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DEMONI

«Signor Della Vigna! Apra, per favore!»   

Busso contro la porta, cercando di ignorare senso di colpa: non è neanche l'alba e ho violato una proprietà privata. Ancora. Ma secondo Tancredi è meglio così, non possiamo tornare sui nostri passi dopo aver commesso un omicidio, quantomeno non alla luce del giorno.   

Elaborazione del lutto: zero.

Probabilità di dare di matto quando avrò un minuto per pensare: alte.

Un rumore di assi che scricchiolano oltre la soglia mi suggerisce che il vecchio  Zaccaria Della Vigna debba essersi svegliato. Quando la porta si spalanca, mi ritrovo un coltello da sfilettatura puntato in mezzo agli occhi.

«Ancora tu, ragazzina» biascica, ma non accenna ad abbassare l'arma. «Vedo che stavolta hai portato i rinforzi.»   

«'sera.»

«Salve, come se la passa?»

«Uno schifo, suppongo.»

I convenevoli fuori luogo di Lalo e Virgilio si accavallano alle mie spalle, obbligandomi a un sospiro. Certo, dopotutto quella che sta per essere sfilettata in giro per il portico sono io.

«Signor Della Vigna, avrei una cosa da chiederle.»

«Non potevi proprio aspettare, immagino.» Abbandona il fucile lungo la gamba, arrendendosi al fatto che la sua anima non avrà mai pace, nemmeno ora che suo padre e suo figlio non ci sono più. «Basta che fai in fretta. Cosa vuoi?»

«"Trovare la strada. Trovare il nemico. Trovare la verità". Queste parole sono incise sulla tomba di suo padre. Quali sono state le sue risposte?»

Zaccaria Della Vigna si gratta la tempia con il manico del coltello e strizza gli occhi incartapecoriti dalle rughe. «Ah, ancora questa storia... sono un tipo pratico, io. Non sono mai stato bravo con gli enigmi.» Riflette. «Ho provato a continuare il lavoro di mio padre, ma non è servito a molto.»

«Conosceva le sue risposte?»

«Si può dire così, sì...» Sbadiglia. «Le appuntò sulla Bibbia. Non ho mai capito cosa stesse cercando.»

Noto che con l'altra mano, stretto alla vestaglia, tiene un vecchio libro con una croce di cuoio cucita sopra. Mi viene spontaneo domandarmi se non sia sua abitudine dormire con i salmi. I Della Vigna sono sempre stati parecchio religiosi, spuntavano di tanto in tanto in chiesa a ricordarci della loro esistenza, come anime rigurgitate dal Purgatorio.

Me lo porge controvoglia. La carta è leggerissima, poco maneggevole, e l'interlinea è troppo fitta per rendere comoda la lettura.

Di colpo, però, il volto cereo del signor Della Vigna si tende in una smorfia: «Un momento. Come... come fate a sapere che...?».

Sia io che Zaccaria Della Vigna realizziamo nel medesimo istante il sottotesto del nostro dialogo.

«Avete violato la sua tomba.»

Sento Lalo muoversi alle mie spalle e bisbigliare: «Questo sembra un buon momento per andarsene».   

«Avete violato la sua tomba.» Il vecchio Della Vigna digrigna i denti marci e prende a sbavare come un cane rabbioso. I suoi occhi si iniettano di sangue alla luce della luna. «Siete stati voi... voi con i vostri falsi idoli...»

La mia mente corre alla notte nella cripta, alle candele consumate e alle croci rovesciate sui muri. Non ci avrà scambiato per quei matti esaltati.

«Vi ammazzo. Luride bestie, io vi ammazzo.»

Ci ha scambiato per quei matti esaltati.

Qualcuno — Virgilio — mi afferra per il polso, strattonandomi via dal portico. Il sibilo della lama che taglia l'aria mi sfiora l'orecchio.
Corriamo attraverso la foresta, inseguiti da una pioggia insulti e dal passo claudicante di Zaccaria Della Vigna che inciampa sulle scale.

Ci fermiamo solo quando il bosco è ormai alle nostre spalle.    

Ansimo, piegandomi in avanti per riprendere fiato. Ci troviamo nel campo di zucche, anche se quest'anno non c'è stato un gran raccolto.
Molte sono scavate dalle larve e giacciono riverse a terra, nelle sterpaglie, simili a cadaveri di guerra.

«Bene. Perfetto. Grande idea, Elettra, adesso abbiamo un povero matto che vuole farci a fettine molto sottili.» Lalo crolla a sedere nell'erba. Dopo un po' alza gli occhi verso di me, piegando le labbra in un ghigno caustico. «In compenso ci abbiamo guadagnato la Sacra Bibbia.»

