21. L'healer del gruppo
Avrei voluto parlare col Netti il primo giorno in cui era tornato a scuola. Avrei voluto dirgli che, per qualche motivo, da quando lui era stato sospeso Davide mi evitava e aveva cambiato posto. Avrei voluto dirgli che avevo cercato di chiedere in giro ma, di quel casino successo durante l'occupazione, io non avevo capito proprio niente.
Tuttavia, non ero nemmeno riuscita a rivolgergli la parola in classe, forse per colpa della strana aura scura che circondava Davide. Ero sicura che non ce l'avesse con me – non poteva, non gli avevo fatto niente – ma si era chiuso in sé stesso e aveva mugugnato solo un saluto.
Per la prima volta in tanti anni non ci sedemmo nei tre banchi in fondo, e non perché uno di noi era malato o aveva fatto manca. Sorrisi a Maria quando mi invitò a sedersi accanto a lei, forse intuendo che c'era qualcosa che non andava, ma sentivo freddo. Davvero insolito, per un'assolata mattina di inizio giugno.
Il fatto che sarei tornata in autobus col Netti mi rincuorava, perché avrei potuto agire indisturbata. Ebbi una brutta sorpresa quando la Volvo nera dei suoi si fermò davanti al cancello della scuola e lui sparì oltre la portiera. La macchina se ne andò con un improbabile stridio degli pneumatici che sembrava un effetto sonoro di Need For Speed e io mi trovai da sola, in piedi e aggrappata al palo di metallo, in mezzo a un autobus rumoroso e affollato.
Non avevo nemmeno voglia di ascoltare la musica: non mi sentivo così da quando gli 883 si erano sciolti.
Papà era andato da un suo amico, uno che lavorava all'INPS e proprio quel giorno andava in pensione. Quindi mi ritrovai ad appoggiare con poca grazia lo zaino sul mobile dell'entrata, mentre le nuvole nere di un temporale passeggero, quasi per accompagnare il mio stato d'animo, coprivano il sole.
Frugando nel frigorifero alla ricerca di cibo spazzatura che mi avrebbe consolato, mi trovai a riflettere sulla mia situazione. Il fatto era che mi sentivo persa. Non era una novità, ma fino a quel momento non mi era mai capitato di sentirmi sgretolare sotto ai piedi anche quelle poche, salde amicizie che ero riuscita a costruirmi negli anni.
Guardai i würstel sfrigolare sulla piastra.
Mi sentivo delusa da me stessa. Avevo fatto così tanto l'astronoma parlando della mia "incredibile compagnia", e ora che si presentava una difficoltà mi sentivo così confusa da colpirmi da sola. Ero una codarda, e con la scusa di non volermi immischiare negli affari tra il Netti e Davide me n'ero lavata le mani, rimanendo in balia degli eventi.
Accesi la televisione e, quando vidi Alfano rispondere alle domande di un giornalista, decisi di cambiare canale. Non ero certo dell'umore per interessarmi di politica. Avrei potuto guardare Dragon Ball sul sesto canale, se non avessi saputo già tutti gli episodi a memoria.
Seguii con poca attenzione il combattimento mentre sbocconcellavo i würstel affogati nel ketchup, specialità di casa Corbelli. La cosa mi fece ricordare quel mio compagno delle medie che, con il ketchup, ci condiva la pasta. Allora mi rincuorai, considerando che le mie abitudini alimentari non erano ancora arrivate a quel livello di disperazione.
Non riuscivo a trovare un posto, un vero posto all'interno della compagnia, all'interno della classe, all'interno della mia famiglia... e questo si rifletteva sul non sapere cosa avrei fatto nella vita. Nonostante avessi detto belle parole, quel giorno lontano in cui avevamo proposto al Netti le nostre idee per Cirano, sentivo di non essere la protagonista della storia.
Il Netti aveva la sua passione per il teatro, il suo andare male a scuola e i suoi capelli lunghi che, quando erano sciolti, sembravano una cascata celata da una foresta selvaggia. Davide aveva la sua giacca di pelle, la sua moto e il Papero. E io?
Sospirai con le mani nei capelli: avevo lasciato un po' di ketchup sul piatto, e in tempi migliori lo avrei preso con il dito per non sprecarne neanche una goccia, ma non ero proprio in vena.
Mi avvicinai con flemma al mobile della televisione, presi tre videogiochi a caso e mi lasciai cadere sul divano come se pesassi cento chili.
