LA GRANDE ILLUSIONE
Il sentiero che conduce all'ex mattatoio pare un bianco serpente addormentato in mezzo ai campi aridi, bruciati dalle radiazioni di un sole che fa tremare l'aria e si specchia nelle carcasse marcescenti di furgoni, fusti di benzina, camion e motociclette che costellano la landa. Al nostro passaggio, il vento sabbioso colpisce le lamiere in raffiche di detriti, producendo un ronzio basso e prolungato. Devo coprirmi il volto con un braccio per evitare che la bufera di polvere mi impasti la bocca.
Le suole delle nostre scarpe scricchiolano contro il brecciolino e i frammenti di vetro che cospargono il sentiero. L'ex mattatoio da qui ha un'aria imponente, quasi sepolcrale. Un lampo fende il cielo e mi pare di intravedere una macchia, qualcosa che si innalza dalla struttura ma che scompare subito dopo.
Dante mi cammina a fianco, uno stelo scuro e allungato, smisuratamente alto, che si aggira per quel mondo come se fosse stato sputato dalla terra sotto di noi. I suoi chi in tempesta viaggiano tra le carcasse dei mezzi di trasporto e saltano dalla gru con i paranchi sgretolati al chopper riverso su un fianco, simile a un cervo abbattuto da un colpo di fucile. Rallenta, si ferma accanto a quest'ultimo e assesta un colpetto alla marmitta.
«Tutto bene?» domando, senza che mi degni di uno sguardo.
Fa cenno a Tancredi e Lalo di raggiungerlo. «Questa è la bimba di Spens, ne sono sicuro. Non dovrebbe essere qui.»
«Non dirlo nemmeno.» Le guance di Lalo diventano bianche, quasi grigie. Respira forte una, due, tre volte, tremando da capo a piedi. «Se gli ha fatto qualcosa io...»
«Non sarà stato così sciocco da tornare.»
La voce limpida e rassicurante di Tank irrompe nell'aria elettrificata dalla tensione, ma se in genere funziona, se di solito la sua figura è in grado di assorbire ogni particella d'energia negativa, stavolta le cose vanno diversamente: Lalo spalanca gli occhi, che nel lucore sanguinolento dell'atmosfera sono umidi di pianto, si scaglia su di lui e gli scarica un pugno in piena faccia. Tank barcolla e si copre il volto con le mani.
Cerco di pensare a un modo rapido per far sì che non si azzuffino ancora, ma Tank ha solo un piccolo fremito. Annuisce, scusandosi in silenzio.
Qualunque cosa stia accadendo fra quelli delle Spine, Lalo ricaccia indietro le lacrime, sputa a terra e si rivolge all'ex mattatoio: «Se la Cosa voleva farmi incazzare, c'è riuscita».
L'ingresso assomiglia alla bocca di un Behemoth abbattuto dai cacciatori, con le sue sporche fauci digrignate e flosce, i pezzi di vetro che piovono dall'arcata superiore a improvvisare una chiostra di zanne. Ci ritroviamo davanti un tramezzo con i mattoni a vista e circondato da una raggiera di calcinacci. Ci immettiamo nella struttura della porta e, oltre, il desolante spettacolo del luogo in cui si è svolta la festa di Minerva.
Spazio liminale. Un luogo in cui si ha la sensazione di essere in attesa di qualcosa. Un luogo che dovrebbe essere affollato, ma che, quando non lo è, ci fa sentire fuori posto.
Adamo Della Vigna zampetta fin sotto il buco nel soffitto. Lo imitiamo, posizionandoci nel punto in cui è possibile scorgere il ritaglio di cielo inquadrato dal soffitto sfondato, e lì, tra gli scheletri di travi e tubature che si intrecciano e virano tristemente verso il basso, c'è qualcosa.
Seduta sull'orlo del foro c'è Minerva, o qualcosa che dovrebbe vagamente ricordarla. Il suo corpo esile, da giraffa troppo magra per l'ossatura che si ritrova, pare sul punto di frantumarsi per effetto di una metastasi che la gonfia dall'interno. Ha gli occhi grandi, neri, i bordi delle labbra spaccati. I capelli biondicci sono legati in una coda disordinata e indossa uno squallido pigiama bianco con un orsacchiotto sul petto.