Stringo al petto il libro di Zaccaria Della Vigna. Una parte di me spera che, un giorno, ci perdonerà. Che trovando la risposta all'indovinello, daremo un senso alla morte di suo padre.

Il volto di Tancredi è immerso nei raggi acerbi dell'alba. Noto un principio di efelidi, un dettaglio a cui non avevo mai fatto caso. Sotto quella luce, i suoi occhi sono di un blu intenso quanto l'azoto liquido. «Posso vedere?» chiede.

Gli passo la Bibbia, ma non si degna nemmeno di aprirla.   

«Non qui. Torniamo a casa come l'altra volta: separati.»

Ci congediamo a momenti diversi. Io mi muovo per ultima. Attraverso il campo nel bagliore soffuso e malinconico del nuovo giorno. Supero il ponte che sovrasta il fiume secco, raggiungendo le prime case. La signora Xu è un'anima che emerge dall'oblio della notte, ricurva sulla soglia, le mani nodose allacciate al manico della scopa di saggina. Un gatto bianco e florido sonnecchia sulla panchina decorativa.

Continuo a camminare finché le mie gambe non rallentano di loro spontanea volontà. Sono ferma davanti a una villetta a schiera dall'aria trasandata, abbastanza perché appaia meno costosa di quel che dovrebbe essere. Il garage è spalancato. Un pick–up azzurro, gli pneumatici sporchi di fango essiccato e foglie, è parcheggiato all'interno.

«Calma, Jes. Smetti di piangere e raccontami cosa è successo.»

Il sangue che mi scorre nelle vene diventa di pietra. Riconosco questa voce, il timbro velenosamente mellifluo che cela il mostro. Diego e Jessica devono essere nascosti dalla fitta siepe che circonda il giardino. Lei piange e immagino lui stringerla a sé.

Jessica impiega un po' di tempo prima di riuscire a scandire una frase di senso compiuto: «Il motivo per cui... per cui Alberto non è tornato... qualcuno l'ha ammazzato, Diego. L'hanno ammazzato».

Il pianto si scatena in una serie di piccoli singhiozzi che mi ricordano quelli di un gabbiano ferito. Mi appiattisco contro il muro di mattoni. Diego tace, poi le dice di stare tranquilla e, attraverso il fogliame, lo vedo accarezzarle la schiena. Faceva così anche con me, è davvero bravo a fingersi un solido appiglio nei momenti di difficoltà. Mi sono aggrappata a lui quando ho compiuto diciotto anni senza avere niente in mano. Mi ha consolato, mi ha illuso che avrebbe aggiustato tutto e che fosse l'unico in grado di farlo.

«Raccontami tutto quello che ricordi, Jes, va bene?»

«Forse... forse dovrei andare alla polizia...»

«No.» Diego emette un verso secco. «No, Jes, non servirebbe. Lascia che trovino il suo corpo, ma sarò io a occuparmene. Non gli farebbero giustizia, te ne rendi conto?»

«Ma...»

«Niente ma, Jes. Raccontami tutto dall'inizio.»   

Jessica tira su col naso e si concede qualche altro istante. «Ci trovavamo nel bosco, quando è successo. Alberto voleva portarmi a fare un giro
per testare il fucile nuovo. Abbiamo sparato a qualche bottiglia dopo pranzo. Poi ha iniziato a rinfrescare e...» si blocca.

«E?»

«Abbiamo visto Elettra. Lei... non so cosa ci facesse lì, Diego, te lo giuro, ma ci siamo fermati. Alberto pensava che avesse bisogno di qualcosa, così ha deciso di parcheggiare. Hanno cominciato a urlarsi contro. Lo sai com'è, lei, cerca sempre di litigare. I toni si sono alzati e, ecco... Alberto ha sparato, lei è scappata e lui l'ha rincorsa. Poi non è più tornato indietro. Ho avuto paura così, io... ho guidato fino a qui. I suoi sono fuori città e Alberto mi aveva lasciato le chiavi.»

Il rombo del cuore che mi martella nelle tempie e nella gola viene coperto da un fischio prolungato, un principio di acufene che mi obbliga a strizzare gli occhi. Il sibilo si impenna, prima di scomparire.

«Quindi» mormora Diego, «l'ultima a vederlo è stata Elettra».

Stupida. Sono stata così stupida.

Jessica dovrebbe ringraziare di non essere sotto due metri di terra assieme ad Alberto, abbracciati come amanti secolari. Succede questo, ad avere pietà degli ingrati.

Sveglia, Elettra: riattiva le gambe. Devi filare via di qui.

Se Diego è con Jessica, dubito che rientrerà tanto presto. Vale la pena rischiare. Le mie micro-ribellioni sono diventate una rivoluzione, ormai.

