12. Birra e vin fa casin
Il resto di quella serata, nella mia memoria, è un ricordo dai contorni nebulosi. Ma sono stata di sicuro più fortunata del Netti per il quale, con tutta probabilità, quel ricordo non esiste proprio.
Con l'obiettivo di vincere un peluche, provammo quel gioco in cui bisognava far cadere un fantoccio nell'acqua, quello che aveva attirato la mia attenzione dal momento in cui l'avevo visto. Scoprimmo che non era affatto facile, soprattutto da brilli, quando tutt'attorno il mondo era più lento e la mira ne risentiva. Ci divertimmo in ogni caso.
«Ehi, ragazzi!» ci chiamò una voce maschile, subito dopo che ebbi fallito il mio ultimo colpo. O fu proprio per quello che lo fallii, non ricordo bene.
Alle nostre spalle, di nuovo, c'erano Bastianini e la sua ragazza, che stringeva tra le braccia un orsacchiotto di pezza. Alberto era un campione di basket, collegai, non doveva essere stato difficile per lui vincerlo.
«Non vi è andata molto bene, eh?» mi domandò lui, passandosi una mano tra i chiari capelli a spazzola. I loro amici erano dietro di loro di diversi passi, sembrava che li avessero mandati avanti apposta perché parlassero con noi.
«No» risposi, con una risatina. Avevo una voglia matta di stringere i denti in un ghigno e ordinargli di lasciarmi stare, ma restai al gioco per vedere dove andava a parare. Intuii che avesse intenzione di prendermi in giro, ma capii più tardi che non ero io il bersaglio.
«Dai, ragazzi, vi offriamo una birra» continuò, mentre la sua ragazza si limitava a stringere il peluche e sorridere, forse nell'intenzione di apparire come una presenza rassicurante.
Il Netti, invece di domandargli "perché diamine dovresti offrirmi una birra?", accettò.
Era già alticcio, e quella mezza pinta gli diede il colpo finale. Nonostante anche io ne avessi accettata una, e anche la mia mente fosse annebbiata, paradossalmente riuscii a vedere il loro intento in modo più nitido di prima.
Il mio amico stava ridendo, del tutto fuori controllo, con il nostro compagno di classe e il suo gruppo. Talvolta, alcuni di loro si avvicinavano a lui e gli colpivano la spalla con delle sonore pacche che lo facevano barcollare.
Fu allora che decisi di agire. Interruppi il frivolo discorso con cui Anna, la ragazza di Bastianini, mi stava intrattenendo da qualche minuto in modo che non facessi attenzione al Netti, e guardai con atteggiamento teatrale l'orologio.
«Oh, è già mezzanotte!» esclamai, alzando la voce in maniera del tutto intenzionale. Sentii le risa accanto a me affievolirsi, e mi avvicinai al mio amico.
«Andiamo, dai» gli dissi, prendendolo per il polso e cercando il contatto visivo. I suoi occhi sembravano intorpiditi e appannati.
Sembrò tornare un attimo in sé quando salutò con un gesto goffo il gruppo a cui si era aggregato, poi si voltò verso di me mentre percorreva la strada che ci separava dalle nostre bici.
«Oh, l'hai sentita l'ultima?» mi annunciò, ridacchiando. Notai con piacere che riusciva ancora a tenersi in piedi, e quindi potevo concentrarmi sul camminare dritta.
«Quale?» domandai.
Lui assunse un fare cospiratorio.
«Carlo Giuliacci si è baciato con Caterina Del Rebbio» mi rivelò, come se stesse architettando l'assassinio di Cesare. Mi ci volle un po' per collegare i volti ai nomi.
«No!» esclamai. «Fai davvero? Ma quella di terza A?»
«Eh sì» confermò lui, «che è pure gnocca».
«Sì, lo è, ma anche lui è figo» mi sfuggì, ma era di sicuro l'alcol a parlare al posto mio. «Però non era fidanzato?»
Il Netti agitò una mano come se stesse scacciando una zanzara, ed emise un suono forte, acuto, simile alla sirena di un'ambulanza.
Ricordo in modo vago la strada del ritorno, breve e percorsa lentamente. Ciò che mi rimase impresso fu che a un certo punto il Netti si mise a recitare la Divina Commedia.
«Amor, ch'a nullo amato amar perdona» diceva, «tu te la ricordi questa?»
«Sì, sì, certo» risposi. «Amor, ch'a nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacer sì forte che, come vedi, ancora non m'abbandona».
