisso la schiena di Lalo da diversi minuti. Poi si ferma, tira su col naso e si volta: «Non c'è niente, qui.».
Virgilio lo ignora, superandolo, e avanza tra le nebbie di ghiaccio secco con un ringhio iracondo intrappolato in gola. «Si può sapere che ti prende?»

«Sono allergico alla polvere.»

«Non fare il coglione.»

«Ti ho detto che qui non c'è niente.»

Billy Idol miagola bloccando così la conclusione della frase. Lalo gli scocca un'occhiata e io faccio lo stesso, scossa da quel fremito che mi irradia sottopelle: sei un gatto, vorrei chiedergli, o un uomo incastrato in quella veste di pelo nero, artigli e piccole zanne?

«Che vuoi?»

Anche Lalo deve essersi posto la mia stessa domanda.

E Tancredi, implacabile e silenzioso giudice della compagnia, fa: «Hai fretta di andartene?». Gli si avvicina con movimenti di ombra, pronto a disgregarsi nell'oscurità. «Qualcosa non va?»

«No.»

Il puzzo delle bugie di Lalo mi raggiunge i polmoni mentre Tancredi fa dondolare il capo verso la spalla come una marionetta impiccata.
«Allora calmati. Non c'è alcun motivo di scaldarsi.»

Detto fatto, è con uno scatto che Lalo estrae un paio di lame dagli scomparti interni della giacca. Gliele punta alla gola e i suoi occhi si incendiano: «Mi scaldo quando mi pare».

La situazione si è intensificata in fretta.

«Ragazzi» esalo.

«Tu non sai niente di me.» Lalo ansima, mentre Tancredi lo osserva senza reale sorpresa. Poi gli ghermisce entrambi i polsi, spalanca le braccia in modo da allontanarsi le lame dalla gola e gli scarica una ginocchiata all'altezza della milza. Il ragazzo sputa una pioggia di saliva. Si accartoccia un attimo prima di andare al tappeto, carponi fra i calcinacci.

Guardo Virgilio. «Fanno sempre così?»

Lui guarda loro, con apatico interesse.

«Non intervieni?»

«Non sono affari miei.»

Tancredi abbatte la suola della scarpa al centro della schiena di Lalo, inchiodandolo a terra come una farfalla da collezione. Lo neutralizza definitivamente calciando via le lame. «E tu, credi di sapere qualcosa di me?»    

Scorgo una nota lugubre in quell'assoluta mancanza di odio. Tancredi fa quasi paura nel suo scivolare sull'Inferno, con la leggiadria di una libellula che si posa sulle teste sgozzate fra acque di palude.

«Va' al diavolo» soffia Lalo. «Drogato del cazzo. È inutile che ti conci come un damerino, i buchi sulle braccia non li copri, sai?»

Un secondo calcio, stavolta mirato dritto alla tempia. Con moderata cattiveria. Lalo emette un lamento che pare il pigolio di un pulcino, e a questo punto mi sento in dovere di interromperli. So che non è mio compito, ma non posso permettere che lo uccida. Sono sicura che Tancredi non ne abbia la minima intenzione, ma ciò che so di lui basta e avanza per instillare il germe del dubbio.

«Basta, per favore. Questa cosa dobbiamo farla insieme.»

Lalo sputa un grumo di sangue per terra

«Tancredi» provo ancora, «ti prego, lascia stare. Rimandate la questione a dopo». Lui riassesta la giacca con un paio di circonduzioni delle spalle e liscia le pieghe della camicia. Mi precipito da Lalo e mi accovaccio accanto a lui, porgendogli il braccio. «Avanti, alzati.»

Esita. Non si fida, non vuole l'aiuto di nessuno, ma alla fine si aggrappa e accetta il mio invito.

«Il folletto non si trova qui.» Lo dico così all'improvviso che, per poco, non me ne stupisco anche io.

Virgilio inarca il sopracciglio. «Scusa?»

«Non è qui. Però c'è qualcos'altro. Non è vero, Lalo?»

Lalo non risponde. Recita, indossa la maschera della confusione, ma non regge. Continuo a guardarlo, a cercare di astrarre una qualunque spiegazione.   

«Tu conosci questo posto» continuo, lentamente. «Ci sei già stato e non vuoi rimanerci. Perché?»

Virgilio ha detto che tutti e tre hanno dei trascorsi con il folletto e che nessuno è stato trasparente in merito. Lalo guarda il pavimento. O forse guarda oltre il pavimento. Lì, verso la voragine attraverso cui si intravede la folla.

Mormora: «Il gioco delle tre piume».

«Il gioco delle tre piume?»