Virgilio direbbe che sono una povera idiota, ma da quando mi importa cosa pensa? O forse mi importa, il che è ridicolo.   

Il cellulare mi vibra nella tasca: è un sms da parte di Tancredi. Vorrà sapere dove diavolo mi sono cacciata, ma decido di spegnere il dispositivo. Affronterò le conseguenze più tardi.

C'è una rivoluzione in atto, e le rivoluzioni non aspettano nessuno.

Corro su per le scale della palazzina. Ed ecco che torna all'attacco quell'olezzo di drammatica ironia che aleggia sempre nell'aria attorno a me, perché è ancora casa mia, questa, mia perché pago l'affitto, e non è giusto che debba entrare come una ladra.

Mi fermo davanti alla porta con una vertigine d'ansia che mi percuote la bocca dello stomaco. Ho le dita sudate, e tremano mentre inserisco la chiave nella toppa. I cardini piangono, Diego deve essersi dimenticato di oliarli. In fondo, da quando ricorda di fare qualcosa che non sia incolparmi di tutti i mali del mondo o andare a tirare coca con la sua banda di esaltati?

Oltre la porta c'è l'inferno.

Devo rimanere qualche istante, lì, a vibrare come uno spirito che si sforza di riacquisire forma fisica e impiega tutte le sue energie per esistere. La carta da parati — quell'orrenda carta da parati verde a stampe barocche che non abbiamo mai avuto il tempo di cambiare — è strappata in voragini che mostrano i muri macchiati di muffa. Scritte rosse, di vernice e bomboletta spray, affollano le pareti.    

Puttana.
Ti ammazzo.
Io ti prenderò.

Avanzo nell'apocalisse, calpestando i cocci delle bottiglie infrante sul pavimento e foglie secche — la finestra è aperta. Pare una casa di fantasmi. E intanto sono qui, che penso a tutto quello che ho costruito, alla fatica, alle notti al bar per permetterci un tetto sopra la testa, a lui che non ha fatto altro che succhiarmi via soldi e la parte migliore di me. Arrivo in camera da letto. I suoi vestiti sono buttati sul letto, i miei...

Abbasso lo sguardo. Sono circondata da una raggiera di brandelli di stoffa da cui si si dipana una strada di stracci che conduce all'armadio a parete. L'anta è socchiusa. Trovo il coraggio di farla scorrere verso destra e affrontare quel che contiene: il lato dove avevo riposto i miei effetti è distrutto. I miei libri, le mie riviste musicali, i miei diari strappati e violati. I miei vestiti tagliuzzati. La foto di mia madre in pezzi, il volto scarno e i luminosi occhi scuri che mi scrutano con caustica freddezza.

Sembra sussurrarmi: «Te l'avevo detto, amore mio».

La mia roba vittima della furia di un mostro che non mi ha mai amata. Ho sempre pensato che l'avesse fatto, a suo modo, e sono stata così stupida da non capire che amasse soltanto l'idea che fossi una sua cosa da stipare in cantina, al buio e lontana da sguardi indiscreti, da tirare fuori e manovrare a suo piacimento.

Con le lacrime che mi bruciano le retine, estraggo lo zaino dal ripiano superiore dell'armadio e ci getto dentro quel poco che rimane dei miei effetti. La foto della mamma senza cornice, quel paio di diari e libri sopravvissuti al demone della collera di Diego, il pacchetto di sigarette e l'accendino rosso stipati in fondo, i pochi vestiti ancora integri. Tra loro figurano le calze a rete con la rotula bucata e un paio di shorts di jeans vertiginosamente corti.

«Non metterli» diceva Diego. «Le persone potrebbero pensare che sei disponibile. Che tu li voglia provocare. Se dovesse capitarti qualcosa, poi, sarà inutile venire a piagnucolare da me».

Mi sfilo con rabbia i pantaloni e li getto nel borsone. Indosso le calze e quei dannati shorts. Il mondo non andrà a rotoli per un paio di gambe.   
C'è un'ultima cosa che devo fare. Infilo la mano sotto al letto ed estraggo la valigetta di metallo nascosta dietro la piastrella del battiscopa, in quel foro nel muro dove si annidano i ratti. Giro la rotella per digitare la combinazione: 3793. Il meccanismo scatta e spalanco la valigia sulle ginocchia: non ricordo quanti soldi sono, a quanto corrisponda quella serie di mazzette impilate lì dentro. Forse non molti. Ma sono i miei. È tutto quello che ho.

Li intasco in tutta fretta e rimetto la valigetta a posto.   

«Pagateli da solo, i danni e l'affitto, figlio di puttana.»   

Mi sento leggera mentre la serratura in salotto crepita e i cardini piangono ancora. Schizzo fuori in balcone e scavalco il corrimano, pronta a spiccare il volo.

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