COME ROMEO E GIULIETTA
UNA PREGHIERA
Ci sono volte in cui ho voglia di pregare, anche se è un po' fuori moda mettersi il vestito buono, legarsi i capelli e unirsi a gente che odora di acqua santa. Non sono battezzata e mi sembra di trasgredire qualcosa di insindacabile quando il parroco appoggia l'ostia sulla mia lingua.
Eccola, l'euforia della trasgressione che si sprigiona come vapore velenoso dai pori della mia pelle.
Mi dispiace, signor Gesù Cristo morto sulla croce per noi, so che non dovrei prendere la Comunione, ma non guardarmi in quel modo, ché ho bisogno di parlare con qualcuno che non mi dia della sgualdrina prima di fissarmi il culo convinto che io non lo sappia. Deve essere questo il segreto della tua popolarità: sei uno psicologo gratis in un mondo di matti narcisisti.
Dicevo: ciao, Dio.
Sono qui, sull'inginocchiatoio, con le mani giunte e un'inenarrabile dose di peccati alle spalle – meno di quanti avrei voluto commetterne, lo ammetto. Tanto sono già condannata alle nebbie del Limbo e per colpa di questa città sono piuttosto abituata a vivere sospesa in un'eterna stasi di morte.
Volevo dirti che sto sprofondando, ma non è un problema, davvero.
Ogni passo che muovo su questa Terra minaccia di aprire una voragine sotto i miei piedi. Ho provato a riempirmi il bicchiere di pillole della felicità, ma mi sono sentita stupida, sarà che la foto di mia madre mi stava osservando e mi sono venute in mente quelle volte in cui non si riesce a pisciare al bagno pubblico perché c'è qualcuno che parla al telefono della flora batterica ottimale del suo carlino, e mi sono detta "Cazzo, non posso suicidarmi mentre penso a una cosa del genere", così il tutto si è concluso con un nulla di fatto.
Te lo dico solo perché so che non la prendi granché bene quando qualcuno butta alle ortiche il... come si chiama? Dono della Creazione?
Già che sono in vena di scuse, metto le mani avanti per i pensieri sporchi che faccio in casa tua. Avranno versato degli afrodisiaci nella preparazione della gommoresina.
Direi che posso smetterla di assillarti, sarai sommerso di comunicazioni sacre.
Passo e chiudo.
Sono Elettra, almeno tu non dimenticarti di me.
***
Mi alzo.
Quasi mi stupisco del concerto che sfugge dalle mie ossa. Dopo il concerto arriva il dolore.
Adesso ricordo: ho risposto male a Diego. Classico. Succede sempre, ma lui mi fa andare fuori dai gangheri, e noi siamo come il solfuro di antimonio e la stimolazione meccanica: incendiabili.
Mi sfrego il dorso della mano sull'occhio e mi scappa un verso che è una mistura di sofferenza, noia e accidia. Ha poca importanza che io mi senta così, visto che il bar apre fra poco. Quindi, ora che mi sono alzata, striscio fino all'armadio e indosso le prime cose che mi capitano sottomano.
Tanto nessuno ci fa davvero caso.
Valco di Nebbia è un villaggio industriale fondato agli inizi del Novecento da un tizio che aveva un gran bisogno di compensare qualcos'altro.
Posso affermare con certezza che Ezio Tresoldi fosse afflitto da micropenia: solo un tale megalomane avrebbe potuto intitolare a se stesso la via principale, la scuola, il duomo, il parco e l'ospedale.
Fin quando si tratta di nomi non ci sarebbe quasi nulla da ridire, se non fosse che la questione si annida nei piccoli dettagli. Valco di Nebbia è delimitata là dalle montagne, là da una gorga torbida in cui proliferano i rospi e là da un fiume che gli abitanti hanno amorevolmente ribattezzato "Stige". Chiusa su tre lati, l'unico modo per entrarvi è discendere uno stradone asfaltato che squarcia in due il paese: a destra, sorge una schiera di bifamiliari tutte uguali un tempo rimpinzate da otto famiglie di operai ciascuna. A sinistra, il complesso industriale in disuso.
