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1. La notte dei vampiri

Modena, 2019

La notte di Halloween era la più attesa dell'anno: i bambini non vedevano l'ora di disegnarsi ragnatele vermiglie in faccia e i vampiri di sentirsi normali. I viali alberati della città, lambiti da una lieve foschia, pullulavano di umani diventati mostri e mostri divenuti umani, come se per qualche ora si potessero dimenticare gli sguardi ostili che i primi riservavano ogni giorno ai secondi.

Il quartiere in cui avevo parcheggiato era residenziale, in periferia, e, a differenza di quello in cui abitavo, le famiglie parevano essersi divertite parecchio ad addobbare i portici. Era come essere finiti in un film americano, le zucche erano intagliate alla perfezione e gli spaventapasseri torreggiavano lugubri nei campi.

«Scusi, signorina vampira!»

Osservai il minuscolo fantasma correre via con le mani piene di caramelle e sorrisi, non mi ero nemmeno accorta che mi fosse venuto addosso. Avvolta nel mio lungo abito di velluto, con il colletto alto e i guanti scuri, ero troppo concentrata sui ragazzi accampati nel giardino di casa Russo.

Accidenti, i miei amici ci avevano visto giusto. Sembrava esserci l'intera Facoltà di Giurisprudenza, nessuno si era perso la festa organizzata dal figlio del sindaco.

«Meg! Grazie a Lucifero, finalmente sei arrivata.»

L'abbondante profumo alle rose non servì a nascondere la fragranza acida del papavero, l'abbraccio di Daniel mi fece arricciare il naso. Mi era venuto incontro sul marciapiede e non era travestito, impersonava sé stesso come molti altri.

«Non ne posso più di sentire quella matricola blaterare sul diritto romano» borbottò, girandosi senza troppa disinvoltura.

Sbirciai alle sue spalle e scorsi un ragazzo allampanato con un cappello e una maglia alla Freddy Krueger salutare.

«Puoi anche non dargli corda, eh» ribattei, stando attenta a non calpestare le peonie che spuntavano dalle aiuole mentre avanzavamo nella proprietà.

Casa Russo assomigliava più a un castello che a un rustico di campagna con la facciata di mattoni e il pozzo antico. Il giardino era grande e privo di recinzione, un pereto si estendeva sul retro. L'edificio si ergeva su tre piani e io sapevo che c'erano più ripostigli che camere, che in ogni stanza c'era una boccetta di estratto di lavanda e che nel sottotetto erano nascoste riviste erotiche vintage.

«Invece devo, è troppo carino. Mi prendo solo una pausa.»

Ridacchiai, era il solito. Con quella massa di capelli corvini e il piercing al labbro, faceva sempre strage di cuori. A lui non importava affatto degli occhi completamente neri, che parevano veri e propri pozzi di male. Anzi, li accentuava con l'ombretto ed era inquietante non capire dove iniziassero le palpebre. Era piuttosto sicuro di sé per essere un vampiro, forse aiutava il fatto di non avere segni rossi a solcargli il viso.

Quando superammo i gradini della veranda ed entrammo, il profumo di lavanda mi avvolse. L'ambiente era arredato in stile moderno, con toni grigi e neri, nessun cassettone antico né una cucina provenzale come ci si poteva aspettare da fuori. I muri erano spogli, privi di foto e quadri, minimali come piacevano a me, e cozzavano con la miriade di soprammobili che soffocavano le superfici.

Il salone era stato preso d'assalto da chi si sfidava a Just Dance, chi sonnecchiava sul divano, chi si dilettava a preparare cocktail sgargianti e persino dalle casse acustiche nell'angolo. Non conoscevo neppure la metà degli invitati, ma ero certa che loro sapessero benissimo chi fossi io – o meglio, chi fosse mio padre.

«Ciao, Morelli.»

Avrei fulminato chiunque avesse osato chiamarmi per cognome, eccetto Eric Russo. Mi feci lambire dalle sue braccia tatuate e inclinai il capo all'indietro, posandolo sul suo petto. Il suo odore non mi infastidiva, era lieve e mi faceva arricciare il naso solo se gli annusavo i vestiti. Chissà, magari mi ero già abituata ad averlo al mio fianco.

Daniel mi fece l'occhiolino. «Ti lascio in buone mani.»

«Ehi, aspetta» esclamai. «Ricordati che hai una ragazza.»

Sbuffò e mi salutò portandosi l'indice e il medio alla fronte.

Il padrone di casa mi tirò su per le scale sulla destra, concedendomi il tempo di studiare la camicia bianca che gli fasciava il tronco snello e i pantaloni stretti sui glutei. Anche lui, nell'unica notte in cui i mostri non facevano paura, aveva scelto di interpretare sé stesso.

La camera con le pareti color carta da zucchero ci accolse per l'ennesima volta in quella settimana, ormai era diventata tradizione fermarmi lì dopo le lezioni. Alle lenzuola imbevute di papavero, però, non avrei mai fatto il callo.

La gente si divertiva a raccontare che la fragranza derivasse dall'antica usanza di cospargere semi di papavero sulle tombe, affinché il morto si fosse perso a contarli e non fosse risorto a mietere vittime, ma per me invidiava soltanto la possibilità di avere un sudore aromatizzato.

