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22. Ventidue

La successiva cosa che ricordo è una corsa sfrenata fuori da casa mia. Non riuscivo a capire che ora fosse, né dove stessi andando, avevo in testa solo le parole di Marco.

Davide ha fatto un incidente e l'hanno portato in ospedale.

A un certo punto, un istante che non riuscivo bene a inquadrare nel tempo, sentii la mano del Netti prendere la mia e guidarmi verso la fermata. C'era un autobus che, dopo aver scaricato un passeggero, sbuffava.

«Mi scusi! Mi scusi!» gridò il Netti, sbracciandosi nella speranza forse vana di far riaprire le porte all'autista.

Successe il miracolo: si riaprirono veramente. Dalla cabina ci guardava un uomo che riconoscemmo: era il signore che aveva guidato l'autobus della linea scolastica fino a qualche mese prima. Poi non lo avevamo più visto e al suo posto era arrivata un'asettica signora di mezz'età.

«Mi scusi» ripeté il Netti, «questo va all'ospedale?»

Lui annuì con la testa e ci fece cenno di salire. Poi si passò una mano sui folti baffi, chiuse le porte e premette sull'acceleratore a tavoletta. Per una volta, però, non era solo lui ad avere fretta.

Ci sedemmo su due sedili vuoti e io mi strinsi nelle spalle, portandomi le mani sulla pancia. Il clima era tutto fuorché rigido, ma non sentivo nessun calore dentro di me, solo una stretta forte e persistente alla bocca dello stomaco.

«Ani, tutto bene?» mi domandò il Netti. Probabilmente ero pallida, e lui sospirò.

«Non ti ha detto nient'altro, vero?» ribattei, riferendomi a Marco. Era una domanda stupida, perché avevo sentito anch'io il loro breve discorso, dall'inizio alla fine. Eppure, con disperazione mi aggrappavo alla speranza di aver perso uno "sta bene", o qualcosa di simile.

«No» mi rispose lui, atono. «Coraggio, tra poco ci siamo».

Ma mancava ancora un bel po' all'Ospedale dell'Angelo, poco fuori Mestre. Era il più vicino, dato che nostri paesini erano tanto piccoli da avere solo un pronto soccorso per le prime emergenze, e mi preoccupava il fatto che Davide fosse stato portato lì.

Guardai fuori dal finestrino, dove il sole, ignaro di cosa mi stesse succedendo, era ancora alto nel cielo. Illuminava il paese che, inerte, attendeva l'inizio dell'estate.

Quando l'autobus affiancò una piccola stazione e, sempre con uno dei suoi lamenti, si fermò a quello che per lui era il capolinea, capimmo di essere arrivati. L'ospedale verso cui ci dirigemmo con passo più rapido possibile era una struttura imponente, con grandi vetrate su tutta la facciata anteriore. Se fossi stata nelle condizioni di pensare, mi sarei fermata – come al mio solito – a osservare nei particolari ciò che mi stava davanti. Ma mi passò per la testa solo che era nuovo, inaugurato neanche un anno prima, e che raccontavano addirittura vi fosse al suo interno un giardino coperto con piante tropicali.

Per qualche motivo, il mio cervello elaborò quell'immagine, in sostituzione ai tanti presentimenti orribili su Davide che lo stavano affollando: quel pensiero fu come un tradimento al mio amico, e mi fece stare ancora più male di prima.

Avevo sempre avuto un terrore irrazionale degli ospedali, e questo rese ancora più grande la mia sorpresa quando, oltrepassando l'entrata, ci trovammo davanti a un ambiente quasi accogliente. Niente corridoi alla Grey's Anatomy: la sofferenza, nelle camere dei reparti, era racchiusa in un'intimità discreta.

Io e il Netti ci mettemmo a vagare, osservando la gente che andava e veniva e i cartelli che indicavano le varie aree. Era strano che nessuno ci avesse ancora fermato per chiederci dove fossimo diretti. Quasi in simultanea, aggrottammo le sopracciglia quando ci rendemmo conto che avevamo girato in tondo per tornare al punto da dove eravamo partiti, e che quello vicino alla porta era un bar. Quelli che stavano prendendo il caffè sembravano tanto...

«Anita?» mi chiamò all'improvviso una ragazza più grande. «Netti?»

Si sporse oltre a un dottore che leggeva con tranquillità la Gazzetta al bancone, e la riconobbi: era la sorella di Davide, con un sorriso discreto ma sincero, e dietro di lei i suoi genitori si aggiunsero al saluto.

Io e il mio amico ci avvicinammo, confusi. I parenti di Davide avevano una serenità che, all'interno del quadro disastroso nella mia mente, era del tutto fuori posto.

«Siete venuti a trovare Davide?» mi chiese Giulia.

«Mi sa che avete sbagliato strada» si aggiunse il padre, con un'espressione che di certo non potevo definire allegra, ma piuttosto tranquilla. «Anzi, avete proprio sbagliato porta: il reparto di ortopedia è nell'altro edificio».

