GATTI RANDAGI
«Dove sono le sigarette?»
«Finite» dico. Ho fumato l'ultima la sera prima. «Valle a comprare.»
Diego strappa il giubbotto dall'attaccapanni e lo indossa. Ha sempre fretta e non capisco esattamente perché, visto che concretamente non fa un accidenti dalla mattina alla sera e chi paga l'affitto sono io.
«Anche oggi faccio turno serale. Non aspettarmi alzato, va bene?» Mi scocca un'occhiata delle sue, di quelle che sembrano volerti spogliare di tutto ciò in cui credi. Rimango appoggiata contro lo stipite della porta sulla soglia della cucina. «Cosa c'è?»
«Fai tardi e ci sono troppi tizi che ti ronzano attorno, lì.» La sua voce è secca, mi fa pensare allo schiocco di un calcinaccio scagliato contro il muro.
«Cambierò lavoro, allora. In fondo questo posto è così ricco di opportunità.» Sorrido, ma dal modo in cui mi guarda me ne pento subito.
«Non parlarmi come se fossi un idiota.»
Chissà quante conversazioni sono iniziate così prima di allungarsi verso il loro tragico epilogo. Certe volte, mi sembra di riavvolgere il nastro della stessa identica cassetta e di riguardare lo stesso identico film: spero sempre che il finale sia diverso, anche se lo conosco.
Ci sono io che gli faccio notare che questo lavoro ci permette di non finire in mezzo a una strada, e che se proprio non gli piace l'idea potrebbe andare a spalare biada e letame alle fattorie. Poi c'è lui che mi urla contro dandomi della stronzetta soffocante che deve stare al suo posto, invece di dirgli sempre cosa fare.
Così mando giù un groppo acido.
«Scusa. Starò attenta».
Diego torna sui propri passi e mi stampa un veloce bacio sulle labbra. «Non costringermi a venire a controllarti.»
Si intasca le chiavi ed esce.
Quando sono di nuovo sola, butto fuori aria in un sospiro pesante e mi trascino in stanza. Indosso le calze dalla filigrana sottile, con il loro immancabile buco sulla rotula. Dovrei buttarle, me ne rendo conto. Questo pensiero attraversa il mio cervello tutte le volte, ma non per questo mi sono decisa a liberarmene. Infilo gli shorts di jeans, una maglietta nera semplice e gli anfibi rovinati dalle passeggiate nel bosco.
Diego direbbe che il mio abbigliamento è un invito, ma Diego non c'è.
Non so esattamente quando è cominciata. Ho iniziato a trasgredire le sue regole silenziose un po' alla volta — un rossetto leggero, una sigaretta rubata, un sorriso ai fischi degli operai. Colleziono micro-ribellioni a questo regime con l'illusione di avere il controllo. È il brivido di essere beccata che riempie questa marionetta di vita.
Lo specchio mi restituisce l'immagine di un volto dai tratti regolari e leggermente scavati, coronato da un paio di occhiaie e l'ombra dell'ematoma in via d'estinzione che circonda la palpebra destra. Una principessa intortata dal cavaliere sbagliato.
Avere gli occhi azzurrini – mica quel bell'azzurro vitale da modella sulle riviste, intendiamoci –, la pelle chiara e i capelli scuri e sottili sono tutti piccoli dettagli che contribuiscono a rimarcare la presenza della macchia sporca che sparirà sotto un velo di fondotinta scadente.
Poi ci sono i tagli sui polsi che indosso con orgoglio. Sono la mia corona di spine. Non voglio uccidermi. Probabilmente tutti abbiamo un buon motivo per farlo, ma siamo abbastanza bravi da ignorarlo. O, almeno, mi piace ripetermelo per non sentirmi strana.
L'ultimo invasato religioso che ha provato a fermarmi per strada e ficcarmi tra le mani un volantino che diceva di "ringraziare la vita" si è beccato un «Dovresti proprio ringraziare di non esser stato sparato via da una sega».
