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07. QUANDO IL CUORE È CIECO.

Taehyung ricordava ancora il secondo esatto in cui la sua anima aveva cominciato a sanguinare. Il cielo era così limpido e nudo che i suoi occhi da ragazzino cominciarono a trovarlo noioso, senza nessuna forma meravigliosa da osservare ed associare alla poesia e all'arte. Così le sue iridi scure cominciarono a scivolare sulle verdi colline e sui campi dorati di grano, i cui riflessi splendevano sotto il sole cocente.

Si sistemò il cappello bianco sulla testa, camminando con l'erba che gli solleticava le caviglie ed il canto degli uccelli nelle orecchie. Aveva la maglietta beige macchiata di erba ed il gomito sbucciato, eppure era talmente preso dalla magia che quel posto possedeva da non essersi nemmeno reso conto delle sue condizioni.

Il punto è questo: Taehyung si era sempre posto dei limiti, rifiutandosi categoricamente di voler conoscere sé stesso e tutti i segreti che si nascondevano tra le sue costole. Così quando quella sensazione cominciò a risalire pian piano fino alla sua gola, egli pensò si trattasse semplicemente di qualcosa che aveva mangiato a pranzo. E quando si chinò per vomitare, non pensò nemmeno al vortice di emozioni che lo avevano portato a quel malessere.

L'anima di Taehyung conosceva le verità che nessun altro poteva conoscere, comunicava silenziosamente ed in pochi riuscivano a comprendere. Eppure lui non vedeva, non riusciva a scavare dentro di sé, preferiva guardarsi intorno e fingere che anche lui facesse parte del paesaggio.

Non si rendeva conto che il paesaggio era spettatore.

Ventitré minuti e cinquantadue secondi dopo Taehyung aveva raggiunto la veranda della casa di suo nonno, sedendosi sopra una vecchia sedia di legno e togliendosi il cappello.

Ventitré minuti e cinquantacinque secondi. Il cuore di Taehyung aveva preso a battere talmente forte da far male, tutto il suo corpo bruciava e tremava al contempo, facendogli battere i denti.

Ventitré minuti e cinquantanove secondi. Chiuse gli occhi, respirando lentamente. Due occhi neri come la pece lo osservavano da dietro un albero, dentro di essi Taehyung non vi scorse alcun riflesso.

Ventiquattro minuti. L'orologio da polso segnava le otto, ventisette minuti e tredici secondi del diciotto agosto. Aprì gli occhi di scatto, mentre l'angoscia aveva cominciato a soffocarlo. Non c'era realmente qualcuno a guardarlo, ma la su anima era stata ferita irreparabilmente. Non esisteva cura per quel dolore.

La sua mente segnò di nero quella data, il suono stridulo che produceva quando Taehyung la pronunciava nella sua mente gli faceva scoppiare la testa. Si sentiva esausto ogni volta che si ricordava che la Corea del Sud aveva perso la sua eternità dentro quegli occhi spaventosamente neri.

Il diciotto agosto di un anno dopo il nonno di Taehung morì. E lui era davvero troppo spezzato per abbassare gli occhi sul suo orologio da polso e rendersi conto che il cuore del vecchio saggio si era fermato alle otto, ventisette minuti e tredici secondi.

Perciò Taehyung si diceva che non comprendeva nulla della vita: egli fingeva di non comprendere il ragazzo che vedeva allo specchio ed automaticamente persino il mondo diveniva impossibile da capire. Com'era ingenuo! Eppure quel totale rifiuto lo aveva portato a soffrire per tutte le cose che non riusciva a vedere, e di cui al contempo parlava tra le pagine dei suoi taccuini.

Aveva l'anima che vedeva troppo ed il cuore cieco e silenzioso, timoroso che le mani sbagliate ficcassero gli artigli tra i filamenti di quel muscolo.

E ora, con la luna sul viso, si chiedeva se quell'essere sempre stato così cieco non lo avesse completamente distrutto. Mentre rigirava l'ennesimo bicchiere stracolmo di bourbon tra le dita, si chiedeva se ora che aveva per la prima volta interpretato ciò che il cielo aveva da dirgli faceva ancora in tempo a salvare la sua anima alla deriva.

Così poggiò il bicchiere sul pianoforte che si trovava in un angolo del suo salotto e raccolse il suo cellulare dal pavimento. Con la vista offuscata dalla sbronza, lo sbloccò e cominciò a digitare una serie di cifre che gli sembrava di conoscere meglio del suo stesso nome. Cliccò sul tasto verde ed avviò la chiamata.

