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MOVENTI

Il mio è un sonno cupo e senza sogni, di quelli in cui ci si immerge lentamente nel freddo oceano dell'oblio. Solo poche immagini ne solcano la superficie, e sono fotogrammi confusi, senza scopo: brevi urla, sguardi, mani che si intrecciano, deliri palpitanti. Poi qualcosa, qualcuno, mi scrolla con forza.

Apro gli occhi con la gola riarsa e la schiena a pezzi, schiudendo i miei sensi al vento gelido che sferza la sommità del colle e a un cielo in cui le stelle iniziano a scomparire. È quasi l'alba, eppure una luce mi acceca, obbligandomi a portarmi le mani davanti alla faccia.

Una voce sbraita: «Porca puttana, Elettra!».

La luce corre lontano e il corpo di Virgilio Spina si accovaccia davanti a me. Il suo volto è contratto in un'espressione che potrebbe lasciar trapelare preoccupazione, se solo non avesse sempre la faccia di qualcuno che vuole cambiarti i connotati.

«Cosa...?» esalo con la voce ancora impastata dal sonno.

«Ti sei fottuta il cervello, ragazzina? Sono ore che ti cerchiamo.» Neanche il tempo di mettere ordine nella mia testa che Virgilio spegne la luce della torcia — quella che, fino a qualche secondo prima, si è premurato di piantarmi dritta negli occhi — e mi strattona per tirarmi in piedi. «Tank ti aveva detto di tornare all'appartamento. Hai solo una vaga idea di quello che avrebbe potuto capitarti?» Mi molla di colpo e mi rifila uno sguardo che, se potesse, mi darebbe fuoco. «C'è un mostro a piede libero, un cadavere seppellito nella foresta e quel figlio della merda che vuole ammazzarti. Tu...»

«Non dirmi quello che devo fare.»

La mia voce è un soffio. Mi guardo le ginocchia sbucciate e ricoperte di graffi, le mani sporche di terra. Virgilio non parla, si limita a fissarmi come se fossi completamente uscita di senno. Il che, considerato quanto sta accadendo, è plausibile. Trovo la forza di alzare il capo e restituirgli un paio di occhi che grondano rancore, una vista che uccide qualunque suo tentativo di scaricarmi altro astio addosso.

«Tancredi me l'ha detto. Volete andarvene. Un classico, in realtà, ma potevate almeno evitare di riempirmi la testa con tutte quelle storie sul rimanere uniti, perché poi le ragazzine finiscono per crederci.» Tiro su col naso e mi strofino il lembo della manica sulla guancia. Dio, non riesco a capire se mi sento più arrabbiata o patetica. «Fanculo, la colpa è mia. So che magari a te non fregherà granché, ma volevo fidarmi, per una volta. È che se ne vanno... sempre... tutti...»

Le ultime parole mi ballano in gola, prima di sciogliersi in un pianto a dirotto.

Oh, il dolce torpore della sindrome dell'abbandono. Non mi era mancato per niente.

Nascondo il viso tra le mani perché odio dover rompere gli argini, ma non posso fare altrimenti.   

Se ne è andato mio padre. Se ne è andata mia madre. Se ne sono andati i pochi amici che avevo. Se ne è andata la pallida speranza di provare a costruirmi un obiettivo, uno qualsiasi, a cui potermi aggrappare e in cui avere fede nei momenti più bui, cosa che dovrebbe rendermi umana, un individuo di questo mondo. E mi spaventano quelli che in radio, in tv, nei libri, sui giornali e attraverso le canzoni ci dicono di sognare in grande, perché non hanno idea, non hanno la minima idea di quanto sia pericoloso per le persone come me: significa gettare benzina su una fiamma spenta.

C'è silenzio da parte di Virgilio, e dura abbastanza a lungo da convincermi che il mio interlocutore non abbia niente da dire.   

Poi, il rumore dei suoi passi e la mano si poggia goffamente sulla mia testa.

«Elettra.» Il tono di Spina è incerto, sembra quello di un fratello maggiore costretto a badare alla sorellina isterica. Non è molto a suo agio con quei metodi, ma almeno ci prova. «Non so cosa tu abbia preso per impazzire così, ma toccava discutere con i ragazzi di chi avrebbe preso il mio posto in nostra assenza. Come ti avevo già spiegato, io, Tank e Lalo abbiamo dei conti in sospeso, qui.»

Mi gelo.

«Quindi...?»

«Quindi nessuno andrà via.»

L'alba si affaccia oltre la linea dell'orizzonte, gettando luce sui campi. Alzo il capo, il volto congestionato dalle lacrime e le ciglia umide. Sposto lentamente gli occhi verso Virgilio che, con la mano ancora ferma sulla mia testa, inclina la sua e forza le labbra in un sorriso che dovrebbe essere incoraggiante, ma che lascia trasparire tutta la voglia che ha di farmi uscire fuori dai gangheri.

«Certo che salti in fretta alle conclusioni, tu.»

