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16. L'acqua dei folpi

Il campanello trillò, e per un attimo pensai che potesse non essere il Netti, ma qualche scocciatore venuto a importunarmi in un momento in cui ero arrabbiata e triste. Mi affacciai dalla finestra, e fui rassicurata dal vedere la sua bizzarra figura biondiccia alla luce dei lampioni. 

«Ani, che succede?» mi domandò di nuovo lui, dopo che ebbe salito a due a due i pochi scalini che lo separavano da me. Notai una preoccupazione sincera nei suoi occhi, e sperai che non notasse che i miei erano lucidi. 

Mi limitai a scuotere la testa.

«Nulla di che, davvero, Ne'» replicai, e mi lasciai cadere sul divano. «Stavo pensando a quello che è successo negli ultimi giorni, e all'improvviso mi sono sentita così».

«E cosa è successo negli ultimi giorni?» mi chiese il mio amico, stranito. In effetti, né a scuola né fuori era accaduto nulla di degno di nota.

Era dentro di me che le cose non andavano bene: pensavo che con la fine dell'inverno la nebbia si sarebbe diradata, e sarei stata folgorata da un'idea per il mio futuro, oppure mi sarei decisa a rassegnarmi alla mia inutilità e andare avanti così. 

«Nulla» replicai.

Non era successo niente. Le giornate trascorrevano pigre, ma allo stesso tempo mi sembrava che finissero in un batter d'occhio: un giorno ero all'inizio del mese, quello dopo ero alla fine, e nulla progrediva. Le mie notti erano tormentate dal pensiero di Alessio, che vedevo tutti i giorni e che non riuscivo ad approcciare. Una parte di me si rendeva conto che sarebbe stato sconveniente, se non addirittura impossibile, che io mi avvicinassi a lui in quel modo, ma un'altra – la parte stupida, infantile e imbarazzante – continuava ad avere il cuore che palpitava a mille, e fantasticava su ogni suo sorriso di circostanza.

«Se non è successo nulla» intervenne il Netti, sedendosi accanto a me «come mai stai così? Deve pur esserci qualcosa, no?»

Ero molto reticente ad aprirmi con le altre persone, dopo ciò che avevo visto accadere nella mia famiglia, nel rapporto tra i miei genitori. Sentivo però di potermi fidare di Davide e del Netti. 

«Io... mi sa che ho preso una bella cotta» gli confessai, e il respiro mi si strozzò in gola. 

Sul viso del Netti si dipinse un sorriso rapido come un fulmine. Mi sembrò di vederlo arrossire leggermente, come se fosse a disagio, ma poi la buttò sul ridere.

«E me lo dici adesso? Dopo tutti questi anni?» scherzò, rifilandomi una gomitata.

Non ero dell'umore adatto, ma riuscì a strapparmi una smorfia divertita.

«Ma non per te, scemo!» replicai, poi l'ansia tornò ad attanagliarmi le viscere. 

«Chi è dunque il fortunato?»

«Eh» commentai, «fortunato mica tanto: mi sa che mi sono presa una sbandata per Alessio».

Il Netti fischiò a labbra strette.

«Uh, ahi, ahi, ahi» replicò. «Cavolo, non pensavo».

Lo guardai a sopracciglia aggrottate, e per un attimo mi passò per la testa il pensiero che lui mi credesse innamorata di qualcun altro. Ma di chi? Cosa mi ero persa?

No, era di sicuro la mia immaginazione.

«Capisci? Non c'è niente che si possa fare» gli dissi. 

Lui ridacchiò.

«Certo che c'è!» mi rispose. «Capisco che tu non abbia voglia di uscire, quindi ora ci ordiniamo una bella pizza e giochiamo ai videogiochi».

«Ma tu non hai mai giocato a un videogioco in vita tua» commentai, ricordando che aveva sempre detto a me e Davide di essere del tutto ignorante in materia. 

«Sono troppo vecchio per imparare?»

