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14. Non è il mio tipo

Nonostante l'astio mio e di Anita nei confronti di Alberto, e della famiglia Bastianini in generale, che ci pareva battezzare i figli nell'acqua dei folpi*, il Netti decise di chiedere aiuto a suo fratello. Di sicuro, i Bastianini speravano di ricordare alla prole quali fossero le prime due lettere dell'alfabeto, dato che entrambi i loro rampolli avevano sigla A.B.

Alessio, che era il maggiore, studiava giurisprudenza da qualche anno, e nel tempo libero si dilettava a recitare con una compagnia di dilettanti chiamata La Banda dea Mora. E, a quanto pareva, era anche un fervente rivoluzionario, ed ecco spiegato perché a quella manifestazione trovammo Alberto tra le fila di un gruppo a cui non sembrava appartenere: voleva somigliare al fratello.

Non so dire se, quando Alessio entrò in palestra per la prima volta, fece girare la testa a Emma o Denise – ero sicuro che non fosse il tipo di Anita – ma non mi fece una gran bella impressione. Portava una maglietta a maniche corte di qualche gruppo indie (o, ancora peggio, di qualche band reggae che suonava alle sagre), in modo da mettere bene in mostra i bicipiti. Aveva poi scelto il look "trasandato ma affascinante", e per apparire alternativo aveva deciso di non radersi da tre giorni. Dei ricci scarmigliati, occhiali talmente sottili da farmi sospettare un fine puramente estetico e scarpe di tela stracciate completavano il tentativo. Che, almeno a mio parere, era miseramente fallito.

Dovetti però ricredermi quando assistetti ai suoi metodi. In sole due settimane, mi parve di vedere il gruppo unirsi. Ridevano alle battute di Alessio, che li trascinava, faceva provare loro nuovi metodi di recitazione e diversi generi. Addirittura l'algido professor Mondini forse era soddisfatto: mi sembrava di scorgere le sue labbra leggermente incurvate verso l'alto. 

Mi unii a uno dei loro esercizi, una volta. Ci mettemmo in fila, in piedi, e urlammo con tutta l'aria che avevamo nei polmoni. Mi sentivo un vulcano: il sangue nelle mie vene era lava, e la mia voce faceva tremare la terra. Mi sentivo libero e, per un istante, capii cosa dovevano provare loro mentre recitavano.

Spostai lo sguardo verso Anita, e notai che non staccava gli occhi di dosso ad Alessio. Ma no, doveva essere solo una mia impressione. La vidi avvicinarsi a lui con lo stesso passo leggero e felice che usava con me e il Netti, ma in qualche modo pareva affettato, come se volesse – forse anche inconsapevolmente – farsi notare. 

Per qualche motivo che non comprendevo, fui colto da un'improvvisa tristezza. Anita gli sorrise, indicandogli qualcosa sul copione che teneva in mano. L'avevo sempre vista come un punto fermo, un faro nella notte, e ora mi cadeva così? Ammaliata da un belloccio?

Mi tornò poi in mente il fastidio che avevo provato, più di una volta, quando i miei amici (si trattava di maschi, ma l'andazzo era sempre quello) abbandonavano la compagnia e sparivano nel nulla perché avevano trovato la morosa. Chissà se anche Anita avrebbe fatto così, se ci avrebbe abbandonato. 

Mi portai quel pensiero sino alla porta di casa. Pur senza volerlo, continuavo a figurarmi una scena in cui Anita correva incontro ad Alessio, come aveva fatto quel pomeriggio, ma invece di mostrargli il copione lo baciava sulle labbra.

Ma dai, pensai, mentre appoggiavo la mano sulla maniglia, quando si è mai sentito che un universitario si innamori di una almeno tre anni più piccola. Una vocina all'interno della mia testa mi rispose: "non è così impossibile, invece!". La ignorai meglio che potei.

«Ciao!» gridai, prima ancora di oltrepassare la soglia.

«Ciao, Davide!»

Una voce femminile, argentina e soave, spazzò via i cattivi pensieri.

«Giulia!» gridai, e mi fiondai in soggiorno.

Non appena vidi mia sorella, seduta sul divano con a fianco la sua valigia gialla e la custodia della viola, non riuscii a trattenermi. La abbracciai stretta e lei mi stampò un bacio sonoro sulla guancia. Notai che portava come sempre il suo rossetto preferito – il cui colore, come mi aveva insegnato lei, era rosso corallo – e i suoi capelli scuri erano ancora più lunghi di quanto mi ricordavo. Li aveva legati in una treccia che le arrivava sotto le scapole, e le stavano da Dio.