«La favola dei fratelli Grimm.»

Un'altra favola. La nuca mi pizzica.

«Per decidere le sorti del regno, un re propose una prova ai suoi tre figli: chi gli avesse portato prima il tappeto più bello, poi l'anello più bello
e infine la ragazza più bella, avrebbe preso il potere. Allora soffiò tre piume e i principi ne inseguirono una ciascuno.»

«Okay. Questo cosa c'entra?»

«Quando ero piccolo facevamo un gioco, in quattro. Uno si fingeva il re e soffiava tre piume, gli altri dovevano cercare la loro e riportargliela il prima possibile. Il vincitore ereditava il regno.» Lalo guarda il soffitto e inizia a camminare, passo dopo passo, uno in fila all'altro. «Avevo questo amico, Tommy. Tommy vinceva sempre. Allora un bel giorno gli ho fatto: "Andiamo al mattatoio. È più difficile raggiungere le piume e ci sono gli spiriti". Ho pensato che quella sarebbe stata la volta buona.   

«Il re ha soffiato la piuma e mi sono detto di impegnarmi. Così ho fatto. La mia piuma è caduta attraverso le voragini, fino a qui. E ho notato che era vicina a quella di Tommy.» Lalo indica l'apertura nel pavimento. Attraverso il buco si intrecciano ragnatele di cavi e corde, sopra la bolgia delirante. «Ricordo che ci siamo guardati, io da una parte, lui dall'altra, e che siamo saliti sulle travi. Dovevamo mantenere l'equilibrio.
Sembrava di stare al circo, ma senza materassi sotto. Io la piuma non volevo proprio fargliela prendere. Mi sono persino messo a pregare. Mi sono detto: "Fa' che Tommy inciampi". Poi mi sono reso conto che fosse un pensiero cattivo e ho aggiunto: "Però non farlo cadere di sotto". E
l'ho pensato così forte che è successo.

«È comparso qualcosa, proprio alle sue spalle. Sembrava una piccola ombra. Un altro bambino, uno che non era stato invitato. Quando l'ho guardo meglio, però, mi sono reso conto che non lo era davvero.»

«Dov'era?» chiedo.   

«Lì.» Indica il lato opposto della voragine, e anche se non c'è niente riesco a captare la presenza di un corpo sottile che fluttua nel pulviscolo, un'ombra astrale pronta a disgregarsi. «Aveva la pelle grigia e secca. Gli occhi enormi, sorridenti, completamente neri. Mi ha guardato e ha detto: "Avrai ciò che hai chiesto".»

Deglutisce, le iridi scure fisse quel punto, come se rivedesse tutto, frame dopo frame.

«Ha spinto Tommy giù, di sotto. Lo ha fatto inciampare, ma non è caduto. No, le corde gli si sono aggrovigliate attorno al collo. Ho cercato di chiamare gli altri, ma Tommy era incastrato. Mi ha guardato, annaspava, scalciava nel vuoto, si stringeva le dita attorno alla corda. Non sono riuscito a raggiungerlo, se l'avessi fatto sarei caduto anche io. L'ho guardato, lui ha guardato me. Quando i suoi occhi si sono persi oltre le mie spalle, ero convinto che stesse guardando il folletto. Ma no, lui non c'era. Tommy era solo morto.»

Tremotino se lo è portato via.

Butto giù una gelatina alcolica, ma è una pessima idea. Ho già bevuto e sono scesa di grado, tuttavia, da qualche parte, nella mia testa capisco che non mi interessa. Non reagisco bene a questo tipo di storie, anche se mi piace far finta di avere la scorza dura. E poi, porta male passare per i luoghi dove sono morti dei bambini. I vecchi del paese sputano a terra tre volte quando qualcosa porta male.

Io vomito direttamente, fuori dallo stabile, nell'erba alta.

«Ma che...?»

Nitriti. No, risate. Risate alterate di gente non molto più lucida di me. Mi volto e noto Alberto Bufera avvinghiato a Jessica, Diego al seguito con una bottiglia di Sambuca Gold che, a giudicare dal loro stato, a inizio serata doveva essere piena.

«È la tua tipa, quella?» blatera Alberto, combattendo contro la lingua vischiosa della sua bambola gonfiabile sui tacchi. Colgo dell'aspra, drammatica ironia dietro tutto ciò: l'alba si appresta a illuminare i campi incolti, ma gli echi di una musica ipnotica si propagano ancora in gorgogli dissonanti.

«Dove sei stata? È tutta la notte che ti cerchiamo.» Non credo a Diego. Scommetto che per tutta la notte intenda gli ultimi dieci minuti.
Eppure viene verso di me, mi mette le mani addosso, mi tira i capelli. «Sei ridotta di merda, ma ti sei vista?»