Valco deve il suo nome alla gran quantità di nubi rigettate dai fumaioli della fabbrica che, quando era ancora in funzione, velavano il paesaggio rendendolo simile a una fotografia bruciata dalla luce. Oggi credo che parte di quei fumi siano rimasti rimescolati ai vapori della pianura.
Quello stradone non solo è l'unico modo in cui è possibile entrare in città, ma anche l'unico con cui è possibile uscire. O meglio, l'unico con cui è possibile uscire vivi. Dal capo opposto, dopo averlo percorso interamente, si apre il quartiere dei morti. I cimiteri non sono, di per sé, luoghi da pic-nic, eppure il nostro ha una marcia in più, poiché vanta un labirintico e stratificato complesso di minuscole tombe tutte uguali che si estendono a perdita d'occhio, dominato dal mastodontico mausoleo del signor Tresoldi.
Se tutto questo non urla a gran voce "micropenia", non so davvero che altro inventarmi.
Bisogna ammetterlo, però: Valco non si è guadagnata il titolo di città più inquietante della pianura solo per il modo in cui è stata concepita. Il folklore, le voci di quei quattro operai pulciosi approdati qui con valige di cartone piene di belle speranze, ha portato con sé le storie di una misteriosa entità. È credenza popolare che si sia attaccata alle sottane delle signore e ai bagagli, che vivesse nella memoria della gente fin dai tempi in cui non esisteva l'elettricità.
"Benvenuti a Valco di Nebbia" recita il cartello all'ingresso della città, e sotto: "La Tana di Tremotino".
Alcuni chiamano Tremotino "il folletto", altri "lo gnomo". Gli stranieri preferiscono "il pixie". Quando si tratta di leggende, a volte si tratta solo della stessa identica minestra riscaldata con qualche variazione e altri nomi.
Ho letto da qualche parte che secondo scozzesi e irlandesi i pixie hanno questo modo di fregarti, come se non potessero proprio farne a meno. Di solito succede mentre stai camminando per la foresta e ti stai facendo gli affari tuoi. Improvvisamente hai la sensazione che il sentiero si stia ripiegando su se stesso, e se prima avevi avuto l'impressione che quell'albero là fosse un po' troppo simile a quello in cui ti eri imbattuto mezz'ora prima, ma ti eri scrollato di dosso il dubbio perché, dopotutto, in una foresta gli alberi sono tutti uguali, ecco che no: è proprio lo stesso maledetto albero. E la colpa è da addurre tutta a quelle creaturine, pare, ché sono parecchio esperte nel confonderti.
Quei matti degli scozzesi dicono che se indossi la giacca al contrario puoi ritrovare la strada. È così che li freghi.
Da queste parti le cose vanno più o meno così, è tutto un fregarsi a vicenda. Una gara perpetua a chi frega prima l'altro.
Ho una teoria: io credo che la gente qui ci capiti solo per caso, secondo una probabilità statistica che si riduce a un numero a una cifra. Dubito che, se venissi da fuori, sarei particolarmente attratta da quello skyline grigiastro e fumoso mangiucchiato dai rami riarsi dei faggi.
O, magari, succede perché sono proprio i pixie a spostare le strade.
C'è un pozzo nella piazza principale, il pozzo dove il vecchio Adamo Della Vigna cadde e affogò, ingannato da uno strano ragazzino del Piccolo Popolo. Io dico che quel povero diavolo avesse soltanto esagerato con la grappa alle erbe, ma ognuno è libero di pensarla come vuole.
Lo osservo attraverso le vetrate polverose del bar.
Poi, ecco che spunta fuori Ettore con quei suoi quattro peli color carota striati di cocaina, che gli crescono un po' sotto il naso, un po' ai lati del cranio.
«La principessa si è degnata di portare qui il suo regale posteriore» mi apostrofa dall'altro lato del bancone.
«Vaffanculo.»
È il nostro modo di augurarci buona giornata. Scarico la borsa dietro la cassa e mi allaccio il grembiule attorno ai fianchi.