Un paio di imprecazioni attirano la nostra attenzione. Lalo e Tancredi sbucano da dietro uno dei sassi del circolo, il primo sbuffando e ansimando per la fatica, l'altro senza neanche una sgualcitura sulla camicia.

«Gesù Cristo, sforzi del genere dovrebbero essere proibiti a quest'ora. Ah, ecco dove ti eri cacciata!» sbotta Lalo. Poi si ferma e, alternando l'attenzione da me a Spina, corruga le sopracciglia tatuate. «Ecco, lo sapevo. L'hai fatta piangere. Ce la fai a non comportarti come il Tristo Mietitore per cinque minuti? Che hai combinato?»

Il giorno ha scelto decisamente il momento meno opportuno per affacciarsi sulla terra, perché credo di arrossire dal collo fino alla punta delle orecchie. Spina coglie la palla al balzo e, sfoderando il più stronzo dei sorrisi, mi indica con il pollice: «La mocciosa è entrata in paranoia perché credeva che l'avremmo mollata. Tank, magari la prossima volta cerca di essere più specifico, ti sei fatto davvero fraintendere. Anche se la cosa è uno spasso, devo ammetterlo».

«Sta' zitto!» Il mio tono di voce risveglia le capinere appollaiate sul capo di Fritz lo spaventapasseri, che ha sempre la faccia triste. Lo sarei anch'io, se vivessi con un bastone ficcato nel culo.

Saluto il nuovo giorno con una profusione di insulti, mentre Tancredi non fa una piega, Lalo mi fissa tra l'allucinato e il sornione e Spina non perde occasione per concedersi una grassa risata ai miei danni.

È tutto così sbagliato. Ho ancora la puzza di morte addosso, e i tre dell'Ave Maria se ne stanno lì come se lo Strappo non fosse affar loro.

«Via, Elettra.» Lalo passa il braccio attorno alle spalle, guadagnandosi una gomitata fra le costole. «Non è morto nessuno. Oh, pessima scelta di parole.»

«Cazzo, piantatela!»

«Perché invece non la pianti tu e ammetti che ti piacciamo? A noi tu piaci. Specialmente a Virgilio, lui ha un debole per te.»

«Tu sei nato al contrario.»

È indescrivibile la mia bramosia di scavarmi una fossa proprio lì, in cima al colle, e seppellirmici dentro. Questo momento diventerà un ricordo, un inestinguibile bagaglio che minaccerà di schiacciare mio orgoglio. Ringrazio l'incapacità di Tancredi di provare una qualsivoglia emozione o interesse nei confronti di tutto ciò che rientra nell'insieme Cose Divertenti, perché con voce atona mi chiede: «Perché proprio qui?».

Attendo che la risata scanzonata di Virgilio si esaurisca per parlare.

«Non lo so. Tornavo da casa dei Della Vigna e...»

«Zaccaria Della Vigna è completamente suonato» fa Lalo.

«Senti chi parla. Ad ogni modo, è stato lui a nominare questo posto. Dice che i circoli di pietre sono qualcosa di magico. Probabilmente è stato quello ad attirare il folletto.» Mi guardo intorno nel silenzio dell'alba. Il vento attraversa i campi e scuote l'erba alta, riarsa dall'Autunno agli sgoccioli. Gli spiego la teoria della catena e dell'indovinello irrisolto, e loro mi ascoltano. È quello che fanno.

Vorrei sorridere. È che non riesco a frenare quella bolla di sollievo che mi è sbocciata nel petto: sono qui, ancora.

«Il memoriale è stato costruito per la fondazione di Valco di Nebbia» riflette Tancredi ad alta voce. «E Zaccaria parlava di una soglia di
passaggio... un portale, forse.»

Lalo solleva il sopracciglio: «Dovrebbe avere senso?».

«Ne dubito» scrollo le spalle. «I portali però non attirano entità, che io sappia.»

«E, di grazia, ti staresti basando su...?»

«Dio santo, Spina, sulla mia cultura cinematografica in fatto di film horror di serie B.» Sbuffo al cielo, mentre Lalo non perde occasione per ridersela e ricordarci quanto gli piaccia vederci battibeccare. «Pensateci. I portali, come suggerisce la parola stessa, sono porte. E le porte conducono da un posto a un altro. Il folletto non è un essere del nostro mondo, ma in qualche modo deve esserci arrivato.»

Attendo una qualche sorta di imprecazione da parte di Spina e compagnia, ma ricevo del muto, cupo assenso: è una teoria che, nella sua assurdità, sta in piedi.

«C'è un'altra cosa.»

Esito sotto i loro sguardi.

«Io sono la prossima.»

Ma non ho paura: succede, quando non hai nulla che può esserti portato via.

«Adesso dobbiamo proprio andare.» Tancredi ci fa cenno di seguirlo giù per la collina. «Se qualcuno ha denunciato la scomparsa di Bufera e ci trovano qui potremmo avere dei problemi.»

Già, Alberto. Una scarica di brividi mi percorre la schiena: ho paura di domandare a Tancredi dove...