«Allora, che te ne pare?»

Eric chiuse a chiave e la musica si attenuò. Cominciò ad avvicinarsi lento verso il materasso su cui mi ero seduta. I suoi capelli chiari, raccolti in un mezzo chignon, brillavano alla luce del lampione che filtrava dalle tende e i suoi occhi da demone ardevano. Pure se terrificanti, erano parecchio più belli delle lenti tutte nere che avevo comprato.

Mi distesi su un gomito, ignorando il tessuto della manica che tirava, e mi tolsi i guanti. «Beh, un figurone come al solito» risposi.

«Sono venuti molti umani, hai notato?» Mi raggiunse e prese ad arrotolarsi una mia ciocca castana attorno al dito. Il suo volto scavato venne attraversato da un guizzo di preoccupazione.

«Sì.» Sorrisi e sperai che mi fossero spuntate le fossette che adorava. «I Poncini smetteranno di sparare quelle ridicole sciocchezze.»

Eric era la persona più bisognosa di approvazione che avessi mai incontrato, era quasi ossessionato dalla reputazione e sospettavo che in passato avesse subito umiliazioni dai compagni di scuola.

Era il ventunesimo secolo, erano trascorsi duecento anni dalla rivelazione, eppure esisteva ancora chi temeva i vampiri. Non era nemmeno corretto chiamarli in quel modo, non toccavano sangue da tempo e i mostri del passato erano diventati leggende. Ma erano diversi, e il diverso spaventava.

Prima che i ricordi mi lacerassero la mente, mi sporsi e incollai la bocca alla sua. Ne avvertivo la necessità in maniera costante, in quel periodo era il mio ossigeno. Ero consapevole del mio atteggiamento immaturo, ma ogni volta che mi fermavo a pensare, a guardarmi, mi veniva da piangere. Stare con Eric mi faceva sentire bella e forte, il figlio del sindaco e la figlia di Giuseppe Morelli erano perfetti insieme. I tre anni che ci separavano mi facevano sentire ribelle e sensuale.

«Sei bellissima» sussurrò, fermandosi un istante per carezzarmi una guancia.

Mi beai del suo palmo caldo. «Sicuro che non vuoi scendere a goderti la festa?»

Le sue labbra carnose e un po' screpolate si sollevarono. «Sicurissimo.» Mi attirò a sé e mi lasciò una scia di baci lungo la mascella, mentre io affondavo le dita tra i suoi morbidi riccioli.

Sfiorai l'inchiostro dei due serpenti corallo che gli risalivano gli avambracci, spiccavano nella luce soffusa e s'intrecciavano con i capillari in evidenza che caratterizzavano ogni vampiro. A differenza di tanti, li trovavo affascinanti, anche nei punti in cui formavano macchie grumose. Per me erano semplici conseguenze degli squilibri ormonali e non segni antiestetici per cui provare repulsione. Vedendolo abbassare le palpebre, gli sbottonai la camicia e continuai a passare i polpastrelli su per le spalle, giù per il petto tonico, seguendo le intricate linee rosse.

Non appena giunsi sul ventre piatto, un urlo agghiacciante si levò dai campi. Riecheggiò nelle tenebre, sovrastò la confusione, ci fece impietrire.

Eric mi fissò a occhi strabuzzati, le mie dita tremolarono.

«È uno scherzo» sdrammatizzai con un fil di voce.

Le terribili grida che si udirono dopo mi fecero mancare un battito, i peli mi si rizzarono sulla nuca. Erano versi straziati, provenivano dagli inferi.

Dei pugni improvvisi contro la porta mi fecero strillare, Eric sussultò.

«Aiuto! Eric, aiuto!»

Lui si fiondò a ruotare il chiavistello e apparve la faccia terrorizzata di un suo amico. Non compresi neppure quello che gli disse, vidi Eric corrergli dietro con ancora la camicia slacciata.

Afferrai un lembo della gonna e tentai di raggiungerli, il cuore mi martellava nelle orecchie. Maledissi il vestito ingombrante che mi costrinse a scendere i gradini uno alla volta invece che a due a due.

Il salone era a soqquadro, le bottiglie di birra erano ribaltate e sparse per il pavimento. Gli invitati si stavano riversando all'esterno, spintonandosi e ancorandosi l'un l'altro al tempo stesso.

Eravamo rimasti indietro solo io e il mio rossetto sbavato, le gambe mi tremavano per la paura. Che stava succedendo? Dalla porta-finestra che dava sul retro, oltre lo scuro di legno verde che cigolava, la gelida brezza accarezzava le file del pereto e le ombre assorbivano le figure dei giovani diretti verso le torce accese nel cuore del campo. Mi mossi piano sul sentiero, il rumore dei miei stivali rimbombò nella notte. Ero già con le mani sul cancelletto, che qualcuno doveva aver spalancato e che poi si era socchiuso per il contraccolpo, quando delle ulteriori grida mi mozzarono il respiro.

Prima di raggiungere il corpo squarciato di Christian Poncini e vomitare la cena, i miei occhi cioccolato scorsero il ciuffo caramello di Nathan Ollieri spuntare dai filari e scappare in direzione opposta.

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