«Giusto, grazie» mi fece lui. «E poi Caina ancora attende chi a vita ci spense. Amor, ch' a nullo amato amar perdona...»
E così andammo avanti fino a casa, ridendo senza in grado di capire che il verso che stavamo ripetendo era sempre lo stesso, e ogni volta ricominciavamo da capo, anche se ci pareva di andare avanti con la poesia.
Quando riposi la bici nel garage, mi resi conto che mi sembrava di essere su una nave in mezzo a una tempesta. Mi chinai, ben attenta a compiere lentamente e con precisione ogni movimento, e chiusi il lucchetto attorno alla ruota. Era inutile, ma non me ne resi conto, preoccupata com'ero del gorgoglio nel mio stomaco.
Salii la rampa di scale che mi separava dalla porta tenendo, per sicurezza, una mano appoggiata al muro. Non mi ero mai accorta che quella sorta di granelli nella vernice lo rendessero così ruvido: era come se il mio senso del tatto fosse aumentato. Era fantastico.
Dopo qualche tentativo, riuscii a infilare la chiave nella toppa della porta di casa, e quando entrai mi accorsi che le luci erano tutte spente, segno che mio papà era già andato a dormire. Meglio: mi sarei risparmiata un dialogo imbarazzante in cui non sarei riuscita a capire se fossi lucida o meno. Per contrastare il giramento di testa, chiusi gli occhi e respirai a fondo. Poi, riuscii a lavarmi senza intoppi i denti e mi distesi a letto, sempre sentendomi sulla nave in mezzo alla bufera.
Per un attimo, lì supina con la pancia che si lamentava, pensai con ironia allo stato in cui sarei stata il giorno dopo – o meglio, il giorno stesso – alle sette e mezza. Presto però i miei sensi furono vinti e sprofondai in un sonno che, sebbene non molto riposante, fu profondo e privo di sogni.
Era una fortuna che, l'indomani mattina, avessimo a scuola l'autogestione.
«Anita» mi chiamò Davide, scandendo bene il mio nome con tono da mamma preoccupata. Io alzai un po' la testa dal banco, infastidita dalla luce che filtrava dalla finestra. Avevo deciso di riposare fino a quando non sarebbero entrati in classe per spiegarci le attività organizzate dagli studenti. In quel momento, forse, avrei potuto essere in grado di decidere a quale partecipare. La meno faticosa.
«Mmh» mi lamentai, e mi massaggiai la fronte con le dita. «Cosa c'è?»
Lo stomaco si lamentava ancora, e aveva protestato a viva voce quando gli avevo chiesto di processare i tre biscotti a colazione.
«Gli mando un messaggio, al Netti?» mi domandò Davide, in ansia. In effetti il nostro amico non si era ancora visto. «Lo chiamo?»
«Ma no, ma no» replicai, e suonò come un lamento. Finii di nuovo con la faccia sul banco. «Ha solo perso l'autobus, verrà in bici. Al massimo entra alla seconda ora».
«Sì, ma è lui che organizza il cineforum» mi fece notare Davide. «Se arriva tardi lui, non si inizia».
Emisi un altro profondo, gutturale lamento, e non proferii verbo.
«Ma lui ieri sera com'era preso?» mi chiese ancora lui. «Meglio o peggio di te?»
«Eh» confessai, «un po' peggio».
Davide sospirò. Se era il preludio a una ramanzina, essa non arrivò perché fummo interrotti dal Netti che entrava in classe, trascinando i piedi sotto lo sguardo divertito della Marchiori. Nel silenzio, le chiavi del mazzo che portava appeso con un moschettone al fianco tintinnarono le une contro le altre. Sembrava un carceriere arrivato a dare l'ora d'aria ai detenuti.
Non disse una parola e non si tolse nemmeno gli occhiali da sole. Si trascinò fino alla nostra fila, lasciò cadere lo zaino sul suo banco e lo imitò, buttandosi a peso morto sulla sedia.
«Oh, Netti» lo salutò Davide, che in quel momento era il più reattivo tra i tre. «Come stai?»
Il Netti guardava nell'infinito.
«Sì» rispose.
Davide si alzò di scatto e sbatté i palmi delle mani sui nostri banchi.
«Giovani di belle speranze!» ci spronò. «Dai, che la giornata è lunga!»
Netti mugugnò.
«Ma come mai Bastianini non c'ha i postumi?» riuscì a biascicare, con quel tono lamentoso che caratterizzava anche me.