Mi infilo il giubbotto in tela cerata e scendo in strada. Quando metto piede nella piazza il campanile della chiesa manda una serie di rintocchi lugubri. Le capinere si librano dalle guglie e gracchiano, come gracchiano le vecchie arpie appostate sulle scalinate. Mi piace immaginare di avere dei tappi di cera che mi permettano di ascoltarne il canto, senza tuttavia lasciarmi stregare.
Gli passo davanti, inseguita dai loro sguardi da gargoyle giudicanti.
«Svergognata» soffia una, forte dell'illusione che io sia più sorda di loro, «con quelle gambe al vento».
Anche oggi non sono caduta vittima del loro incantesimo.
Raggiungo il minimarket e, senza neanche guardare, agguanto il manico del carrello. Lo spingo in avanti, prendendo la rincorsa per saltarci sopra e slittare tra gli scaffali. Acchiappo le sigarette e l'alcol, poi mi occupo del resto. Bisogna saper individuare le priorità. Raggiungo la cassa quando ho recuperato il minimo indispensabile.
«Quante volte ti ho detto di non fare così?» Carmine non mi guarda neanche mentre passa la merce sugli infrarossi. Elisa gli sta appoggiata a fianco, masticando a bocca aperta. Il rumore umidiccio delle fauci che triturano la gomma mi dà il voltastomaco.
Sono due soggetti interessanti, padre e figlia. Lui, scarnificato e smunto. Lei, una Barbie stereotipata fallita, con addosso una di quelle tute rosa made in China.
«Così come?»
«Quella cosa che fai con il carrello. Non farla.»
«Va bene.» La rifarò, comunque. «Quanto vuoi?»
«Sono trentacinque euro.»
Il bastardo ha alzato i prezzi, ma non siamo al Gran Bazar e col cavolo che posso contrattare con uno come Carmine, così gli schiaffo una manciata di banconote accartocciate sul palmo, ficco la spesa nello zaino ed esco. Attorno al pozzo ci sono ancora le strisce lasciate dalle gomme delle motociclette. Non fanno proprio una bella figura e sono sicura che, prima di attrarre la loro attenzione, quel branco di vecchiette acide stessero parlando proprio di questo.
È una giornata umidiccia e soffocante, e in giro c'è uno strano silenzio.
Passo davanti al pozzo e qualcuno ride. Sembra un bambino, un bambino intrappolato nel pozzo. Ma quando vado a controllare non ci vedo proprio nessuno, così affretto il passo per lasciare la piazza.
Raggiungo il ponte crollato, un insieme di massi bianchi e calcinacci che invadono il letto di un fiume quasi del tutto essiccato. S'ingrossa verso la foresta, ma lì a malapena si riesce a sentirne lo sciabordio. Salto a sedere sul muretto, incrocio le gambe e tiro fuori la bottiglia. Non dovrei bere così tanto, ma ultimamente non faccio altro. Forse ho un problema, ancora devo deciderlo. Mi seccherebbe parecchio trasformarmi nel cliché della ragazza con il fidanzato violento, che lavora in un bar ed è alcolizzata. Eppure esserlo, non esserlo... beato chi ha il tempo e la voglia di preoccuparsene.
Un miagolio mi distoglie dalla mia rêverie profonda. C'è un gatto accoccolato vicino a me. Ha il pelo corvino e spelacchiato, e sembra leggermente sottopeso. In un certo senso mi somiglia.
«Ciao.»
Allungo la mano nel mezzo delle sue orecchie, che fremono simili a minuscole parabole in cerca di segnali minacciosi. Quando decide che non rappresento un pericolo, il corpo si rilassa sotto il mio tocco.
Me ne sto lì, a bere e accarezzare un gatto che dovrebbe decisamente essere sverminato, fino a che un familiare rombo di motori non irrompe
nella calma strana di questa giornata.
Un tipo in moto si ferma sul ponte, àncora il lembo della bandana con l'indice e la tira giù. È un tipo dai tratti giapponesi, con i capelli tinti di
un rosa pallido e penetranti iridi nere.
