23. Cento rose sono meno belle
Starsene con una gamba rotta era davvero fastidioso. Non era la prima volta che mi succedeva di causarmi una frattura, ma fino a quel momento avevano coinvolto solo mani e braccia. Cercavo di continuo di muovere il ginocchio, senza nessun risultato dato che il massimo che potevo ottenere era un pulsare molto fastidioso.
Nell'ultimo anno avevo sviluppato un'idiosincrasia per qualsiasi tipo di sport – grazie al nostro nuovo insegnante di Educazione Fisica che ci teneva a una valutazione accurata e completa delle nostre capovolte in avanti – ma con la gamba rotta i miei pensieri vagavano dal farmi una passeggiata sotto casa ai campionati di salto con l'asta. Potevo solo tamburellare le dita in modo nevrotico sui braccioli della sedia a rotelle che mi avevano noleggiato.
Era una situazione insopportabile, insopportabile!
Ma forse il peso peggiore è quello che sento sul petto, mi trovai a pensare. Ero fermo nella mia seduta forzata, da poco dimesso dall'ospedale. I miei genitori e mia sorella erano tutti sorrisi amorevoli e parole rassicuranti, le battute e le risate risuonavano nella casa. Eppure avevo preso il telefono che mi avevano dato dopo la morte violenta del mio, un Nokia antidiluviano di mia sorella, e invece di mettermi a giocare a Snake stavo scorrendo con gli occhi la rubrica. Mi fermavo sempre alla A di Anita e, quando avevo il coraggio di ripartire e scorrere avanti, alla N di Netti.
Mi mancavano. Mi ero davvero comportato male, ma come Fonzie avevo una giacca di pelle e facevo fatica a chiedere scusa. Chissà come stava andando la loro commedia...
Mi rividi all'inizio dell'anno, seduto su una sedia di plastica, che guardavo il Netti recitare e facevo finta di essere Fellini, alla ricerca dell'inquadratura migliore. Anita lanciava a tutti quello sguardo che aveva sempre, quello che diceva "ci sono io qui per te!". Il Papero che era stato ai miei piedi, sul pavimento lucido della palestra, quel giorno era appoggiato sul mio comodino, a fianco ai libri e ai fazzoletti. Chissà se si sentiva anche lui solo e dispiaciuto come me.
Quando vidi lo schermo che si illuminava col nome di Anita, pensai di essere in un sogno.
«Pronto?» risposi in fretta, con voce incerta.
Dall'altra parte mi rispose proprio la mia amica.
«Ehi!» diceva, allegra. E se il sogno fosse stato il nostro litigio? «Allora, sei tornato a casa stamattina? Come stai?»
«Ah... bene» dissi con imbarazzo, poi ripresi con più vigore: «Bene, dai!»
«Senti, io e il Netti ci stavamo chiedendo se possiamo venirti a trovare oggi pomeriggio, che ne dici?»
Rimasi a bocca aperta: c'era della reticenza nella sua voce, sarebbe stato strano se non ci fosse stata. Era la voce di qualcuno che stava mettendo in un frigo stracolmo una ventina di uova, ma era... sincera.
«Davide?» mi richiamò. Forse ero stato in silenzio troppo a lungo.
«Sì, scusa... Sì, certo!» mi riscossi. «Tanto non è che abbia molto da fare... Scusa, stavo solo pensando».
«A che cosa?»
Contrassi gli addominali di scatto per il nervosismo, ma poi decisi che sarebbe stato meglio affrontare il nostro discorso faccia a faccia, tutti e tre. Di certo era quello che volevano anche loro.
«Che palle che mi sono rotto proprio la gamba!» mi lamentai, sviando il discorso. «Non potevo spaccarmi, che so... il braccio? Così avrei potuto almeno imitare Auron».
«Guarda che il braccio di Auron non è mica rotto» mi rimbeccò Anita.
«E te come fai a saperlo? Hai giocato a Final Fantasy senza di me?» la punzecchiai. «Mi avevi promesso che saremmo andati avanti assieme».
«Ma se quando combatte tiene la spada con tutte e due le mani in alcune mosse!» mi fece notare lei, con veemenza. Poi fece una pausa. «...Sì, ho giocato senza di te» ammise, «ma poco! Per andare avanti con la trama ti aspetto».
«Fedifraga e traditrice!» esclamai, con un tono aulico e tragico che la fece ridere. Alzai anche la mano sopra la mia testa con un gesto attoriale che sarebbe piaciuto molto al Netti. Peccato che non potessi essere visto. «Ci penserò, se perdonarti o meno» aggiunsi.
Anita mi rispose con altre risate e qualche acuto ululato sconnesso, di quelli che facevamo noi tre.