«Tu» dico.
«Ciao, Elettra. Chi mai si trasferirebbe da una grande città. Giusto?» Sorride e una crepa le percorre il volto gonfio, da cadavere tumido d'acqua. «So perché siete qui. Avete una risposta per me?»
Mi faccio avanti, la Bibbia stretta al petto. Le mie dita seguono i bordi consumati, come se in qualche modo la sua presenza potesse assicurarmi la salvezza.
«La strada è il pozzo. Il nemico sei tu. La verità è che Valco di Nebbia sarà distrutta.»
La soluzione rotola giù dalla mia lingua, simile a una manciata di sassi. Sono parole che pesano sulla lingua, difficili da pronunciare ad alta voce ora che non siamo più in attesa del momento: questo è il momento.
Non risponde. Non mi ha neanche sentita.
«Che cosa sei.» La domanda di Dante sfreccia oltre le mie spalle, in avanti, colpendola in pieno.
Minerva ride, in quel suo modo un po' svampito e infantile. «Un folletto! Un pixie! Tremotino in persona! Il vostro amico non ve ne ha parlato?» Quando i suoi occhi neri si appuntano su Adamo, il volto si impietrisce di colpo. «Credi di sapere tutto? Ma la tua mente non comprendeva allora e non può comprendere adesso.»
«Dov'è Spens?» La richiesta di Lalo è un ruggito ferito che si propaga al di là del rombo baritonale di quei lampi che riecheggiano in lontananza. «Cosa gli hai fatto?»
Minerva indica qualcosa con il piede. L'albero che si innalza dal mausoleo di Ezio Tresodi. «È lassù, assieme agli altri, naturalmente.»
Il volto di Lalo si trasfigura in una maschera irriconoscibile mentre mette mano alla pistola. Però il fantoccio di Minerva scuote la testa, facendo oscillare le gambe avanti e indietro. «Gli umani vivono confinati nel loro spazio microclimatico e non sono in grado di vedere oltre quello. Una piccola città, i propri affetti, il proprio stato, il proprio mondo, il... proprio universo. Siete perennemente insoddisfatti, proiettati verso la prossima mossa, verso il fuori. Ma non avete mai il coraggio di compiere il passo che vi porta dall'altra parte. Siete i nemici di voi stessi.»
Scrolla i capelli.
«Voi credete che io sia cattivo. Mi avete chiamato con nomi differenti, perché è ciò che fate con le cose che non sapete riconoscere. Sono stato leggenda, mostro, favola e Dio, ogni volta i vostri occhi mi hanno attribuito una natura diversa. Ma io non sono nulla di più che un custode.»
La corrente che si infila attraverso i vetri rotti porta con sé l'odore di un altro mondo. Tremo, aggrappandomi a quel misero libro, io che non ho mai pregato e ho sempre guardato con disprezzo alla chiesa della città, ogni domenica affollata di benpensanti che stringono il crocifisso professando misericordia, ma pronti a sputare acido sui lividi altrui.
Non saprei dire se ho sbagliato. L'unica cosa che so, è che ora ho qualcosa da perdere. E non posso sopportare che mi venga portato via.
«Tu sei brava con i rompicapi, Elettra» dice Minerva. «Quindi, risolvi questo: "È grande come l'universo, ma più piccolo".»
«Nessuno è qui per stare ai tuoi giochetti del cazzo.» Il tono di Dante vibra di una calma che quasi mi spaventa. «Faresti meglio a...»
«Il cervello.» Butto fuori aria dalle narici, ignorando l'occhiata che mi incolla addosso. «È grande come l'universo, ma più piccolo. Il cervello.»
Minerva tace per un intero minuto, facendo dondolare il capo come un bambolotto dalla colonna vertebrale slogata. «Questione di prospettive» risponde, alla fine. «Come, d'altronde, lo sono i nostri ruoli. Voi siete il bene e io sono il male, o magari... magari è tutto diverso.»
«Non mi interessa sapere da che parte sto. Siamo in uno spazio di passaggio. Uno spazio...» Mi irrigidisco. «Nessuno lascia Valco di Nebbia. È uno spazio di passaggio.»