«Billy Idol, non infastidire la signorina.»
Ha una voce un po' effeminata. Il gatto gli risponde miagolando, in una specie di codice tutto loro. Salta giù dal muretto e si arrampica sul sedile posteriore della moto. Guardo meglio il mio interlocutore dall'età e dalla provenienza indefinibili. Ha gli occhi sottolineati dal trucco, le sopracciglia disegnate e un piercing al labbro.
L'incubo di tutte le parrocchiane.
«Nessun problema» rispondo.
«Bevi sempre a quest'ora, da sola?»
Colgo una fastidiosa nota di sarcasmo, ma non mi scompongo. «Solo quando la mia vita è particolarmente felice e appagante.»
Il tipo mi scruta mentre Billy Idol gli salta in braccio, reclamando la propria dose d'affetto. Se non fosse che sono pronta ad aspettarmi di tutto da una città come questa, definirei il motociclista che mi sosta davanti e l'intera situazione in sé del tutto ambigua. «Quanti anni hai?»
«Venti. Quasi.»
Mi squadra. «Un po' presto per soffrire di alcolismo.»
«Che vuoi che ti dica.»
«Sembri una mocciosa parecchio fuori dal comune.»
Stavolta lo squadro io, senza alcun istinto di autoconservazione. Vorrei chiedergli se stamattina si è guardato allo specchio.
«Mi chiamo Lalo.»
Mi ripeto quello stupido nomignolo un paio di volte. Forse l'ho già sentito. «Sei il tizio che stanotte ha svegliato mezzo paese.»
Lalo sogghigna apertamente, eseguendo un leggero inchino. La mano si tocca la tempia e accompagna quel gesto con uno svolazzo da teatrante di strada.
«Elettra. Lavoro al Buco. In caso, ci becchiamo lì.»
Le parole rotolano fuori dalla mia bocca senza controllo. Sarà l'alcol a stomaco vuoto, sarà la spina di tensione che si è incastrata in gola, oppure sarà semplicemente il fatto che bisogna essere gentili con chi è capace di morderci.
Lalo trattiene la smorfia enigmatica sulle labbra e calca meglio il casco su quegli insoliti capelli. «Ci si vede in giro, mocciosa.»
Il turno al Buco inizia fra dieci minuti.
Sono leggermente in anticipo, ma ho questo tarlo immaginario che mi si è annidato tra le circonvoluzioni della mente.
Scendo in piazza e raggiungo il pozzo. Sono le sette di sera ed è già buio, come ci si aspetterebbe da una giornata di fine autunno. La luce spettrale dei lampioni allunga ombre artificiali attorno a me, la mia compresa. E compresa anche quella di un felino emaciato che si materializza sulle scalinate della chiesa.
Billy Idol mi fissa con giganteschi occhi da extraterrestre. Ci guardiamo. La coda del gatto serpeggia pigramente. Immagino una palla di polvere rotolare tra noi.
Il gatto scende le scale e io riprendo a camminare finché non raggiungo il pozzo. Quando mi volto, è ancora lì.
Mi segue.
La bestiola ci salta sopra e prende a percorrerne il perimetro, gli occhi immobili nei miei. Miagola come se stesse cercando di dirmi qualcosa.
Guardo giù, lì dove il riflesso della luna tremola nell'acqua scura.
«Lo senti anche tu?» domando. «È come una vibrazione. Non saprei descriverla, ma... non lo so. Attira entrambi, non è così?»
Sembra quasi che io mi aspetti una qualche risposta. E, inspiegabilmente, arriva. Billy Idol colpisce un sassolino con la zampa e lo butta di
sotto. L'eco del tuffo arriva dopo un paio di secondi. Rimango lì, in attesa di una risata o qualunque altra reazione uguale e contraria.
Non succede nulla.
Mi allontano nell'istante in cui mi rendo conto di star parlando con un gatto.
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