«Capisco che il Buco vanti il titolo di peggior pisciatoio della regione, ma potresti anche fingere di essere un po' meno sboccata, qualche volta.» Ettore mi fissa. «Che hai fatto all'occhio?»
«I cazzi tuoi no, eh?»
«Sì, mi riferivo proprio a questo.»
«E poi lo sai benissimo cosa ho fatto all'occhio. Cosa vuoi che ti dica? Che sono caduta dalle scale?»
Gli regalo uno dei miei sorrisi sghembi, costringendolo alla resa con un'alzata di mani. Iniziano a entrare i primi clienti, ma questo non ci impedisce di continuare la discussione tra una birra alla spina, un bombardino e un caffè corretto. La gente da queste parti è piuttosto abitudinaria, di solito si fa portare Il Solito, il che mi consente la massima resa con il minimo sforzo. Non che ci sia molto da fare in giro, oltre a chiudersi qui dentro e annegare l'eco dei propri fallimenti nell'alcol.
«Dovresti chiamare il telefono rosa o qualcosa del genere, ragazzina.»
«Gran bel consiglio, grazie.» Il mio commento è una freccia ironica che trapassa Ettore in mezzo agli occhi. Mi guadagno un gestaccio, uno di quelli che non si dovrebbero proprio fare a una signorina, ma pazienza.
«E dai, dico sul serio. Perché stai ancora con quel tizio? Sei così carina. Se avessi vent'anni di meno...»
«Solo vent'anni? Sei un bugiardo.»
Faccio sfilare una doppio malto fino alla postazione del signor Grant, punto di fuga tra due paia d'occhi lascivi che nell'ultima decade hanno conosciuto soltanto l'amore a pagamento. Ammicca nella mia direzione, ma gli ho già dato le spalle.
Come se non ci avessi mai pensato, poi. Ettore lo sa meglio di me com'è fatto Diego, ma d'altronde se avessi una moneta per tutte le volte in cui ha seminato soluzioni di circostanza a quest'ora sarei un Leprecauno grasso e felice col culo incastrato nella mia pentola d'oro alla fine dell'arcobaleno.
Nei miei scenari più erotici mi figuro Ettore che raduna un paio di albanesi dei cantieri, un'ariete d'amianto che sfonda la porta del nostro appartamento e Diego che fa un bel triplo carpiato dalla finestra, anche se questo significherebbe mettersi contro "i suoi", come il mio ragazzo ama chiamare il branco di bufali surriscaldati che frequenta.
Una delle poche cose che la mamma è riuscita a insegnarmi è: "Le ragazze devono imparare a cavarsela da sole". Non mi definirei esattamente una persona di principio, ma questo è l'unico pilastro su cui cerco di far reggere — a stento, devo ammetterlo — la mia intera esistenza.
E poi, certe volte Diego mi dà la sensazione di essere sul punto di esplodere, come un istrice gonfio e trapuntato di aculei di ferro. Non voglio proprio rischiare di essere trafitta spingendolo oltre il limite.
No, grazie. Posso reggere il peso della mortificazione.
«Hai sentito l'ultima?»
Drizzo le orecchie. Non succede mai niente, qui, i pettegolezzi da bar sono l'unica fonte di reale divertimento.
«Stanno tornando.»
«Chi?»
«La Gang delle Spine. Li hanno avvistati nel sud della Francia un paio di mesi fa. La settimana scorsa erano in Italia. Io dico che è solo questione di tempo prima che questa città vada di nuovo in malora.»
Una pausa. Li sento bere.
«Nessuno farà un cazzo come al solito.»
«Già.»
Non li ho mai visti bene in faccia, quelli della gang. Di solito indossano delle bandane fin sopra il naso, con la dentatura del teschio stampata sopra. Non hanno niente del posto: assomigliano a una rock band giramondo, un po' multiculturale, un po' zingara. Le vecchiette della chiesa sono abbastanza certe che sacrifichino piccioni nel bosco in nome del Signore Oscuro, ma d'altronde lo pensano anche delle ragazze che indossano le calze a rete e ascoltano musica metal.
Ettore scuote la testa, sfilando una cassetta di ferro da sotto il bancone. Si mette a svuotare la cassa.