Mi resi conto di quanto fossero importanti per me i suoi sforzi, e di quanto gli fossi grata per il semplice fatto che fosse venuto a trovarmi. L'amicizia mi scaldò il cuore e mi aprì lo stomaco, che fino a pochi istanti prima era talmente serrato che non ci sarebbe entrata nemmeno una caramella.

«Il kebab ti va?» gli domandai, e indicai fuori dalla finestra il negozio sempre aperto che dava sulla strada vuota. Era davvero insolito trovarne uno in un paese delle dimensioni di Rotta d'Osellino, ma la carne lì era talmente buona che venivano in pellegrinaggio anche dai posti vicini.  

«Certo che mi va!» replicò il Netti, raggiante. 

In men che non si dica eravamo in quel luogo caldo, profumato e luminoso, e le nostre orecchie si riempivano del rumore della carne affettata mentre girava sullo spiedo. Dovevo apparire proprio giù di morale, perché Abdul, il cuoco che mi vedeva nel suo negozio sin da quando ero bambina, riempì i nostri kebab fino all'inverosimile di salse, cipolla e altre prelibatezze. Non potei che essere grata anche a lui. 

«Ti senti un po' meglio?» mi chiese il Netti. Portava una busta di plastica con all'interno la nostra cena e due birre in lattina, non di qualità eccelsa ma fresche e adatte ad allietare la serata. 

«Sì, ti ringrazio» gli risposi. «I tuoi genitori non si arrabbieranno se non torni a casa a cena?»

«I miei genitori sono sempre arrabbiati» mi fece notare lui. «E forse non hanno neanche tutti i torti... ho già mandato un messaggio per dire che stavo da te, e penso che la vicinanza li rassicuri. O anche solo il fatto che sia con te». 

A quelle ultime parole, mi voltai per guardarlo in viso, incuriosita.

«Che intendi?»

«Te l'ho già detto, no? I miei genitori ti adorano! Ogni volta che porto a casa un'insufficienza sono lì a dirmi: "quanto ha preso Anita? Guarda quanto è brava Anita" e così via. Per loro sei quella brava a scuola e responsabile, e vogliono che ti prenda come modello».

Rimasi interdetta, e mi ritrovai a battere più volte le palpebre, come per cercare di capacitarmi delle parole che mi erano state rivolte. Non avrei mai pensato che degli adulti avrebbero potuto parlare bene di me, considerarmi una persona matura. Era la seconda volta che provavo quella sensazione. La prima era stata quel giorno in cui Emma mi si era avvicinata, a scuola, e mi aveva guardato come se fossi stata la "ragazza più grande da prendere come esempio".

Ma io non capivo. Mi sentivo la persona più confusa del mondo: vivevo in uno stato di costante smarrimento, come potevo essere considerata un punto fermo?

«L'altro giorno stavo pensando a una cosa» riprese il mio amico, dato che io avevo lasciato svanire nel fumo l'ultimo argomento di conversazione. «E ora me l'hai riportata in mente».

«Che cosa?» 

«Pensavo a come si possa pensare che la vita sia o un'impresa emozionante, oppure un noioso susseguirsi di giorni senza senso. Mi sono sentito in quell'età in cui ti trovi in mezzo, un po' pensi una cosa e un po' l'altra, quindi mi sono detto che d'ora in poi vedrò ogni giorno come un'avventura. Voglio continuare finché riesco a trovare divertenti le robe stupide, come quando siamo andati nel campo e abbiamo guardato le formiche con le lenti».

Gli rivolsi un'amichevole smorfia, ben sapendo che quella riflessione mi aveva colpito e sarei tornata a pensarci più volte, in futuro. 

«Ti sei immedesimato troppo in Cirano, eh?» scherzai.

«Ma che vuoi saperne tu!»

Il cancello di casa si aprì di nuovo e le nostre risate, assieme alla condensa dei nostri respiri, salirono al cielo cristallino, che sorrideva con una falce di luna crescente. 