Ho la gola piena di vetro, pezzi di diamante conficcati tra le sinapsi. Vorrei rispondergli a tono, farlo incazzare, far vedere a tutti quanto questo individuo sia rivoltante e indegno di essere chiamato uomo. Ma ho la mente annebbiata dall'alcol, dagli incubi e dalle paranoie, e riesco solo a vedere il volto gonfio di quel ragazzino che penzola nel vuoto.

Come la mamma.

Un attimo dopo sono per terra e il mondo diventa nero. Pochi secondi di incoscienza. Dopo mi accorgo di avere la bocca impastata di sangue.
Diego mi ha tirato un calcio in faccia e vorrei dire che la colpa sia delle pasticche. Alberto Bufera ride più forte con una mano davanti alla bocca e Jessica emette uno squittio di protesta. Dice che così mi ammazza.   

Apro gli occhi e incontro il cielo: il sole appena sorto è bellissimo, si lascia guardare più a lungo. È offuscato, impallidito dal groviglio di nubi, eppure è l'unica fonte di luce visibile in questo abisso di disperazione. Da ubriaca divento poetica. O forse, ho solo bisogno di attaccarmi alla prima cosa bella che ho a disposizione perché pensare fa male.

Ricordo poco di mia madre, l'ho avuta con me fino a undici anni. La nostra vita non era perfetta: lei non aveva nessuno e io davo il mio contributo facendo schifo nell'integrarmi a scuola, ma trovavamo il modo di cavarcela. Non so che faccia abbia mio padre, invece, però non sono mai stata determinata a scoprirlo. È stato solo uno dei tanti che se l'è sbattuta, non ha importanza. Insomma, prima che le venissi strappata via e mi spedissero a una famiglia affidataria buona e amorevole quanto un rostro in un fianco, mi diceva sempre: «Trovati qualcuno che ti tratti con i guanti di seta, un vero gentiluomo, e risucchiagli tutti i soldi che ha. Ma la cosa più importante è il rispetto. Il rispetto è fondamentale».

L'hanno trovata impiccata nella camera da letto di un brutto albergo qualche anno fa. Non mi ha neanche telefonato per dirmi addio.    

Io, per ripicca, ho fatto esattamente il contrario di ciò che mi ha raccomandato. Sono inciampata in qualcuno che è capace di farmi male, così, almeno, non mi tocca pensare a lei. Di Diego si può dire tutto, tranne che i suoi colpi non siano terapeutici per un'anima a pezzi.

Qualcuno mi afferra per le spalle e mi rimetto in piedi. Ho un fazzoletto premuto sulla bocca che mi ripulisce dai resti di me stessa. Alzo gli occhi verso Tancredi: mi sta stringendo per non farmi cadere. Ho bisogno di alcuni secondi per processare il resto della scena.

Lalo scansa Jessica, afferra Alberto e lo sbatte contro il furgone. Virgilio sferra un calcio alle giunture di Diego, lo agguanta per i capelli e lo getta nel vomito. Non gli dà il tempo di rialzarsi, o di vomitare a sua volta. Gli preme l'anfibio contro la nuca e lo tiene faccia a terra.

«Toccala ancora e ti ammazzo. Annuisci se hai capito.»

Il suo gesto eroico naufragherà nel mare delle conseguenze spiacevoli, ma la mia mente galleggia nell'incertezza. Un branco di pirati zingari giramondo devoti al Signore Oscuro ha appena fatto giustizia in questa latrina dimenticata da Dio, dove le comunicazioni con le forze superiori sembrano interrotte. Lo odio. Noi ragazze dobbiamo farcela da sole, passiamo la nostra vita a cercare di dimostrarlo, poi arriva questo squadrone di montati e crede di riuscire a mettere a posto i pezzi della mia vita nascondendo la polvere sotto al tappeto.

Diego annuisce, sfregando la faccia contro i liquami.

«Bene.»

Virgilio lo molla, mi viene incontro e mi strappa dalla presa di Tancredi. Mi prende in braccio. Sono la principessa in un mondo di favole narrate per spaventare i bambini. Voglio colpirlo e dirgli di mettermi giù, so muovermi sulle mie gambe. Voglio dirgli che questo non cambia assolutamente nulla e che non deve permettersi mai più di allungare le mani. Non sono di sua proprietà, o di Diego, o di altri, io correrò libera e scavalcherò i confini di questo carcere di massima sicurezza che chiamano città. Voglio dirgli tutto questo, ma non ci riesco. Lo sfioro appena prima di addormentarmi.

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