PRIMA FILA
La felicità è un lusso che non mi sono mai permessa di prendermi.
La verità è che siamo echi. E che il nemico siamo noi stessi. È proprio vero. Sono stata un vortice di emozioni distruttive che mi si sono coagulate al centro del petto. Mi sono lasciata trascinare sul fondo dal maelstrom dell'odio per me stessa, e finivo per annaspare, sperare in un appiglio a cui ancorarmi per venirne fuori. Ho imparato che, se ti vuoi arrampicare, gli appigli devi crearteli.
Ponendo, in tutto questo, che sarebbe illusorio parlare di mai e di sempre, di una vita che ricordo, ma che forse non ho vissuto. Chissà.
Probabilmente sono davvero un manichino, ora che non provo più niente. Sono seduta fuori dall'edificio, nell'erba rinsecchita, le ginocchia raccolte al petto e la schiena contro la parete ricoperta di graffiti e rampicanti.
Lalo cammina avanti e indietro, recitando sommessamente qualcosa che non riesco a capire. Guarda per terra, sordo a qualunque intervento esterno. Tancredi è sulla strada e non si muove. Dante si accovaccia accanto a me senza parlare. Cosa dovrebbe dire? Mormora frasi in una lingua sconosciuta, mentre sfiora il ciondolo con la stella di Davide. Credevo non praticasse ma, dopotutto, quando il tuo mondo sta per svanire le prospettive cambiano, trasmutano e crollano.
«Ti vorrei ringraziare» dico.
Dante interrompe la litania, ruotando il capo verso di me. «Per cosa?»
«Anche se è stato breve, ho conosciuto la pace. Pensavo che le cose buone fossero favole per bambini idioti. E...», il rimanente discorso si inabissa nel pianto apatico che mi solca le guance. Rimango zitta per quasi un minuto, prima di riprendere: «Ti avrei detto di sì, alla fine». Mi viene da ridere. «Alla tua proposta, intendo. Mi sarebbe piaciuto partire con voi e lasciarmi tutto alle spalle, e forse l'unico motivo per cui ho esitato è che... non so... quando vivi in un incubo, ti riesce difficile credere che possa diventare un sogno. Poi non ti vuoi più svegliare, capisci che voglio dire?»
«Anche troppo bene.»
«Tutto questo è quasi un sollievo. Da quando questa storia è iniziata non ho fatto altro che avere paura. Non di Diego, non del folletto, ma che finisse tutto. Mi sono sentita normale. Buffo, quando tutto questo non è normale.»
Tiro su col naso, asciugandomi le lacrime con il lembo della manica.
«Fanculo.» Strizzo le palpebre e comprimo le gambe contro il petto. Il mio respiro è sabbia nei polmoni. «Dici che, non so, dovremmo dare di matto? Cosa si fa quando si sta per morire? Magari un bilancio della nostra vita?»
«La nostra vita non esiste, Elettra.»
Mi mordo le labbra e non rispondo. Poi afferro Dante per i lembi della giacca e inchiodo la bocca alla sua. Credo mi mancherà, questo, anche se smetterò di essere per davvero ed è difficile sentire la mancanza di qualcosa, quando non è. Se la mia vita è stata davvero così breve, se dovessi fare davvero un bilancio, posso tranquillamente affermare di essere più soddisfatta del risultato. Questi tre scapestrati con gatto al seguito sono la mia famiglia e non è che una come me potesse aspirare a qualcosa di diverso. Ma va bene così, altrimenti sai che noia.
Mentre ci baciamo, Dante mi sfiora il collo e i capelli, e tra una pausa e l'altra spreca il tempo per riprendere fiato a dirmi che gli dispiace, e io gli rispondo che non mi importa.
«Mica è colpa tua se l'universo sta per saltare» gli faccio notare, con una risatina del tutto fuori luogo. «E poi, cioè, non solo assisteremo all'Apocalisse, ma abbiamo addirittura i biglietti per la tribuna d'onore.»
«Sei completamente suonata.»
«Lo so. Come una campana del cazzo.»
Mi rannicchio contro la sua spalla, chiudendo gli occhi. Non voglio davvero sprecare le mie ultime ore di vita nel crollo psicologico.
Peccato che Lalo non sia della stessa idea. Il matto dai capelli rosa gira sui tacchi e si dirige a passo di carica verso il viale principale.
Ignorando il mio richiamo, raggiunge il centro della strada.