Non riesco a togliermi dalla testa l'immagine della sua brutta faccia coperta dalla terra. Terra nella bocca, terra nel naso e nelle orecchie.

Qualche minuto dopo stiamo correndo attraverso i campi, ma evitiamo la strada principale.

Prediligiamo invece il serpente di brecciolino bianco che scompare nella boscaglia, dove a malapena arrivano i rumori degli pneumatici che grattano contro l'asfalto della provinciale. Una volta nei pressi delle prime abitazioni, seguiamo le indicazioni di Tancredi per evitare strade affollate e videocamere. Ha una specie di maledetta mappa mentale, in testa: la sua memoria è così precisa da spaventarmi.

Ci consiglia di separarci e darci appuntamento in quella che è diventata la nostra base. Stupidamente, il pensiero che dovrei passare a casa a recuperare dei vestiti o degli effetti personali mi attraversa la mente. Ma Casa è un nido di spine e Diego il suo re, silenzioso come tutti i predatori prima di attaccare.

Ci ritroviamo in cucina una mezz'ora dopo. Metto il caffè sul fuoco, un gesto necessario più a tenermi occupata che dettato dal reale bisogno di energie. L'adrenalina che mi scorre in corpo basterebbe da sola a tenermi sveglia per un paio di giorni. Sento gli altri prendere posto al tavolo, anche se do loro le spalle.

Un attimo dopo, ho lasciato la moka al suo triste destino. «Avete qualcosa su cui scrivere?»

Tancredi sparisce nello sgabuzzino e ne riemerge con una lavagnetta bianca e un pennarello dall'aria consumata. Sfila dal muro un brutto quadretto a tema marinaro per poterla appendere. Comincio a tracciare uno schema:

Adamo Della Vigna: vita
Zaccaria Della Vigna: figlio
Lalo: Tommy
Virgilio: faccia
Tancredi: ?
Elettra:

Esito sul mio nome, considerando la lunga lista di cose che avevo e che non ci sono più.

«Dobbiamo essere chiari, tra noi. Ognuna di queste persone ha già provato a cercare la soluzione, ma ha fallito e ha perso qualcosa.» Li guardo. «Cosa avete sbagliato?»

Nessuno ha fretta. Virgilio si sfiora la bruciatura che gli si arrampica lungo il lato destro del collo e che si inabissa oltre lo scollo della maglietta. «Il mio errore è che non ci ho dato troppo peso.»

«Quindi non ci hai neanche provato?»

«Non ho detto questo. Ci ho provato. Nella mia testa, era una soluzione che aveva senso. Ho pensato che la strada potesse essere quella che attraversa Valco, e che conduce al cimitero. Che il nemico potesse essere Tresoldi, la statua sul mausoleo. Non ho mai trovato la verità.»

«Poi cosa è successo?»

«Che Lui non è stato soddisfatto della risposta.» La pelle cicatrizzata di Spina si raggrinzisce quando accenna uno dei suoi sorrisi a becco di rasoio. «Non è successo nulla, nell'immediato. In quel periodo avevo circa sedici anni. Dopo la scuola lavoravo in cantiere, visto che lo studio non era esattamente il mio forte. È poi a casa servivano soldi. Ci fu un incendio dovuto al cortocircuito di alcuni macchinari, morirono un paio di operai».

«E tu sei rimasto scottato» deduco.

«L'ho visto tra le fiamme. Ho pensato che fosse un ragazzino di cinque, massimo sei anni, forse il figlio che qualcuno aveva portato sul posto. Poi ho capito che aveva qualcosa di diverso.» Virgilio stringe le palpebre e guarda oltre la porta finestra. Il pozzo è ancora circondato da nastri gialli e si notano le sgommate della volante attraverso il brecciolino della piazza. Poche orme, fra quelle nuove, perché nessuno ha molta voglia di uscire in questi giorni.

Il caffè borbotta alle mie spalle e una sottile colonna di fumo si innalza verso la cappa. «Lalo?» chiedo.

«Considerando che all'epoca ero un ragazzino scemo che parlava a malapena l'italiano, ho pensato che la strada potessero essere le piume e Tommy il nemico. Ma anche a me mancava la verità.»

Lascia cadere il discorso concentrandosi sulle macchie di muffa che costellano il soffitto.

Verso loro il caffè e dispongo le tazze sul tavolo rivestito da quell'orripilante tovaglia a fiori, ma nessuno, me inclusa, pare avere intenzione di sfiorarle, neanche con gli occhi.

Tesa, lascio che i miei traslino verso Tancredi. Siede composto, i palmi in grembo e le dita distese.

Lalo mi anticipa. «Lui non parla delle sue cose.»

Lo guardo. E vedo il sangue invisibile sulle sue mani, le iridi color cobalto ferme sul volto congestionato di Alberto Bufera, le palpebre che non sbattono quasi mai. È una specie di spirito che segue la partita sulla scacchiera, senza giudicare.

«Io non ho mai giocato» dice. «Sono scappato da Valco e il folletto si è preso mia figlia.»

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