Tra l'uscita dei vivi e quella dei morti.
La Cosa sorride, compiaciuta. «Che brava.»
Ripenso a tutte le volte in cui sono stata altrove. Nessuna.
Nessuno lascia Valco di Nebbia. Non davvero.
Il fantoccio di Minerva accenna un sorriso.
I respiri di Lalo sempre più intensi, smorzati dalla mano premuta contro la bocca. Le Spine che hanno lasciato la città, Diego che ha acconsentito a lasciarmi per sempre. Sono tutti lassù. L'albero li ha mangiati.
È Tank a farsi avanti, stavolta. «Perché ci hai lasciati andare la prima volta?»
«Non l'ho mai fatto.»
«La memoria collettiva» sussurro. Le mie unghie grattano la stoffa consunta della Bibbia, graffiano la croce.
«Fa tutto parte del disegno. I vostri nomi erano inscritti nel circolo di pietre da prima che la Grande Illusione fosse creata!» Batte le mani.
«Voi e le vostre teorie. I bambini, l'indovinello, la città da cui non si può fuggire... avete attinto al vostro patrimonio di risposte preimpostate.
Ma dovete scavalcarle, dove trascendere le vostre minuscole scatole logiche. Non è il vostro equilibrio quello che deve essere riassestato.»
Tende le braccia al soffitto, verso quel cielo infernale. «Gli universi sono in perpetuo mutamento, ma non indipendenti: vi trovate in uno degli infiniti nodi della Concatenazione Neuronale Dei Mondi.»
Il timore che aleggia nell'atmosfera assume un qualcosa di reverenziale. Osservo l'albero lontano, quella creatura immobile ma in qualche modo viva, che impone la sua presenza come un'illusione ipnagogica seduta sul bordo del letto. Le nostre menti sono fragili, si spezzeranno soggiogate da risposte incomprensibili.
Minerva muove le braccia verso l'alto e una sventagliata di energia sfonda il soffitto, che si rovescia all'esterno nello stesso modo in cui un meccanismo a molla spalancherebbe una scatola dall'interno. La falda di nubi rosse che ricopre il cielo si mostra a noi, una volta che accoglie nel suo soffocante grembo primordiale questa specie di colonna ritorta e spezzata, circondata da spazzatura fluttuante.
Sono i rami dell'albero, lunghi e infiniti, che dal mausoleo si allungano sull'ex mattatoio e oltre.
«Ci sono universi» dice «più stabili di altri. Nel loro creare e ricreare la propria realtà, lasciano dietro di sé l'eco delle possibilità che non sono mai state. Ancora non lo avete capito? Non siete altro che questo. Un'eco.»
Mi siedo per terra, troppo debole per riuscire a tenermi in piedi. Le suole delle scarpe sfregano il pavimento, tra i calcinacci. Sollevo un braccio e lo osservo. A ogni reazione corrisponde una conseguenza, ma quali conseguenze hanno le azioni incompiute?
Sono un'eco. Un'ombra. Un fantoccio.
Una copia.
È questa la verità, e la verità è assordante. Un basso sibilo si insinua nel mio campo uditivo, fino a conficcarmisi nel cervello.
«Ma... la mia vita...»
«Cos'è la vita, se non un insieme di ricordi cesellati al dettaglio? Vivide memorie compresse in bambole che hanno vissuto appena qualche settimana?»
Mi guardo le mani: ho le unghie mangiucchiate, le dita bianche di chi ha poco sangue in corpo. Il mio corpo è immobile, ma loro vibrano percorse da spasmi secchi e brevi. Non ho mai visto il mare, né conosciuto il caldo dell'estate. Forse non ho neanche mai conosciuto mia madre.
So che Minerva non sta mentendo: me lo sento in queste ossa di manichino, riprogrammato con ricordi che non sono neanche suoi.
«Il mio lavoro è finito» dice la Cosa. «Ho scelto voi per essere testimoni della conclusione dell'opera. Sarà uno spettacolo meraviglioso.»
Ed è con le lacrime agli occhi che il suo fantoccio si disintegra in una cascata di melma.
Non erano Sodoma e Gomorra. Era l'Apocalisse.
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