«Che stai facendo?»
«Prevenzione. Voglio essere pronto quando verranno qui.» Mi rifila uno sguardo. «Sta' attenta. Non sono belle persone, quelle.»
Guardo la solita gente che si scambia le solite occhiate e dice le solite cose, con la conturbante sensazione che tutto stia per andare a rotoli.
Diego non si perde una sola partita del Non-So-Bene-Che-Squadra. È il suo unico interesse, la sua religione.
Non voglio ricalcare lo stereotipo della fidanzata patetica che sminuisce le passioni altrui, ma temo che esista una linea neanche troppo sottile tra amore per lo sport e scusa per andare a incendiare negozi e fare a botte in preda a una sorta di estasi del guerriero.
Da quando gli hanno dato il Daspo per gli scontri con la polizia durante il derby, è diventato più nervoso.
Diego mi ha insegnato che le casualità sono importanti. Forse se avesse avuto i capelli più corti quando l'ho conosciuto, un manto scuro che
copriva il tatuaggio della croce celtica al lato del cranio, ora non dividerei un appartamento con lui.
Entro in casa e butto la mia roba sulla cassapanca all'ingresso. Individuo il suo capo ciondolante contro lo schienale del divano, la partita che
rantola nel buio del soggiorno.
Mi avvicino e lo guardo. Ha la bocca aperta e gli occhi chiusi. Assomiglia al pupazzo privo della mano del ventriloquo che gli strizza le viscere. Potrei quasi farlo parlare, afferrargli la mascella e muoverla per imitare il suono delle parole.
Puttana.
Mi dispiace, amore mio.
Lo sai che ti amo da morire? Che farei tutto per te?
Ho visto come l'hai guardato.
Perché non capisci che mi stai distruggendo?
Mi fai diventare cattivo. Io non voglio diventare cattivo con te.
O una filastrocca del genere.
Raggiungo la cucina e spalanco il frigo sulle sue interiora desolate. Non c'è granché, ma la vodka è sempre al suo posto. La tiro fuori, sfilo l'ultima sigaretta dal pacchetto e apro la finestra. Mi appollaio sopra il cornicione come un gatto randagio. È quello che mi piacerebbe essere. Poter saltare giù, fuggire e infilarmi in qualche casa, scroccare una ciotola di latte, poi andarmene nei vicoli a miagolare alla luna. Una luna pallida e opalescente, piena. Una luna che richiama i lupi.
Io e Diego abitiamo al secondo piano di una palazzina malmessa che si affaccia sulla piazza principale. Da qui si vede il pozzo. Sono quasi le quattro del mattino, io sto fumando e bevendo alcol liscio a stomaco vuoto e in giro non c'è nessuno. Voglio dire, so già che la mia vita non è proprio una festa, ma credo di non essermi mai sentita così sola.
«Dai gas!»
Qualcuno ulula. Saranno davvero i lupi?
Agli ululati seguono le risate, alle risate le urla, alle urla il ruggito dei motori.
Mi sporgo un po' in fuori, sospesa a cavallo della finestra, un'entità ibrida spaccata in due fra lo squallido interno della casa e l'esterno senza confini.
Nella piazza c'è un cumulonembo di polvere compatta, mal illuminata dalla luce dei lampioni. La polvere si abbassa, come una nebbia di ghiaccio secco durante un concerto. Sul palco del paese compaiono tre personaggi in groppa a delle moto, il volto coperto da una bandana nera con la stampa dei denti scarnificati. Girano attorno al pozzo come dei forsennati, producendo un gran casino.
«Alza quel volume, Lalo!»
«Siamo tornati, bastardi!»
E giù altre risate. Alcune finestre si illuminano, ma in pochi si affacciano. Nessuno parla o protesta. Cala un religioso silenzio su Valco di Nebbia, la Tana di Tremotino. Il trio agita la mano prima di ingranare verso i vicoli. Scompaiono senza lasciare alcuna traccia di sé, a eccezione delle strisce di terra e fango che si rincorrono intrecciandosi attorno al pozzo.
Domani sarà una lunga giornata.
Un mio disegnino di Erin:
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