Mangiammo su una tavola apparecchiata solo con fogli di carta assorbente, dato che scoprii una grossa macchia di sugo sulla tovaglia. Proprio quando uno schizzo di salsa proveniente dal mio panino, oltrepassato il piatto, si spalmò in modo trasversale su tutta la mia tovaglietta improvvisata, le prime note di una canzone che ben conoscevo si diffusero dagli altoparlanti del PC. Il Netti si era proclamato DJ per la serata, aveva composto una playlist e, dopo Baba O'Riley, era arrivata una canzone che aveva inserito apposta per me.

«Forza della natura» cantò un invisibile Max Pezzali.

Trattenni un grido da groupie e mi limitai ad alzare il mio bicchiere pieno di birra a metà, per continuare all'unisono:

«Meravigliosa e scura, bella da far paura!»

All'improvviso, sembrava che mi avessero sollevato un macigno dal cuore. Le canzoni degli 883 erano semplici, liberatorie e ironiche. Sentii di aver dimenticato l'amore disperato che provavo per Alessio – o, almeno, lo avrei dimenticato per qualche ora – l'invidia per le mie coetanee, la preoccupazione per la strada da prendere dopo le superiori.

«Chissà se tu vivi qui, chissà dove abiti, se ti fermi o se qui di passaggio».

Finii di mangiare il mio kebab in due morsi e mi alzai, agitando le mani sopra la testa per fingere di essere in discoteca. Una zaffata di odore di cipolla mi travolse, e la voglia di ridere mi solleticò la pancia.

«Alza, alza!» gridai al Netti, mentre proseguivo la mia danza comica e lo invitavo a unirsi a me. «Non è il caldo, ma sei tu che alzi la temperatura!»

Cantai e mi dimenai, forte di tutta l'energia della mia sciocca adolescenza, in cui le cose prima non tornavano e poi si riproponevano in una spirale ogni giorno identica. Sperai che, nonostante le finestre chiuse, la gente fuori mi sentisse fare tutto quel baccano.

Fu una sorta di allegra epifania, in cui le cose che poche ore prima mi martellavano la testa –  ripetendo, con la loro voce petulante, di essere fondamentali – non significavano più nulla. La mia cotta, la scelta per l'Università, le aspettative che gli altri riponevano in me. Avevo mandato in malora tutto ed ero libera.

Una selvaggia, scatenata Anita.

Finalmente.

Ero stata come il protagonista di Nord Sud Ovest Est, presa da una frenesia che mi spingeva a cercare ovunque qualcosa che, alla fine, magari non c'era nemmeno. 

Ma era il tempo di intraprendere la mia vera avventura. Per quella serata, fu scegliere il videogioco con cui io e il Netti avremo passato il tempo. 

«A cosa stai giocando ultimamente?» si informò lui, chinandosi accanto alla televisione, dove avevo ammucchiato tutti i dischi, riposti rigorosamente nella custodia giusta.

«Final Fantasy X» risposi. «Se vuoi te lo faccio provare, però ci sto giocando con Davide... poi si arrabbia se vado avanti con la storia senza di lui».

«Ma no, tranquilla, ce ne sono tanti altri» mi disse, facendo scorrere gli occhi tra Rayman 3 e GTA San Andreas. «E questo come mai ha Topolino?»

«Ah! È bello, quello là» osservai, e incrociai le gambe sul divano. 

Il Netti osservò perplesso la custodia del gioco che aveva in mano, come se non riuscisse a capacitarsene. 

«Ma di che parla?» mormorò, e prima che potessi rispondergli cominciò a guardare il retro, nella speranza di trovare una trama. «Qui ci sono i personaggi dei cartoni animati...»

«Secondo me può piacerti: hai un tuo personaggio che viaggia da un'isola fino a una città dove parte il mega crossover. Non è troppo difficile ed è divertente».

«Mi fido di te» rispose lui.

Avviai una nuova partita, poi appoggiai sullo schienale del divano la testa, che cominciava ad accusare tutta la stanchezza di quel giorno infernale.

Chiusi gli occhi, e le mie orecchie furono raggiunte da frasi che conoscevo bene. Attraverso le palpebre socchiuse, oltre le ciglia ormai asciutte, scorsi l'isola dell'introduzione di Kingdom Hearts, quel piccolo angolo di paradiso, e mi sentii a casa.

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