«Pensi che dovremmo seguirlo?»
Dante si stringe nelle spalle. Tanto peggio di così. Ci tiriamo in piedi e, gatto e Tank al seguito, lo raggiungiamo proprio mentre ha iniziato a guardarsi attorno.
«Che stai facendo?» chiedo.
«Niente, fatti gli affari tuoi.»
Dante scuote la testa: «Non capisci che è inutile?».
Lalo pianta i piedi, puntandogli l'indice contro lo sterno così all'improvviso che pare volerglielo bucare. Ha le sclere arrossate, le pupille dilatate e i capelli sudati che se ne vanno in tutte le direzioni. Assomiglia a un marshmallow esploso nel microonde. «Ascoltami bene, Biancaneve.»
Con la coda dell'occhio, intravedo Adamo Della Vigna studiarci con una certa curiosità.
«Io non ci sto a farmi dire dalla Cosa che il mondo sta per finire. Capito?» sbraita. «Mi piaceva Spens. Sì, okay, l'ho detto, ti devo un deca. Levati quel sorriso dalla faccia. Quello che voglio dire è che se è vero che siamo echi... copie... fanculo, non ho capito e non mi interessa.
Quello che mi interessa è che Spens è ancora dall'altra parte. Ci sono tutti. E...»
«Aspetta.»
Tre paia di occhi si catapultano nella mia direzione.
«Hai detto dall'altra parte?»
Lalo mi fissa, confuso. «Che ne so? È stata quella cosa inquietante a dirci che siamo echi. Gli echi si originano sempre da qualcosa, no? Quindi ci sarà una fonte. L'altra parte.»
Mi porto l'indice alle labbra e alzo lo sguardo verso il cielo. Ragnatele di rami neri si propagano fra le nubi.
«È grande come l'universo, ma più piccolo» ripeto. «Strutture infinitamente piccole in natura possono ripresentarsi in strutture infinitamente grandi. Come...»
«... i neuroni» mormora Tancredi.
Ci guardiamo.
Un barlume di luce scalfisce l'atarassia perenne del suo volto. «I neuroni conducono gli impulsi elettrici ad altri neuroni, e così via fino alle sinapsi. Sono come dei ponti.»
«E se il nemico siamo noi stessi e la verità è che siamo echi, significa che la strada...»
I nostri occhi si arrampicano lentamente lungo il corpo dell'albero, fino su, dove la cima si inabissa tra le nubi. Il tronco è l'assone, i rami i dendriti.
«La strada che ci porterà dall'altra parte, alla prossima sinapsi, è quella.»
La mia voce freme, scossa da un fuoco di adrenalina che mi brucia le viscere.
Non è ancora finita.
«Adesso ti riconosco, vecchio tossico.» Lalo sogghigna, sistemandosi la spallina dello zaino. Punta l'indice verso il mausoleo di Tresoldi, come un pirata che ha appena scovato l'isola del tesoro. «Tirate fuori tutte le corde che avete.»
«È da pazzi.»
«Hai qualcosa da perdere, Elettra?»
«Non sappiamo nemmeno quanto è alto» gli faccio notare. «E se ci assorbisse come ha fatto con Tommy, Elia, Diego o Spens...»
«Hai qualcosa da perdere, Elettra?»
Scuoto la testa. Nulla, apparte questi tre.
«Bene. Ci legheremo gli uni agli altri con una corda e ognuno avrà due lame alla mano e due lame fissate ai piedi.»
«Sono quattro ciascuno, escluso il signor Della Vigna. Sedici in tutto. Abbiamo sedici lame?»
«Tesoro, così mi offendi.» Lalo spalanca la giacca, mostrandomi l'interno foderato da una moltitudine di coltelli. Ma cos'è, un ferramenta?
«Se dobbiamo morire cerchiamo di farlo in modo grandioso.»
Guardiamo in alto. Beh, sembra che a nessuno di noi piaccia troppo l'idea di stare qui a piangersi addosso: se ti vuoi arrampicare, gli appigli devi crearteli.
Alla fine, usciremo dalla via dei morti.
Braccia e gambe mi bruciano incendiate dallo sforzo, e i tendini sono corde di violino sul punto di spezzarsi.
Non saprei quantificare il tempo trascorso da quando la nostra scalata è iniziata. L'albero è una bestia senza fine che stringe il corpo di Tresoldi tra radici che sembrano grasse bisce in catalessi, rattrappite dal caldo che ribolle nell'aria. Finalmente, la statua maestosa sul trono di pietra è schiacciata da una forza più potente di lui.