«Ortopedia...» ripetei quando riuscii a recuperare l'articolazione della bocca, cercando di comprendere il significato di quella parola.

«Anita, tutto bene?» si premurò di chiedermi Giulia.

«Abbiamo litigato con Davide qualche giorno fa» rispose il Netti al posto mio, tutto d'un fiato. «Quindi non abbiamo capito cosa è successo e ci siamo spaventati e...»

Giulia scosse la testa e sorrise intenerita. Con un tintinnio di braccialetti, ci venne incontro a braccia aperte e ci strinse entrambi.

«Oh, no, non è successo niente» ci rassicurò con dolcezza, quasi fosse nostra sorella maggiore. «Mi dispiace che abbiate preso paura. In realtà l'abbiamo avuta tutti quando...» si interruppe e lanciò una rapida occhiata all'orologio da parete alla sua sinistra. «C'è ancora una mezz'ora per le visite. Vi accompagno a salutarlo, che ne dite?»

Annuimmo con energia, e io sentii la paura dissiparsi dal mio cuore.

Giulia ci precedette e ci fece strada verso un lungo corridoio, dove parlò in modo gentile a un'infermiera che si voltò verso di noi con un sorriso cordiale, invitandoci a seguirla.

«Ecco, prego» ci disse, indicandoci una porta.

La sorella di Davide entrò per prima, seguita a ruota da noi due. Quando vidi il mio amico, mi dovetti trattenere dal gridare il suo nome con sollievo e corrergli incontro.

Aveva una gamba tutta ingessata, tenuta sollevata da un'imbracatura. Quando sentì la voce della sorella, alzò lo sguardo dal volumetto di One Piece che stava leggendo e si spinse su gli occhiali, che gli erano caduti quasi sulla punta del naso rendendolo un'involontaria imitazione di Geriati.

«Oh, ancora rompi?» scherzò, rivolto a Giulia. Poi vide me e il Netti: il sorriso gli svanì dalle labbra, per poi tornare più radioso di prima.

«Ragazzi!»

«Davide!» mi lasciai sfuggire, mentre il Netti avanzava spedito verso di lui. Mi tappai la bocca con la mano e mi guardai attorno: per mia fortuna, il letto a fianco a quello di Davide non ospitava nessun paziente.

«Che ci fate qui?» riprese lui, «avevate provato a chiamarmi? Mi dispiace, ma il telefono mi si è sfracellato quando sono caduto...»

All'improvviso, calò un silenzio totale in cui, forse, tutti come me ci ricordammo di quegli ultimi giorni, di quel litigio di cui sembrava non essere rimasta nell'aria nemmeno una particella, come se ce lo fossimo sognato. Come se la Linea Maginot fosse rimasta intatta e il Papero non avesse mai smesso di starnazzare.

«Ma che diamine è successo?» sbottò il Netti. Io sapevo che voleva chiedergli spiegazioni su tutto, sulla finestra, sul perché avesse cominciato ad evitarci a scuola... ma quando Davide rispose, parlava dell'incidente:

«Eh, uno in macchina mi ha tagliato la strada mentre ero vicino casa» ci spiegò con un sorriso amaro, «sono caduto e la moto mi è caduta sulla gamba».

Alzò le spalle, come a dire che non stava prendendo la sua situazione in modo drammatico, ma nemmeno con eccessiva leggerezza.

«Telefono morto» aggiunse.

«E la moto?» ribattei. «Ma il tipo si è fermato?»

Mi bloccai per dargli il tempo di rispondere, dato che lo stavo sommergendo di domande.

Ci raccontò con calma tutto l'accaduto, spiegandoci per filo e per segno cosa gli era successo, e ci disse anche di non preoccuparci dal momento che – anche se avrebbe dovuto tenere il gesso per una settimana o più – lo avrebbero dimesso il pomeriggio seguente, dato che lo stavano solo tenendo in osservazione.

Quel giorno il Netti decise, dato anche il poco tempo rimasto per la visita, di non accennare alla problematica questione. Gliene fui grata dato che, con lo spavento che avevo preso, non sarei riuscita certo a ragionare in modo lucido.

Il mattino dopo, per forza di cose Davide non si presentò a scuola. Io e il Netti ci sedemmo ai due banchi in centro all'ultima fila e, anche se con poco nerbo, concordammo un piano per tirare fuori al nostro amico la verità.

Ripercorremmo più e più volte l'accaduto, come Bruto e Cassio che cercassero di trovare il momento migliore per pugnalare Cesare.

«È proprio assurda, 'sta storia della finestra» sentenziò il Netti, fagocitando una Kinder Delice con un solo boccone. Mi faceva piacere che gli fosse se non altro tornato l'appetito, e speravo coincidesse anche con un rinnovato ottimismo nei confronti della sua commedia, dato che allo spettacolo mancava davvero poco.

Per quanto riguardava la questione Davide, invece, non potei che dirmi d'accordo con lui mentre tamburellavo con la penna sul diario.

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