«Fratellino» mi disse, ridendo e strofinandomi la guancia con il pollice per ripulirmi dal trucco. «Come stai?»

Tra un'allegra chiacchierata e l'altra ci spostammo a tavola, che mia madre aveva imbandito con prosecco e pollo arrosto comprati per l'occasione. Dopo essersi diplomata al conservatorio di Venezia, Giulia era andata a cercare fortuna in Inghilterra, ed era arrivata a lavorare nell'orchestra della BBC. 

Nonostante fosse rimasta single, aveva trovato la stabilità economica e una propria vita in Inghilterra. Ogni volta che aveva un periodo di ferie, ne approfittava per tornare da noi, nelle braccia calde di quella famiglia che ci aveva sempre protetto.

«Un mio amico sta scrivendo una commedia teatrale» raccontai tra le altre cose, mentre tagliavo un pezzo di pollo e lo portavo alla bocca. 

Mia madre rise e si portò dietro un orecchio una ciocca dei suoi capelli biondi, che poteva ancora permettersi di tenere lunghi. 

«Ti sei buttato sulla recitazione, Davide?» mi domandò.

«Oh, no» mi schermii io, «non ne sarei mai in grado, poi loro sono bravi... io li aiuto da dietro le quinte» affermai, muovendo la mano come se stessi rimestando qualcosa. Mi piaceva la figura del cortigiano che tramava alle spalle dei signori.

Mio padre si versò il vino e poi me ne offrì.

«Chi è il tuo amico?» intervenne, riempiendomi il bicchiere. «Lo conosco?»

«Netti» risposi, e lui annuì con aria bonaria.

Chiunque ci avesse visto dall'esterno, si sarebbe trovato col cuore riscaldato dalla felicità della nostra famiglia. Avevo quasi diciotto anni ormai, ed ero abbastanza grande per riflettere. Potevo uscire dai panni del ragazzino che ero stato, e immedesimarmi nei pensieri degli insegnanti. Quando ero alle medie, o al primo anno delle superiori, doveva essere davvero un rompicapo intricato per loro capire perché mi comportavo in quel modo. Perché picchiavo gli altri, perché fumavo, a cosa mi ribellavo.

Il punto era che non sapevo nemmeno io a cosa mi stessi ribellando: sentivo un fuoco dentro di me, un'inquietudine che non comprendevo e non riuscivo a domare in alcun modo. Mi avevano preso in giro, mi avevano picchiato per due anni, al terzo avevo capito che un pugno in faccia li faceva cadere. Cosa avrei potuto fare?

Bruciavo, e non riuscii a capire che era sbagliato rispondere alla violenza con la violenza fino a quando incontrai il Netti e il suo modo di vedere le cose. 

«E Anita come sta?» intervenne Giulia. Sussultai. Perché l'aveva nominata? E perché così all'improvviso, poi?

«Bene, bene» bofonchiai, cercando di sorvolare sulla questione. Per un istante pensai che forse più tardi, quando sarei stato da solo con mia sorella, avrei potuto chiederle come funzionava l'innamoramento per le ragazze, ma poi ci ripensai e decisi di tenermi le mie questioni per me. 

Giulia avanzò invece una proposta molto interessante: non eravamo ancora arrivati a pensare al reparto sonoro, ma in effetti un fonico sarebbe risultato molto utile. Anche se non usavamo microfoni, avremmo potuto inserire delle musiche di sottofondo. 

La mia amata sorella, dopo aver notato che la rassegna "Su il sipario!" a cui avremmo partecipato coincideva con un suo periodo di ferie, si rese disponibile al ruolo.

Quella sera uscii con Anita e il Netti per un giro in bicicletta senza una vera meta, durante il quale avevo intenzione di annunciare la lieta novella.

Lasciai a casa la moto e mi diressi verso Rotta d'Osellino, dato che avremmo dovuto trovarci sotto casa del Netti. Una volta giunto, notai l'inconfondibile figura di Anita, che in sella alla sua bici da uomo si dondolava con un piede a terra. Del Netti non c'era ancora traccia: era incredibile come riuscisse a essere in ritardo anche a casa propria.

«Ehilà!» mi salutò Anita, non appena mi vide. La salutai a mia volta, e fui preso dall'istinto, per qualche ragione, di abbracciarla. Senza alcun interesse a resistere a quella mia idea, mi avvicinai a lei e la strinsi, per rendermi conto che sembravo un giocatore di rugby che placcava un avversario. Lei sembrò interdetta, perché non ero solito esprimere in quel modo il mio affetto, ma ricambiò il gesto. 