Fu la stessa patetica scena di sempre. Quella situazione si ripeteva all'infinito, tutte le volte che la consapevolezza lo prendeva a schiaffi un po' più forte o tutte le volte che beveva fino a stare male. La voce meccanica della donna gli comunicò che il numero che stava chiamando era inesistente.

Non può essere. Dove ti sei andato a cacciare, Yoongi?, si disse prima di cliccare alcuni tasti del pianoforte - che non sapeva suonare.

Sperava solamente che un giorno Yoongi lo avrebbe richiamato per dirgli che gli dispiaceva e che era stato proprio un bastardo ad averlo lasciato solo come un cane a marcire nella sua stessa merda. Lo sperava, così avrebbe potuto rispondergli che tanto per lui si sarebbe lasciato consumare dal dolore in un angolo della stanza, in attesa del suo ritorno. Magari gli avrebbe pure detto che non era arrabbiato con lui, perché lo avrebbe sempre perdonato. E se lo avesse fatto, se avesse potuto avere la possibilità di parlargli, nemmeno una di quelle cose sarebbe stata una bugia.

Taehyung non avrebbe mai potuto odiare Yoongi, ché se il più grande gli avesse strappato il cuore dal petto, egli lo avrebbe persino ringraziato.

Sono stato uno stupido. Forse lo era stato per davvero, quando osservava il viso dell'amico arrossarsi per i complimenti, memorizzando inconsapevolmente tutti i suoi difetti e la posizione dei nei sulla sua pelle pallida.

Lo era stato per davvero, quando quel pomeriggio, appena presa la patente, aveva chiesto l'auto a suo padre ed era passato a prendere Yoongi. Lo era stato quando avevano finito per rigare la vernice rossa della macchina e poi l'avevano riportata facendo finta di nulla. Era stato uno stupido perché quando aveva sentito il corpo del suo migliore amico premere contro il suo mentre si nascondevano per sfuggire all'ira di suo padre, aveva avuto un'erezione e l'aveva scambiata per un incidente dovuto alla tensione del momento.

Ed ancora, era stato uno stupido perché Yoongi non era stato solo quell'erezione: era stato labbra rosee e turgide, chiacchere silenziose sotto la luce della luna, deliziosi romanzi consumati sotto una quercia e una serie infinita di altri dettagli che Taehyung sperava di poter dimenticare.

Si sdraiò sul pavimento, schiacciato dalle immagini che quel pianoforte proiettava nella sua mente ogni volta che lo osservava. Ricordava perfettamente i giorni di primavera e di estate in cui lui e Yoongi si perdevano tra l'erba della campagna della Louisiana, allontanandosi dalla quercia con le spalle e le mani che si sfioravano.

Successe un giorno, nei suoi sogni, che tra l'erba incolta gli occhi del più grande riconobbero le curve di un pianoforte a coda. «Taehyung!» aveva urlato stringendo il suo braccio con la mano. Poi quest'ultima era scivolata per stringere le sue dita. Insieme cominciarono a correre, finché le loro mani non si lasciarono e le dita di Yoongi si poggiarono sui tasti, accarezzandoli.

Taehyung si sentiva fuori posto, come se stesse disturbando un pittore mentre dava vita ai suoi dipinti. Così stette in silenzio, osservando con il fiato sospeso il suo migliore amico mentre cominciava a comporre una melodia a lui sconosciuta. I suoi piccoli occhi divennero due meravigliosi spicchi di luna, mentre con le labbra schiuse osservava le sue stesse dita creare arte.

Quella melodia faceva così male e così bene al suo cuore da fargli quasi paura.

«Ti piace?» gli chiese Yoongi, osservandolo. Taehyung sorrise debolmente, annuendo.

«Vieni qua, Tae» disse ancora.

E lui gli si avvicinò, osservandolo dall'alto. La luce giocava sulla sua pelle e dentro le sue iridi scure. Danzava, dipingeva, sporcava.

«L'ho composta io» gli sussurrò Yoongi. Poi sorrise, lo fece come se quella fosse l'unica cosa che contava nella sua vita e Taehyung in quel momento pensò che era bellissimo, che non lo aveva mai visto così bello perché mai si era messo così tanto a nudo davanti a lui.

Quella fu la prima volta in cui desiderò baciarlo. La prima e l'ultima volta, perché aveva deciso di seppellire quel pensiero nella sua mente. Eppure gli sarebbe bastato inclinare il viso e le loro labbra avrebbero dato vita al collasso di un'intera galassia. Il loro bacio sarebbe stato più potente dell'esplosione di milioni di stelle.

E ora, steso ancora sul pavimento, si chiedeva come sarebbe potuta andare se quel pomeriggio lo avesse baciato.

*

questo capitolo è davvero corto, ma non sentivo di voler dire qualcos'altro.

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