In effetti, notai anche io che il nostro compagno era fresco come una rosa, e si stava già lanciando in effusioni romantiche con la sua ragazza. Guardava il suo quaderno di matematica, e cercava di baciarla sul collo, mentre lei si scansava con falso pudore e risatine. Avevano interpretato l'autogestione come un dolce momento per studiare e tubare insieme.
«Perché è uno sportivo» osservai io.
«'Fanculo» commentò il Netti, e appoggiò la testa fra le braccia incrociate sul banco, come si faceva alle elementari. Mi venne voglia di imitarlo, dato che anche la mia pesava.
Davide ci prese entrambi per la collottola, come dei gattini che non volevano collaborare.
«No!» ci sgridò. «Fioi, dai, su!»
Ci spedì in bagno a lavarci la faccia, cosa che mi risultò possibile dato che, nella fretta, quella mattina non mi ero nemmeno truccata. Ci infilammo in un'aula a guardare nella penombra Le ali della libertà, e ringraziai di tutto cuore l'autogestione. Non avrei mai retto delle ore di lezione in quello stato.
Quando mi fui un po' svegliata, cominciai come al solito a guardarmi un po' intorno e vidi il Netti che, sotto alla fioca luce che proveniva dal proiettore, scriveva in tutta fretta qualcosa su un quadernino. Non avevo bisogno di domandarglielo, sapevo che non erano appunti sul film su cui dopo la ricreazione avremmo discusso, ma piuttosto idee per la sua commedia.
Sorrisi: se aveva dimenticato qualcosa della notte precedente, non era stato il momento in cui l'ispirazione l'aveva colpito.
La campanella arrivò prima di quanto avevo immaginato, dato che il tempo non era più dilatato come la sera precedente. Mi resi conto che mi sentivo molto meglio, e riuscii senza problemi a fare quattro chiacchiere sul film con Emma, che si era unita a noi.
Vidi il Netti che, dopo aver affiancato Davide, gli stava esponendo le sue idee, e gesticolava animatamente.
«Ehi, Netti!» ci interruppe una voce fastidiosa e graffiante. Ci girammo tutti e quattro in sincrono. Giuliacci ridacchiava in mezzo a dei tipi di altre classi che non avevo mai visto, ma tutti sembravano sghignazzarsela per qualcosa che aveva fatto o detto il Netti.
«Era buono, il vino di ieri?» domandò.
Lui provò a passare avanti con un «che volete?», ma quelli gli bloccarono la strada, canzonandolo e facendo finta di vomitare.
Indignata, strinsi un pugno fino a conficcarmi le unghie nella carne. Sentii che lo stavano sbeffeggiando perché voleva scrivere un'opera teatrale, cosa che probabilmente aveva rivelato mentre era alticcio. Quello era troppo.
«Fuori dai coglioni!» sbraitò Davide, facendosi avanti prima che potessi farlo io. Il gruppetto che avevamo davanti sembrò spaventarsi per un attimo ma poi, sentendosi in soprannumero, ripresero a ridere sguaiatamente.
Davide stava per caricare uno di loro come un toro, ed Emma era già pronta a scattare per fermarlo, quando intervenne il Netti, con voce rassegnata.
«Lasciate perdere» disse, guardando verso il basso. «Andiamo».
Rimasi immobile fino a quando la mano di uno dei miei amici mi spinse con delicatezza e decisione a camminare dalla parte opposta rispetto a quella dove stavo guardando. Fissai il Netti e mi sembrò freddo e immobile come un pezzo di marmo.
In una delle diverse notti in cui ero stata colta dall'ansia per il futuro, mi era venuto in mente che forse mi sarebbe piaciuto studiare psicologia, perché le emozioni mi affascinavano e mi sentivo incline ad aiutare la gente. In quel momento, però, la mia mente era un foglio bianco, e mi maledissi per non riuscire a spiccicare parola.
«Senti, Netti...» esordì Davide, in tono calmo. Lo vidi allungare una mano per stabilire un contatto fisico con il nostro amico, ma a metà strada cambiò idea e il gesto rimase sospeso.
«Non fa niente, davvero» gli rispose il Netti. «Grazie per la preoccupazione, ma non serve. Sto bene. Lasciateli stare».
«Se vuoi...» provai a parlare, ma la mia voce mi sembrò stridula e fastidiosa. Lui interruppe anche me.
«Sto bene» ripeté, con un tono brusco. Poi, senza preavviso, prese ad allontanarsi da noi. «Vado un attimo in bagno».
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