Chiacchierammo del più e del meno per ingannare l'attesa, ma notai come il discorso si arenava sempre sulla compagnia di teatro, per poi virare con delicatezza verso Alessio, che veniva sempre nominato solo di sfuggita ma sempre dalla voce di Anita. Il sospetto cominciava a montarmi nell'animo come il bianco delle uova sotto la frusta. 

«Ah, ma sai che l'ho visto l'altro giorno a Mestre con la sua ragazza?» mentii. «L'hai mai vista? È carina, bionda» aggiunsi, facendo spallucce e facendo sembrare casuale quel mio commento.

Sapevo che era una mossa davvero subdola nel caso Anita avesse veramente avuto quella cotta che sospettavo, ma sarebbe servito per farla venire allo scoperto. Per un attimo mi domandai perché la vicenda mi desse tanto fastidio, ma poi conclusi che mi faceva storcere il naso il fatto che quella che di fatto era la mia migliore amica mi nascondesse un segreto. Mi sentii sporco: anche se di tutt'altra natura, una cosa gliela stavo nascondendo anche io.

«L'ho vista una volta» replicò lei. Me la stavo immaginando, l'espressione di tristezza che aveva negli occhi? 

Presi dal pacchetto una sigaretta che avevo già girato in precedenza, e spostai lo sguardo sul palazzo che avevamo davanti. Cercai la finestra della camera del Netti, e quando vidi la luce ancora accesa intuii che ci sarebbe voluto ancora un bel po'. Quella povera ragazza sarebbe rimasta ancora sotto torchio per qualche minuto.

«Va beh» mugugnai, avvicinando alla bocca la fiamma dell'accendino, «tanto a te mica piace».

«Cosa?» domandò Anita, guardando verso i campi. Aggrottò le sopracciglia, quasi infastidita dalla troppa luce dei lampioni in quel tratto di strada.

«No, dico» ripetei, «a te mica piace Alessio, no?»

Lo sguardo della mia amica schizzò rapido dal monotono paesaggio a me. Sarebbe una pessima giocatrice di poker, pensai, e solo in quel momento mi resi conto che sentivo qualcosa di amaro sotto la punta della lingua. 

«Eh no» ribatté, facendo spallucce e cominciando a tamburellare sul manubrio, «non mi piace».

«Anita!» sbottai, regalando una poderosa manata alla mia bici. «Eh no, dai, Anita! Ma è fidanzato!»

«Va beh, Davide, che vuoi che sia? Non è che mi sono svegliata un giorno e mi sono detta: "mah, sai che c'è? Devo pensare un po' se mi piacerebbe baciare Alessio oppure no". È capitato e basta».

«Ani... cosa è capitato?» la incalzai, con uno strano nodo, molto stretto, allo stomaco. 

Anita alzò la voce.

«Ma niente! Ma ti sembro il tipo?»

«Infatti no, ma...»

«E allora non mi far incazzare, dai!» sbottò, con tono scherzoso ma fermo. Diede uno sguardo di sfuggita all'orologio, forse ancora imbarazzata. «Ma quanto ci mette? Si sta truccando?»

A fare da contrappunto a quelle parole arrivo in suono elettronico del cancello che si apriva, e un losco figuro incappucciato si fece strada nella notte con una bici sottobraccio.

«Ragazzi» ci salutò, con aria tutta allegra.

«Netti, ho un'ottima notizia per te» ribattei, senza perdere tempo. Volevo dimenticare il prima possibile il dialogo che avevo avuto con Anita. Sul momento, mi era sembrata una buona idea farla parlare, ma in quell'istante avrei voluto avere una macchina del tempo per tornare indietro e fermarmi.

Forse ci ero finito io, nell'acqua dei folpi. Magari ci ero caduto per sbaglio, come Obelix nel pentolone di pozione magica.

«Sarebbe?» replicò il mio amico.

Gli raccontai di mia sorella, di come fossi contento che fosse tornata a casa per stare due settimane intere, e quando gli parlai di poter inserire della musica nello spettacolo lui non poté far altro che condividere la mia felicità.

Per tutta la sera, non parlammo d'altro che delle scene della commedia, che ormai sentivamo nostra, e di quali canzoni ci sarebbero state bene per accompagnarle. 






*Letteralmente: "battezzare con l'acqua dei polipi", si usa per indicare una persona non molto sveglia (dall'uso di "folpo" come "scemo, tontolone").

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