Tra i miasmi che nascondono alla vista il corpo dell'albero, mi pare di distinguere brandelli di materia, macchie scure che orbitano attorno al tronco.
Lalo ci intrattiene con battute di spirito dai dubbi tempi comici.
"Papà, domani ho l'esame di spagnolo. Mi insegneresti qualcosa?"
"Hola va, hola spacca."
Se sono troppo occupata a insultarlo, la fatica mi sembra un po' più sopportabile. Certo, se devo essere onesta mi auguro di non dover davvero morire ascoltando come ultime parole le idiozie del matto dai capelli rosa.
Pianto il piede in un'insenatura scivolosa, che mi fa slittare l'ancoraggio per qualche istante. Poi tiro un calcio al tronco — un tronco molle, vischioso, che mi ricorda la materia organica — e conficco il pugnale nella parete.
Il terreno sotto di noi è scomparso, occultato dal denso strato di nubi. Sopra, non si distingue il punto di arrivo. Siamo sospesi in un eterno limbo di vapori.
«Per quanto le mie aspettative di riuscita siano basse» grido, «quale sarà la prima cosa che farete quando saremo dall'altra parte?».
«Dare fuoco a Valco di Nebbia.»
Ho paura che Lalo non stia scherzando, ma non me la sento di dargli torto.
Dante sbuffa, pugnalando il punto sopra la sua testa per darsi il giusto appiglio e issarsi un altro po' verso l'infinito. «Cercherò la mia famiglia, credo. Giusto per, sapete... vedere come se la passano.»
«La fine del mondo ti ha reso sentimentale» lo canzona Lalo.
«Io ho voglia di un gelato. Ci pensate che per colpa di questa non-esistenza potrei non aver mai mangiato del gelato?»
Il mio tentativo di sdrammatizzare si disperde nell'ennesima, baritonale raffica di vento che si abbatte su di noi.
«E tu, Tank?»
«Troverò mia figlia.»
Alzo lo sguardo fino alle sue scarpe. Non ha detto "vorrei" o "proverò a". Sarà che la realtà come la conosciamo sta per sgretolarsi, ma intravedo la fessura di uno spiraglio che si sta schiudendo sul suo mondo segreto.
«Mi sembra un buon piano. Hai qualche idea?»
«Un paio.»
Il silenzio che segue mi lascia intuire che la conversazione sia finita.
Questo, almeno, finché non ricomincia a parlare.
«Sua madre è stata piuttosto abile a tenermi a distanza. L'ho vista solo una volta quando era molto piccola, ma non ho avuto il coraggio di avvicinarmi.»
«Come si chiama?»
«Non l'ho mai saputo. Forse avrei potuto scoprirlo. Avrei potuto scoprire molte cose, di lei, ma come avrai capito sono uno che scappa.»
Le parole scivolano fuori lentamente, scandite in un modo che ricorda l'andamento di un vecchio orologio. Uno di quelli che, una volta riparati dopo anni passati a prendere polvere, temono di rompersi ancora.
«Di cosa avevi paura?» chiedo.
«Non lo so. Ero giovane e volevo fare tante cose. Poi è arrivata la casa per tossici fuori città.» Silenzio. «È lì che ho conosciuto sua madre.»
«Poi cosa è successo?»
Esita. «Siamo stati insieme per un po', ma quando è rimasta incinta è precipitato tutto. Lei voleva tenerla, io non volevo che la rovinasse con quella roba che prendevamo. Così l'ho fatta rinchiudere in una comunità di recupero. Disintossicarsi è...»
«Una merda» concludo.
Ripenso a tutte le volte in cui bere mi è sembrata l'unica soluzione per dimenticare cosa ero diventata. È come amarsi e odiarsi nello stesso istante: vuoi proteggerti, ma allo stesso tempo vuoi ribellarti a te stesso. E quando vuoi tornare indietro, il tuo corpo si è ormai abituato a un carburante diverso. Senza, non cammina più.
«Non dormiva, né mangiava. Quando riusciva a prendere sonno si svegliava urlando in un letto zuppo di sudore. Sapevo che avrebbe preferito morire. Riuscì a ripulirsi e a partorire, ma quando fu dimessa non voleva più vedermi. Però...»
«Però?»
«Però un tossico non smette mai di essere un tossico. So che gliel'hanno tolta e che qualche anno dopo si è uccisa.»