Con la coda dell'occhio vedevo Freezer che cercava di avere la meglio su Vegeta, e mi rigiravo le custodie dei giochi tra le mani. Continuavo a fissare Final Fantasy X: avevo promesso che non sarei andata avanti senza Davide.
Oh, fanculo, pensai alla fine e, un po' per spregio nei suoi confronti, un po' perché eravamo arrivati a un punto della trama che mi intrigava parecchio, decisi di giocarci.
Accesi la Play, e lei mi rispose con il suo caratteristico ronzio, col rumore del disco che cominciava a girare.
Mi ritrovai nel deserto, e il mio buon Tidus – lontano ormai dal trauma di essere bombardato dai fulmini – era completamente solo. Con la faccia concentrata e il pollice sinistro ben piantato sulla levetta analogica, esplorai un po' in giro, fino a quando non mi riunii con tutti i miei amici.
Tutti tranne una.
E come faccio adesso senza Yuna? mi domandai, mentre cercavo con frenesia una buona combinazione di personaggi per bilanciare difesa e attacco durante il combattimento. Sono senza healer...
La maga bianca era fondamentale: senza di lei, chi avrebbe curato la squadra? Certo, avrei potuto sostituirla, usare oggetti magici che avevano lo stesso identico effetto dei suoi incantesimi, ma non sarebbe mai stato lo stesso.
Il pensiero mi colpì all'improvviso. Mi trovai a riflettere su quell'idea forse banale, nonostante lo scarso interesse del vermone che avevo trovato nel deserto, che pareva essere uscito direttamente da Dune e aspettava con pazienza la fine di un mio turno eterno.
In un gruppo non esiste solo il protagonista, quello che prende in mano la situazione e trascina con sé la trama. Le storie non sono formate solo da eroi sicuri di sé: in certi momenti, serve anche qualcuno che sistemi, che guarisca.
Forse è il mio momento, mi resi conto, e il verme gigante volò nella stratosfera colpito dalla mia spada.
L'attimo seguente ero per strada, con i piedi che colpivano i sampietrini veloci come le zampette di un chihuahua e uno sguardo determinato fisso davanti a me. Il Netti era in punizione, ma non molto tempo prima mi aveva rivelato che tra i suoi genitori mi ero fatta la nomea di "quella brava": era il momento di sfruttare la mia posizione.
Suonai al citofono, e quando la madre del Netti mi rispose usai il tono più dolce e gentile di cui ero capace:
«Sono Anita» cinguettai. «Stavo cercando Serse...»
Chiamarlo in quel modo era come pugnalarlo alle spalle, ma sapevo che alle orecchie dell'austera genitrice sarebbe sembrato un atto intimo e premuroso.
Un sorrisetto soddisfatto mi si dipinse sulle labbra quando sentii il cancello venire aperto e la sua voce che mi invitava a entrare. Mi feci strada per rampe di scale che ben conoscevo sino ad arrivare al secondo piano della palazzina. La porta mi aspettava socchiusa, e lo spiraglio di luce che fuggiva illuminava uno zerbino anonimo e un po' usurato.
«Anita cara!» mi accolse la signora Netti con un sorriso a trentadue denti, sul quale spiccavano quattro incisivi grandi e tondeggianti. «Vieni, vieni dentro!»
«Buongiorno, signora» salutai con un sorriso cortese, e varcai la soglia con discrezione. Mi guardai attorno a destra e a sinistra, come se stessi per attraversare la strada, ma non vidi il padre del Netti.
«Sono venuta a trovare Serse» continuai allora. «È da un po' che non lo vedo, e dopo...»
Mi bloccai, perché né "sospensione" né "occupazione" mi sembravano il termine adatto. La signora Netti, però, non sembrò neanche ascoltarmi mentre si sistemava il vestito a fiori sul petto. Ben stabile su dei tacchetti affusolati, come se stesse perennemente aspettando degli ospiti a cui mostrare la casa, si fece seguire verso il soggiorno. Passai accanto alla cucina dove aleggiava un vago odore di patate arroste e spezie.
«Serse!» tuonò poi lei, con un piglio da signorina Rottermeier, dirigendosi verso la camera del figlio. «C'è Anita!»
Vidi la porta della stanza del Netti socchiudersi e il suo viso, un po' spaurito, fare capolino. Quando riconobbi il suo naso sempre arrossato non potei che sentire un moto di sollievo nel cuore.
