10. Imparare a guardare le cose
Pensavo davvero che il Netti fosse bravo come attore. E anche i suoi compagni non erano per niente male, sebbene ogni tanto alcune battute non si sentissero bene, o avessero l'intonazione sbagliata.
Certo, tutto ciò che sapevo sulla recitazione si limitava al fare finta di essere allenatori di Pokémon quando si era bambini (o a volte anche Pokémon stessi: quello era molto più difficile). In ogni caso, un parere che veniva dalla pancia non poteva che essere utile, no?
Con un sospiro, misi a posto le mie cose, raccolsi il Papero da terra e lo infilai nello zaino. Poi mi avvicinai al gruppo, ancora impegnato in un discorso con il professore.
«Scusate» esordii, rivolto principalmente al Netti e ad Anita, «vi saluto!»
«Te ne vai di già?» mi domandò la mia amica.
«Ho un appuntamento tra qualche ora a Mestre» le spiegai, rimanendo sul vago.
Mi passai una mano sui capelli e diedi un'occhiata al telefono, ma il suo schermo non mi disse niente di nuovo.
«Ti è piaciuto?» mi domandò Mondini, forse sperando di reclutare un nuovo adepto.
«Oh, sì, certo» risposi, con cortesia. «Tornerò volentieri a guardarvi».
Il Netti alzò lo sguardo su di me, e i suoi occhi azzurri rimpiccioliti dalle lenti mi stavano dicendo: ti prego, aiutami a scrivere la commedia, non ho neanche idea di come cominciare.
Mi appuntai mentalmente che avrei fatto il possibile per dargli una mano, anche se ero la persona meno adatta. Nonostante Anita fosse molto più empatica, il Netti ce la metteva sempre tutta per tirarmi su il morale e per dimostrarsi qualcuno su cui si poteva fare affidamento. Era stato uno dei pochi su cui il mio infallibile sesto senso, che mi portava a prime impressioni che poi venivano sempre confermate, aveva sbagliato di brutto.
Quando me l'ero ritrovato in classe, in quarta ginnasio, e l'avevo visto fare lo scemo tentando di cercare Narnia nell'armadio, avevo pensato che sarebbe stata una di quelle tante "amicizie" che avevo avuto anche alle medie. Ben presto, però, si era rivelato molto più che qualcuno con cui andare in giro per perdere un po' di tempo.
Era riuscito a sopportare il mio carattere schivo e freddo, a trascinarmi anche quando cercavo di allontanarlo. Un giorno, gli avevo detto di essere stato vittima di bullismo in passato. E lui mi aveva sorriso e mi aveva risposto "anche io!", con un'ingenuità molto più intelligente di quanto apparisse in superficie.
Non era colpa solo di quella strana pulsione che, in quel periodo, mi faceva desiderare di essere d'aiuto alle persone: la causa del Netti mi stava davvero a cuore.
Nonostante il mio timore, quella giornata scivolò tranquilla anche se mi lasciò, come ogni altra volta in cui vedevo quella persona a Mestre, un certo peso nel petto.
Ricordo in modo nitido quel fine settimana: lo passai, al solito, con Anita e il Netti. In quel periodo, ricercavo disperatamente una svolta nella mia vita, un faro che mi guidasse, e ogni cosa era o un viaggio eccezionale o nulla, senza vie di mezzo.
Nel vedere una bella giornata, anche se era ormai autunno Anita aveva deciso di proporci una gita in mezzo a un campo fuori dal suo paese. Ci andavamo ormai da anni ed ero stato io a scoprirlo, quando a tredici anni ci andavo per fumare le sigarette che mi facevo comprare dai miei amici più grandi. Già dalla prima volta in cui ci misi piede, mi parve un angolo di paradiso: sembrava non avere un padrone, o averne uno che non provava molto interesse per la sua terra. Se ci si metteva al centro, e si guardava da qualsiasi lato, tutto ciò che si vedeva era erba incolta a perdita d'occhio, talvolta punteggiata da piccoli fiori. In mezzo agli steli e ai ciuffi verdi spuntavano gli insetti, e si nascondevano i miei ricordi. Quella volta in cui ero scappato di casa, quella volta in cui cercavo di smaltire un'imbarazzante sbronza alle sei del pomeriggio... erano tutti lì, se si guardava bene.
Sentii una voce familiare, alzai lo sguardo e mi schermai gli occhi dal sole della domenica che si rifletteva sul serbatoio della mia moto. Una nuvola passeggera, quasi per venirmi in aiuto, offuscò il cielo.