Sarebbe stata lei a dovermi perdonare.
Quel pomeriggio, dalle due alle quattro e mezza, mi accorsi di quanto passa lentamente il tempo quando si ha un arto rotto e per giunta si sta aspettando qualcosa di importante.
La prima volta che suonò il campanello, e trasalii, era il postino. La seconda erano loro.
«Ciao, Ani! Ciao, Netti!» sentii la voce di Giulia, festosa. Loro risposero a volume più basso, ma riuscii lo stesso a sentirli: Anita mi pareva sempre la stessa, ma c'era qualcosa di strano nella voce del Netti. Era un tono cupo che io non avevo mai sentito, e probabilmente era colpa mia.
Mi spinsi fino alla porta proprio nel momento in cui i miei amici la aprirono. Li guardai entrambi in faccia: lei aveva un mezzo sorriso cordiale, lui invece era inespressivo e pallido come un morto. I passi di mia sorella che tornava in cucina rimbombavano nell'aria.
Accennai un saluto che morì a metà: era meglio arrivare subito alla questione.
«Comincio io o cominciate voi?» domandai, con la massima serietà di cui ero capace.
«Tu» replicò subito il Netti, con un tono secco che mi colse come un pugno nello stomaco. Sospirai, sperando di trovare le parole giuste che sapevo non sarebbero mai arrivate.
«Sono stato un coglione» esordii.
«Speravo in qualcosa di più preciso» mi aggredì subito il Netti, e io non riuscii a biasimarlo.
«Lascialo parlare!» intervenne Anita, con sguardo accorato. Capii che l'idea era stata solo sua, che era lei a volere con tutto il suo cuore che la nostra piccola compagnia di scemi tornasse intera e non fosse più fratturata come la mia gamba.
Spinsi la sedia verso la finestra aperta e guardai il sole ancora alto nel cielo attraverso i buchini della zanzariera.
«C'è un mio amico che si chiama Giovanni. È in terza A» esordii. Mi bloccai e spostai gli occhi su di loro, nell'assurda speranza che, solo sentendo quel nome, avessero capito tutta la storia. Ma, come era ovvio, non successe.
«Eravamo in compagnia assieme quando ero ancora in terza media, solo che un anno lui è stato...» esitai, senza sapere quanto sarebbe stato necessario rivelare. «Male. E ha cominciato a prendere roba».
«Roba pesante?» mi domandò Anita.
«Eh, sì, anche» replicai, unendo le mani in grembo. Se avessi potuto, avrei cominciato a camminare nervoso su e giù per la stanza, ma ancora una volta quell'immobilità forzata era una maledizione. Dopo aver nominato il mostro proibito che dava la caccia a Giovanni, mi sentii come se avessi scoperchiato il vaso di Pandora.
Parlavano spesso di campagne antidroga a noi ragazzi, e facevano bene. Anche a scuola cercavano di aprire un dialogo sull'argomento, in modo che potessimo chiedere aiuto. Ma in quel momento, quando la questione non era più astratta ma riguardava qualcuno di amico, all'improvviso sembrava un tabù di cui tacere con vergogna.
Vedevo negli occhi dei miei amici un'espressione giudicante nei confronti di Giovanni – che loro neanche conoscevano – e da un lato sapevo che mi stavo inventando tutto, dall'altro temevo di scontrarmi contro il muro della loro indifferenza, della loro repulsione. Del resto, non ne avevamo mai parlato.
«Lui sta seguendo un percorso di riabilitazione, ma... è difficile» continuai. Di nuovo mi venne in mente il viso scavato di Giovanni: se era doloroso per me, potevo solo immaginare cosa stava passando lui. «Ogni tanto ci ricade. Il giorno dell'autogestione è andato a scuola per fare un po' di casino, e anche, in un attimo di debolezza, per vedere se riusciva a procurarsi qualcosa. Non l'ha trovato, ha dato di matto e ha spaccato la finestra. Mi hanno detto che l'attimo dopo stava guardando davanti a sé impaurito, come se non fosse neanche stato lui...»
Anita mi guardò con gli occhi che luccicavano, forse specchio dei miei.
«Come sta adesso?» mi domandò. Il Netti non intervenne, ma dall'espressione che aveva seppi che mi credeva. Farmi perdonare, però, sarebbe stata tutta un'altra cosa.
«Quando sono arrivato in moto, e il Netti mi ha visto, lui era scappato fuori dalla scuola. C'era un suo amico che l'ha riaccompagnato a casa in macchina, poi lo hanno portato in ospedale per dei controlli e adesso è fuori. Vedete, lui è già stato bocciato due volte, quest'anno avrebbe la maturità, ma per le assenze è già sul filo del rasoio» sospirai, e mi ci volle qualche secondo prima di riuscire a riprendere il discorso. «Io voglio che abbia una seconda possibilità e, in quel momento, pensavo di essere l'unico a potergliela dare: Zucchi, che è in classe con lui, era d'accordo, e abbiamo concordato una versione per la finestra. A quello lo ascoltano come al messia».