Tancredi espone le cose quasi fosse la vicenda di qualcun altro, ma percepisco una crepa attraversare quell'asettica muraglia di informazioni. Un tossico rimane un tossico, dice, ma non l'ho mai visto assumere nulla. La prigione deve averlo aiutato a ripulirsi, anche se, quando il desiderio bussa alla porta, si può diventare capaci di cose che in condizioni di normalità ci illudiamo non facciano parte di noi. Che siano
troppo poco dignitose.
A mio parere, la dignità è un concetto tassativamente umano. Ciò che è poco dignitoso muta con il mutare della società e, in un certo senso, è come se il pudore fosse in divenire. Ma quando vuoi la roba, sei un po' meno umano. Ti vergogni meno di ciò che desideri e di ciò che saresti disposto a fare per ottenerlo.
Lo so perché la mamma era così. E, spesso, ho paura di diventare come lei.
A volte mi chiedo se io, Tank o noi tutti non siamo dei funamboli sospesi sul baratro, in ogni momento.
«Non hai provato a indagare? A chiedere in giro?» domando. «Valco di Nebbia non è poi così grande.»
«L'ho fatto. In quei primi anni aveva talmente paura che scoprissi qualcosa su di lei che se ne andava a presentarla alle persone con un nome falso.»
«Che stronza paranoica» è l'unica cosa che mi viene da dire.
O, probabilmente, si sono divisi le colpe a metà.
«Non per interrompere questo toccante momento da confessionale» interviene Lalo, «ma sono io o la pianta del Fagiolo Magico si sta inclinando?».
Mi sporgo di lato, quanto basta perché il mio sguardo scavalchi il corpo di Tancredi. Lassù, il tronco si schiude in dendriti di rami che si allargano nella volta celeste.
Sono le strade.
Migliaia di strade che conducono a migliaia di diversi mondi.
«Il nostro è lì, da qualche parte» grida Dante.
Siamo l'eco di una realtà parallela dispersa in una foresta di possibilità. Non sono mai stata brava in matematica, ma persino io arrivo a capire che le probabilità di trovare la nostra siano infinitesimali.
Lo sappiamo tutti.
Dante percorre un altro breve tratto. «Continuiamo.»
L'arrampicata prosegue nel silenzio, stavolta, mentre la fatica annega nell'istinto di sopravvivenza che ci tiene aggrappati alla nostra non-esistenza. Ci issiamo sul primo ramo, un largo tubo della stessa materia vischiosa e nera che curva fino a diventare parallelo alla terra — una terra che, attraverso i mulinelli di nubi sanguigne, sembra sparita. L'albero non è più un albero, ma un ponte, una linea orizzontale e brulla che prosegue immergendosi in un lucore diffuso, una porta senza bordi.
Dante mi agguanta per le braccia, tirandomi su. Siamo qui, tutti e quattro, che guardiamo la luce alla fine del tunnel.
L'uscita.
Forse.
«Temo che dovremo salutarci qui» miagola Adamo Della Vigna. «Qualunque cosa succeda, è stato un onore lavorare con voi.»
Lalo sfila il gatto dall'interno della giacca e lo appoggia a terra. Esitando, gli si accovaccia davanti. «Perché hai fatto tutto questo?»
«Perché sono un'eco della vostra realtà, ragazzo. Sarò anche una copia, ma sono vecchio e stanco, e non voglio morire con la consapevolezza di non aver fatto tutto il possibile per aiutare anche solo una persona.» Esegue un piccolo inchino che lo fa assomigliare a una specie di maggiordomo. «Bisogna ribellarsi alle leggi universali.»
Lalo lancia uno sguardo alla pozza di luce che borboglia nel vuoto. Fa schioccare la lingua sul palato, come se ci fosse ancora qualcosa che gli dia profondamente fastidio. «Fanculo, perché proprio un gatto?»
«I gatti piacciono a tutti.»
Penso proprio che mi mancherà.
Laggiù, la pozza di luce sembra volerci risucchiare.
«Andiamo?» dico, anche se nessuno si muove.
Lalo avanza un passo. «Secondo voi cosa c'è dall'altra parte?»
Non rispondiamo. Magari il nulla, il che, da un punto di vista epicureo, è un fattore positivo. Se nulla esiste, non c'è sofferenza. Finisce tutto.
E il nostro eco si spegnerà.
In ogni caso, non ci resta che scoprirlo.
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