«Anita! Netti!» urlai, agitando la mano. La visione in controluce non era stata nitida, ma le due sagome che mi venivano incontro mi sembravano proprio le loro.
I due avanzarono verso di me e, quando mi abbracciarono, notai che Anita portava sottobraccio una strana scatola di legno scuro. Sembrava d'epoca.
«Cos'hai là?» le domandai, curioso.
Lei stese entrambe le braccia davanti a sé, mostrandomi quello che sembrava un piccolo scrigno, apribile senza bisogno di una chiave.
«Il motivo per cui vi ho chiamato!» mi spiegò, allegra. «Venite».
Si diresse verso un punto, ai piedi di un piccolo albero, in cui l'erba era meno alta che altrove: l'avevamo diradata noi, a calci, un giorno in cui volevamo fare un picnic.
«Ne'», chiamò, «hai portato il telo?»
Il Netti sembrava pensare ad altro, in quel momento, ma rispose abbastanza prontamente.
«Certo» disse, e pescò una tovaglia multicolore dalla sua borsa di tela, decorata con la scritta Mostra del cinema – Venezia 2008.
La stendemmo sotto al nostro albero, ignorando le macchie di cibo ormai cementificato sulla stoffa, e Anita vi posò con emozione la scatola.
«L'ho trovata nella soffitta di casa di mio nonno, mentre aiutavo papà a sgomberarla» annunciò.
Mi intristii: non sapevo che il nonno di Anita fosse morto, lei non mi aveva mai detto niente a riguardo e qualsiasi commento sarebbe risultato fuori luogo, in quel momento. Non parlava mai molto della sua famiglia. Sapevo che era molto legata al padre, che l'aveva cresciuta da solo, e non riusciva a parlare con sua madre, perché riteneva che le cose non sarebbero mai potute cambiare.
Il fatto che qualche tempo prima si fosse aperta con me e col Netti sull'argomento "genitori" mi faceva pensare che ci ritenesse amici davvero intimi.
«Guardate qua» gongolò la ragazza, aprendo il suo scrigno del tesoro e rivelandoci finalmente il suo contenuto.
Con una cura certosina, qualcuno – suppongo il nonno di Anita – vi aveva disposto in fila una decina di lenti senza impugnatura, catalogate con numeri scritti a mano e inframezzate da arnesi di cui non conoscevo l'utilizzo.
«Oh» commentò il Netti, mettendoci quasi il naso dentro. «Che cosa sono?»
«Sono lenti per sistemi ottici» rispose Anita. «Papà mi ha spiegato che il nonno, quando era giovane, era appassionato di fisica. Il suo sogno era insegnare alle superiori, ma purtroppo con la guerra non era riuscito a terminare l'università. Però si era comprato questo kit di lenti».
Mentre parlava, aveva preso un paio delle lenti e le stava osservando. Io e il Netti facemmo lo stesso.
«Che figata!» replicò lui. «Magari se prendiamo una scatola di cartone possiamo costruirci un telescopio».
Osservai i piccoli cerchi di vetro disposti davanti a me, e cercai di immaginare il loro effetto a seconda del diametro. Ero una capra in fisica, ma ricordavo che c'erano certe lenti che ingrandivano l'immagine e altre che la rimpicciolivano, e forse anche alcune che la facevano vedere capovolta.
«Un telescopio con una scatola di cartone?» ribattei, scettico. «Non so se si può fare».
Il mio amico si lasciò cadere disteso sulla schiena, portò una mano dietro la nuca e con l'altra fece finta di mostrare una scritta nel cielo.
«Il cartoscopio di Telene», annunciò, «la brillante commedia di Serse Netti».
Io e Anita sghignazzammo.
«Secondo me si può fare, invece» rifletté lei, incrociando le gambe. «Magari se combiniamo le lenti con degli specchi viene fuori qualcosa».
«Le usiamo per guardare le robe?» proposi, e mi alzai in piedi. Non sapevo da dove mi fosse venuta quell'idea, ma commentare qualche oggetto ingrandito mi pareva un'idea simpatica per passare il tempo.
«Adesso?»
«Sì, sì» li spronai.
Presi una delle lenti dal telo e la avvicinai all'occhio fino a colpire quella dei miei occhiali. Vedevo un'immagine nitida, ma rimpicciolita in modo buffo. Allora la allontanai un po', fino a quando non potei scorgere nel dettaglio lo stelo d'erba che avevo di fronte. Bastava spostare un pochino le dita e l'immagine diventava subito sfocata come i lampioni guardati senza occhiali.
«Venite», li chiamai, «questa ingrandisce parecchio!»