«Però hai mandato in merda me» ribatté il Netti.
Io annuii.
«Però ho mandato in merda te» ripetei.
Quando alzai gli occhi su di lui, mi sembrò di scorgere della pietà in fondo al suo sguardo, ma era celata sotto a numerosi veli di rabbia.
«Almeno ora so il motivo» mi disse, «e posso immaginare perché tu l'abbia fatto. Ma a questo punto potrei essere io quello che viene bocciato. E, con buona pace di Giovanni, io non voglio. Me lo meriterei anche, forse, ma non per una cosa che non ho fatto».
«Non potevo immaginare che saresti stato là, Netti» provai a giustificarmi. Sapevo che quello che avevo fatto era sbagliato, ma l'avevo fatto in buona fede.
«Ci devo pensare» concluse, secco. Il suo viso non mostrava nessuna emozione, ma si tradì guardando per un istante il Papero.
Brutto anatroccolo, aiutami tu!, pensai, mentre li vedevo andarsene.
Il giorno successivo andai a scuola senza moto, per la prima volta da quando l'avevo comprata. Quando entrai in classe, con mia grande sorpresa, i miei compagni mi sciamarono attorno, anche quelli con cui in genere non parlavo. Mi facevano un sacco di domande, tra un «come stai?» e un «ci siamo preoccupati!». Io smisi di ascoltarli quando notai una fila di tre banchi in fondo alla classe.
Il Netti si era chinato per recuperare qualcosa dalla cartella per terra, Anita mi sorrideva e, ammiccando, mi faceva cenno di avvicinarmi.
Cominciava giugno, il mese del caldo bestiale, e si avvicinava l'ultima verifica di matematica, anzi goniometria.
La frase che si sentiva più spesso riecheggiare per le mura del Croce era "Io ho scelto il classico perché non volevo fare matematica!". Anita la riteneva una presa di posizione molto superficiale, ma io non me la sentivo di dissociarmene del tutto.
«Ti te ga messo a studiar?» domandai al Netti, in tono scherzoso, vedendo i suoi esercizi su seni e coseni incolonnati sul quaderno in un tentativo di ordine meticoloso. Mi venne spontaneo provare a comportarmi come sempre e, del resto, non mi restava molto altro da fare.
Lui sospirò con un mezzo sorriso.
«Magari se mi vedono che m'impegno per l'ultima, almeno matematica me la abbuonano».
Spostai lo sguardo sul suo astuccio e vidi un bigliettino che faceva capolino tra penne ed evidenziatori, perennemente scarichi.
«Te andarà nome che ben, te vedaré!*» vaticinai.
Nei giorni seguenti decisi che, gamba o non gamba, avrei dovuto mettermi sotto con lo studio anche io, perché il Netti non era l'unico che rischiava matematica a settembre. Mi riavvicinai ad Anita e al Netti, scoprii che la rabbia poteva svanire e, sopratutto, che andare a scuola in autobus aveva anche i suoi pregio, oltre a enormi difetti.
I miei due amici mi facevano compagnia ogni giorno a casa, studiavamo e facevamo merenda. Il Netti, inoltre, era sempre più vicino al momento per lui più importante di tutto l'anno: la commedia.
Così, mi offrii per fare da pubblico a lui e Anita mentre ripassavano la parte. Mi era sempre piaciuto come recitavano, ma dovevo ammettere che (sarà stato davvero merito di quel belloccio di Alessio?) erano migliorati parecchio negli ultimi mesi.
Emma aveva costruito al Netti un naso posticcio e lui lo sfoggiava fiero davanti a me, mentre esclamava con tono sia comico sia drammatico:
«Ce n'erano di cose da dire sul mio naso – diamine! – e di toni da sfoggiare! Per esempio, vediamo. Aggressivo: "Io, signore, se avessi un naso simile, me lo farei tagliare!". Amichevole: "Certo che quando bevete vi si immerge nel bicchiere! Fatevene fabbricare uno su misura!". Descrittivo: "È una montagna, un picco, un promontorio!... Ma che dico, un promontorio? È una penisola!"»
N.d.A.
* In dialetto, "nome che" è un rafforzativo, quindi quello che ha detto Davide si traduce più o meno come: "Andrai benone, vedrai!".
Le battute finali pronunciate dal Netti provengono dal celebre "monologo del naso" di Cyrano. Consiglio anche qui l'interpretazione di Gigi Proietti che potete trovare su Youtube!
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