«Ani?» esordì stranito.
Io colsi la palla al balzo. Ben consapevole che sua madre ci stava ascoltando, sfoderai un sorriso a trentadue denti e proclamai:
«Ti va di venire a studiare da me?»
La signora Netti era raggiante; la missione era compiuta.
Ci ritrovammo ben presto – dato che il Netti desiderava uscire di casa alla velocità della luce – seduti al grande tavolo di casa mia, circondati dai libri delle materie più disparate. Per rendergli onore, tirai fuori dalla dispensa due Crostatine alla marmellata, rigorosamente schiacciate, nel tentativo di alleggerire la triste atmosfera.
Non so se fu merito loro, ma passò ben poco tempo prima che il Netti decidesse di confidarsi.
«Ani» mi disse, «sono in un gran casino».
Io lo guardai negli occhi, con aria seria ma apprensiva. Mandai giù un pastoso boccone di merendina.
«L'hai rotta te la finestra?»
«No» fu la lapidaria risposta.
Calò il silenzio ancora una volta, ma fu solo perché il Netti prendesse fiato prima di cominciare a parlare a ruota libera. E mi raccontò una strana storia.
Mi disse che lui si stava facendo i fatti suoi all'autogestione, da solo in un'aula vuota, quando all'improvviso aveva sentito un gran rumore provenire dal piano di sotto. Non si ricordava di preciso i dettagli, ma ad un certo punto era comparso Davide che aveva – così si vociferava – "risolto la situazione", senza nemmeno degnarlo di uno sguardo quando era finito in infermeria per delle schegge piantate sul piede.
«E da quel giorno non ti ha più rivolto la parola?» gli chiesi, con le sopracciglia aggrottate.
«Neanche un fiato» mi confermò lui.
«Che strano...» riflettei, arricciandomi una ciocca sull'indice. Davide non si era mai comportato in quel modo: capire il suo disegno era per me come navigare al buio, in una notte senza stelle e per giunta lontano dalla costa. «Chi c'è finito, dal preside con te?»
Quando mi sciorinò una lista di nomi mai sentiti, mi limitai a sospirare e a rigirarmi tra le mani il telefono. Avevo deciso che quella sera avrei chiamato Davide, poco importava se il Netti non sarebbe stato d'accordo. Stava a me riallacciare i nodi che si erano sciolti.
«Sai, stavo quasi per abbandonare il progetto della commedia» le parole del mio amico, all'improvviso, mi colpirono come una secchiata di cubetti di ghiaccio. Il mio amato Nokia sfuggì dalla presa e andò a spiaccicarsi di faccia sul tavolo, eludendo ogni mio mulinante tentativo di afferrarlo al volo.
«Cosa?» esclamai, piantandomi i pugni sui fianchi. «Spero che il discorso si fermi a "stavo per"!»
Il Netti si strinse nelle spalle: forse non si aspettava una mia reazione così impetuosa.
«Sì, beh...» borbottò, confuso. Il discorso venne interrotto da una forte vibrazione proveniente dalla sua tasca.
«Scusa un attimo...» mi disse il Netti. Lo vidi aggrottare le sopracciglia nel leggere il nome di chi lo stava chiamando e, per riflesso, imitai la sua espressione e cercai il suo sguardo.
«Pronto?» rispose.
Ero vicina al mio amico, e il silenzio era tale che sentii la voce distorta della persona dall'altra parte del telefono.
«Netti, ciao».
Era un ragazzo, forse un nostro compagno di classe. Il suo tono sembrava stranamente concitato, come se fosse successo qualcosa di brutto. Senza quasi accorgermene, avvicinai il mio orecchio a quello del Netti.
«Volevo sapere se avevi notizie di Davide».
Il Netti rimase con la bocca mezza aperta come quella di una trota, il mio cuore invece fece un balzo nel petto.
«No...» ribatté a mezza voce dopo qualche secondo, «ma scusa... in che senso?»
«Eh» rispose l'altro, «ho sentito che ha fatto un incidente in moto e l'hanno portato in ospedale, ma non so altro».
Il mio battito si fermò del tutto e cominciò a calare il buio. Il mio stomaco si era contorto e non mi sentivo più le punte delle dita. L'unica cosa che riuscii a udire, in quello stato catatonico, fu la debole voce del Netti.
«Grazie per avermi avvisato, Marco» diceva. «Appena so qualcosa ti scrivo».
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