«Dite che ci possiamo bruciare un pezzetto di carta?» fece il Netti, mettendo l'occhio al mio posto e avvicinando e allontanando il vetro. «Davide, prova a prendere le cartine».
«Mmh» rifletté Anita, «non so se il sole è abbastanza forte».
Posammo una cartina per sigarette a terra, e provammo a concentrare la luce su di essa. Vedevamo un cerchio bianco, ma purtroppo nulla prese fuoco. Così, come bambini, ci mettemmo alla ricerca di qualcos'altro da osservare: Anita ebbe l'idea di porre una lente davanti all'altra per vedere l'effetto, però ottenne solo una poco soddisfacente immagine piccola e a testa in giù.
Fu il Netti ad avere l'idea di osservare un formicaio.
Ci chinammo a terra, ognuno col suo piccolo disco di vetro in mano, e cominciammo a seguire una fila di formiche che, ordinate in fila indiana come i bimbi dell'asilo, portavano briciole alla sede centrale.
Attraverso i nostri potenti mezzi, potevamo vedere il loro corpicino segmentato le loro zampe che si muovevano rapide, senza però ostacolare il movimento di quelle delle altre. Avvicinandosi al formicaio cominciavano a brulicare, a sbucare da ogni parte come i mostri di Aliens.
Mi sembravano quasi delle persone, per il loro moto disordinato e per la tendenza a riunirsi in gruppo. Immaginai tanti piccoli omini che si ammassavano per andare a un concerto, o alla manifestazione a cui – nonostante all'inizio volessi starmene a casa a giocare con la play – avevo partecipato qualche tempo prima.
Tuttavia, non mi sentivo vicino a loro quanto avrei potuto esserlo a degli esseri umani. Era come se le considerassi creature inferiori, e mi passò per la mente l'idea che avrei potuto usare la lente per dare fuoco al loro formicaio, invece che alla cartina per le sigarette. Avrei distrutto la loro casa, le avrei uccise e sarebbe stato un semplice gioco.
Rabbrividii quando mi resi conto di aver formulato quel pensiero, e ne fui talmente spaventato che per un istante distolsi lo sguardo dagli insetti e, col battito accelerato, provai a concentrarmi sulle venature di una foglia che giaceva lì accanto.
«Ce l'ho fatta!» gridò Anita, alle mie spalle. Il mio primo istinto fu quello di sobbalzare, ma mi resi subito conto che non c'era nulla di cui aver paura e mi voltai.
La mia amica teneva il braccio sinistro teso e una lente in mano, e con la destra ne aveva presa una seconda che muoveva avanti e indietro, cercando un punto preciso nella combinazione tra le due.
«Venite qui!» ci chiamò. Il Netti, che si era inginocchiato nell'erba senza riguardo per i suoi pantaloni color cachi, scattò in piedi sull'attenti. All'altezza delle ginocchia aveva delle belle macchie di un verde brillante.
Ci avvicinammo incuriositi ad Anita, che ci invitò a guardare attraverso entrambi i vetri.
«Ingrandisce un sacco!» esclamò il Netti, con trasporto sincero. In risposta, sorrisi e guardai con più attenzione: in effetti, era interessante.
«Lo chiamerò "fuoco Corbelli"» proruppe Anita, «e quando l'avrò perfezionato andrò all'ufficio brevetti».
«Dici che con questo le riusciremmo a bruciare, le cartine?» azzardai.
«Ma certo!»
Tossii fuori dalla gola una risata che me la raschiò – forse avrei dovuto smettere di fumare – e, sentendo un'idea che si faceva pian piano strada nella mia mente, ripresi a osservare il grumo di formiche.
Indistinguibili l'una dall'altra, proseguivano la loro marcia inesorabile, chi a zampe vuote chi recando il proprio contributo.
Spostai la lente davanti al mio occhio, la girai, la inclinai, distorsi e manipolai l'immagine. Notai che la situazione rimaneva sempre la stessa: ero io che, di volta in volta, ne avevo una visione diversa.
In alcune posizioni, le distanze apparivano sbagliate, in altre invece una sola formica mi sembrava un gigante spaventoso. Se guardavo attraverso la lente potevo vedere il singolo individuo senza capire dove andava, viceversa se la toglievo riuscivo a percorrere con gli occhi una fila infinita, che dal formicaio si perdeva tra le sterpaglie, ma non riuscivo a riconoscere quali creature la componevano.
In modo intuitivo, stavo cominciando a rendermi conto che i problemi nelle nostre vite erano come quelle formiche, e per conoscerli bisognava sia ingrandirli uno alla volta sia concentrarsi sul loro insieme.
Bastava fare un passo indietro, e togliere la lente.
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro