07. La terra della nebbia
La prima volta che mi resi conto di trovarmi dispersa nella nebbia della mia tarda adolescenza fu proprio pochi giorni dopo la manifestazione.
Non sapevo ancora che quella sensazione mi avrebbe accompagnato lungo almeno tutto l'anno scolastico, tenendomi per mano come aveva fatto la Ragazza Fragola in corteo. Quando ricevetti la botta, fu tremenda e inaspettata.
Sebbene l'avessi avuta davanti agli occhi solo per qualche secondo, l'immagine dei quel ragazzo con la bandiera mi tormentava dovunque andassi, con conseguente confusione e palpitazioni.
Nei due giorni successivi, mi ridussi a riconoscere la forma del suo corpo, o meglio della sua schiena (che, per inciso, non avevo mai avuto il piacere di scorgere) in ogni ragazzo riccio che incrociavo per strada. Lo stomaco mi si contorceva come una spugnetta che stavano strizzando, poi mi rendevo conto che non si trattava di lui e passavo avanti. A volte, però, soffermavo lo sguardo un po' più a lungo, nella speranza di riconoscere i suoi lineamenti del viso.
Decisi in definitiva di correre ai ripari quando mi ritrovai a fissare come un cane da punta un malcapitato trentenne dallo stile alternativo, che indossava maglia a maniche corte e kefiah a inizio novembre. Com'era ovvio, di nuovo non era chi temevo potesse essere.
Era troppo. Quel giorno stesso mi chiusi in camera, dissi a mio padre che non volevo essere disturbata per nessun motivo al mondo, serrai la porta a chiave e mi distesi supina sul letto.
Chiusi gli occhi e convocai il Consiglio dei Ministri.
La seduta era aperta. Il Presidente del Consiglio, Anita Corbelli, impeccabile nel suo tailleur grigio, mediava l'incontro delle diverse parti nell'aula a semicerchio. I suoi capelli, di solito ribelli, erano stretti in uno chignon austero. Non appena la si guardava, era chiaro che lei era il capo: non c'erano scuse.
«Siamo tutti qui riuniti» annunciò, con voce ferma, «per discutere l'ordine del giorno. Ministro Carbelli, ci esponga il problema».
Anita Carbelli, i cui tratti somatici erano molto simili a quelli del Presidente del Consiglio Corbelli – con il quale fra l'altro condivideva una buffa omonimia quasi totale – era il Ministro degli Affari Interni. Indossava un completo con giacca e pantaloni di un sobrio beige, ed era un faro nel buio per tutti quelli che si rivolgevano a lei.
«Abbiamo riscontrato una rilevante complicazione nella gestione della nostra Nazione» spiegò lei, alzatasi in piedi. «Come il ministro Corbilli potrà confermare, serie questioni ci impediscono di proseguire normalmente, e la soluzione va trovata in questa seduta stessa».
Chiamato in causa, Anito Corbilli si schiarì la voce e sistemò dei fogli che aveva davanti agli occhi. L'attenzione di tutta l'assemblea si spostò su di lui: era un uomo di mezz'età, con un lungo e rinomato curriculum. Assieme al suo carattere pragmatico, era stato proprio quello ad avergli spianato la strada per il Ministero della Salute. Se guardato da vicino, somigliava molto al Presidente Corbelli, e anche al Ministro Carbelli, tanto che a un occhio poco attento sarebbe potuto sembrare loro padre.
«Sono stati registrati battiti del cuore accelerati al limite della tachicardia, sudori freddi, difficoltà ad addormentarsi e risvegli improvvisi, nonché abbassamento delle capacità di attenzione. La diagnosi è un colpo di fulmine imprevisto».
«Quale soluzione propone, onorevole?» domandò Corbelli.
«Vede, Presidente, la questione è che noi non possiamo fare niente: la natura di queste cose va oltre i poteri di cui disponiamo. Ciò che bisognerebbe rendere chiaro alla Nazione è che l'oggetto di questo soverchiante sentimento non è stato che visto di sfuggita, e quindi si tratta di un semplice caso di pippe mentali».
«E se si trattasse...» intervenne Carbelli, a mezza voce, «di qualcosa di più?»
«Suvvia, Ministro» replicò con garbo Corbilli. «Sono lontani i tempi in cui cavalieri e dame s'innamoravano per audita: abbiamo bisogno di qualcosa di più».
«E se la Nazione decidesse di agire, e avvicinarsi all'oggetto di cotanta brama?»
Il Ministro della Salute si fece pensieroso, il suo volto si accigliò per un istante ma tornò subito determinato.
«Dubito, ahimè, che il soggetto in esame s'interesserebbe dei problemi della Nazione».
Un rumore casuale, proveniente dal piano superiore, mi riportò alla realtà in modo brutale. Ministri e Parlamento sparirono da davanti ai miei occhi, che erano sgranati nella penombra. Cercai di calmare i battiti incontrollati del mio cuore, segno inequivocabile del fatto che sarei morta lì in quel momento, con l'immagine di un bellissimo sconosciuto stampata nelle retine.
Qualcosa dentro di me, del tutto folle e fuori controllo, voleva spingermi a indagare sul misterioso individuo, per sapere chi fosse, che facoltà frequentasse... e poi? Cosa avrei fatto?
Era chiaro, e la parte razionale di me me l'aveva fatto capire in maniera quantomai esplicita, che in ogni caso quel ragazzo sarebbe stato come La Regina del celebrità, quella della canzone.
Quella che di cagarti neanche alla lontana ci pensava.
Dopo una serata ansiogena e confusa, un nuovo giorno di scuola era alle porte. Il mio cuore e il mio stomaco erano serrati, tanto che non riuscii nemmeno a mangiare quei pochi biscotti che mi imponevo ogni mattina, e mi accorsi a stento di non aver attaccato la musica. Non ne avevo voglia.
Guardai fuori dalla finestra. Di nuovo, il paese e i campi sterminati erano immersi in una nuvola pesante. Presi la mia decisione: avrei dovuto dedicarmi del tutto ad aiutare il Netti nel suo proposito. Avremmo scritto una commedia che avrebbe fatto spellare le mani al pubblico a furia di applausi. Immaginare quella scena, sentire nelle orecchie il brusio degli spettatori soddisfatti, mi riscaldò più di una tazza di tè a dicembre.
Con rinnovata decisione, mi misi lo zaino in spalla e uscii dalla porta, salutando mio padre con il tono più allegro che mi riuscisse in quel momento. Lui, per me, aveva fatto il lavoro di due genitori: non volevo che si preoccupasse per un motivo tanto futile.
Quasi come nei giorni in cui nevicava, tutto intorno a me era ovattato, anche se mancava quella leggerezza che l'inverno portava con sé.
«Ma vara che popo' de caigada» imprecò un'anziana, che abitava a due case di distanza dalla mia. «No ghe xe giorno sansa caìgo...*» borbottò poi, cominciando a ramazzare con vigore davanti al suo cancello.
Avrei voluto voltarmi e gridarle: "Ha ragione, signora!", ma quel giorno ero in ritardo. Invece del Netti, avrei potuto rischiare di essere lasciata a piedi io, per la prima volta nella mia carriera scolastica.
«Buongiorno!» gridai trafelata al mio amico, appena giunsi alla fermata. Mi appoggiai al palo su cui erano affissi gli orari, per riprendere fiato, e mi resi conto che il fatto che fossi arrivata in ritardo sul ritardo del Netti era cosa davvero inaudita.
I fari dell'autobus erano già vicini a noi, e il mezzo si stava fermando.
«Buongiorno...» mi rispose lui, un po' interdetto. «Mi stavo domandando dove fossi finita».
Mi passai una mano tra i capelli e trovai un nodo che non avevo fatto in tempo a districare. E non mi ero nemmeno truccata, dato che lo struggimento per il mio amore impossibile, e la mia conseguente decisione di togliermelo dalla testa, mi avevano impegnato per buona parte della mattina. Dovevo sembrare davvero strana, agli occhi del Netti.
«Non mi è suonata la sveglia» mentii, con una risata nervosa. Il mio amico mi conosceva da anni, sapeva benissimo che odiavo alzarmi di soprassalto al suono di una sveglia e che mi facevo tirare giù dal letto da mio padre ogni mattina.
«Come va con la commedia?» domandai al Netti, che si era seduto con leggiadria su un sedile libero dopo aver volteggiato attaccato a un palo. Speravo che portare la conversazione su quell'argomento lo avrebbe distolto dall'indagare ulteriormente sulla mia condizione.
«Mah» replicò lui, poco convinto, «non benissimo».
Si portò lo zaino sulle cosce per estrarne qualcosa, e solo in quel momento notai che anche i suoi occhi erano cerchiati, come dovevano esserlo i miei, da profonde occhiaie scure. Con tutta probabilità, nemmeno lui aveva dormito quella notte, seppur per motivi ben diversi dai miei.
«Ho preso qualche appunto» continuò, con un taccuino aperto in mano. «Tieni, se vuoi vedere».
Cominciai a sfogliarlo, e vi trovai la descrizione di alcune scene della nostra quotidianità. Era descritta la nostra scuola, la nostra classe, una ricreazione-tipo appoggiati ai termosifoni. Il Netti aveva appuntato alcune frasi di compagni o professori che avevano attirato la sua attenzione, perché buffe o particolari, e aveva preso nota anche del ritrovamento del papero da parte di Davide.
«Vedi, ci sono un sacco di scene che possono essere recitate» mi spiegò, sempre con una punta di amarezza nella voce. «Il difficile è che non so che messaggio voglio mandare, non riesco a legarle con una trama e molti riferimenti sono incomprensibili per un pubblico che veda le vicende dall'esterno».
«Capisco» risposi, annuendo e chiudendo il taccuino. Mi raggiunse un sospiro.
«Sai, a volte mi viene voglia di rinunciare» mi confessò lui. Io reagii immediatamente con un: «No, non dire così!». Mi avvicinai e gli misi una mano sulla spalla. Odiavo vedere le persone attorno a me che si abbattevano, e inoltre pensavo che avrebbe potuto farcela: il segreto era non affrontare le cose tutte insieme, ma una per volta. Come quando ci si ritrovavano davanti molti nemici da sconfiggere, oppure risolveva un problema di fisica... cosa però che il Netti non era in grado di fare.
«Proviamo a fare un passo alla volta» suggerii, cercando di trasmettergli tutta la mia determinazione. «Quando sarà la prossima volta in cui ti troverai col gruppo di teatro?»
«Domani...» replicò lui. «Ma Ani, cosa vuoi che riusciamo a fare, siamo in quattro...»
«Da domani intanto sarete in cinque» affermai, indicandomi il petto con la mano. «E ho più di ventiquattr'ore per cercare di reclutare qualcun altro».
Gli occhi chiari del Netti si alzarono verso di me, dedicandomi uno sguardo spaesato.
«Ma... sei sicura? Cioè... a te interessa? Non voglio obbligarti a fare qualcosa di cui non ti frega niente solo per darmi una mano».
«Certo che mi interessa!» replicai con trasporto. Odiavo mostrarmi sentimentale, ma tutto ciò che volevo era aiutarlo, e mi sentivo ancora in colpa per il piccolo diverbio che avevamo avuto, nonostante quasi di sicuro lui se ne fosse già dimenticato.
Il Netti scrollò le spalle, come se qualcosa che gli pesava più del mondo di Atlante si fosse sollevato.
«In questo caso, grazie!»
«Vedrai che troverai anche qualche idea sul soggetto della commedia, oggi» lo incoraggiai. «Ah, Geriati dovrebbe riconsegnare le verifiche, alla seconda ora. Sono sicura che ti sia andata bene» affermai, facendogli l'occhiolino.
Quando il professore pronunciò il mio cognome, che era tra i primi nel rigoroso ordine alfabetico a cui si atteneva nella restituzione delle verifiche, scoprii di aver preso un più che dignitoso sette e mezzo. Non male, soprattutto per una come me: la mia soglia dell'attenzione si era dimostrata più volte piuttosto bassa, anche quella mattina in cui la lezione, per me, era finita quando Geriati aveva nominato un tale "Lucio Calpurnio Bestia", che aveva suscitato la nostra ilarità più totale.
Quando il professore arrivò a chiamare alla cattedra Netti Serse, aguzzai le orecchie.
Vidi il mio amico accostarsi all'insegnante, gli occhi puntati sul foglio che avevano davanti, e sbiancare, non certo per una piacevole sorpresa.
Oh, no.
«Sì, vedi» riuscii a udire, «Netti, la seconda parte in realtà va molto bene, ma la prima... hai frainteso tutto, non so come tu abbia fatto poi a recuperare. Alla fine, però, posso darti al massimo un cinque più su questo compito».
«Eh, sì...» provò a giustificarsi lui, ormai privo di qualsiasi forza vitale, «ho provato ad andare a senso... interpretazione... perché avevo notato che la prima parte era uscita un po' strana...»
Geriati annuì, grave, e io mi ressi la testa con una mano. Se avessi potuto farmela passare fino a dentro al cervello, per vedere cosa ne restava, l'avrei fatto.
Tornò al banco cercando di mantenere un'aria neutra, anzi abbozzò anche un mezzo sorriso, ma teneva il compito con due dita, come se fosse infetto. Anche da lontano potevo vedere i vigorosi segni di penna rossa che flagellavano la prima pagina.
«Mi dispiace...» esordì Davide, dato che il momento del cognome Zaccaria era ancora lontano.
Il Netti, come al suo solito, la buttò sul ridere.
«Ma sì, dai,» disse, «un alto e un baso dà un guaìvo**».
Peccato però che, sino a quel momento, di voti positivi in Greco non ne avesse preso neanche uno.
Davide portò a casa un onesto sei, e la nostra routine quotidiana continuò con la solita ricreazione in corridoio. Mentre ci dirigevamo verso la porta, notai un'occhiata preoccupata di Davide, ma non seppi dire se era perché anche lui, quel giorno, mi vedeva strana, oppure se temesse per la condizione disperata del Netti. La storia del teatro, in effetti, aveva assorbito tutte le sue giornate, mangiandosi anche il poco tempo che di solito dedicava allo studio.
«Sai cosa pensavo, riguardo a quello che mi hai detto ieri?» esordì Davide, avvicinandosi al Netti e cingendogli le spalle con un braccio. Intuii che anche lui avesse ricevuto la sua telefonata, in cui gli diceva che era preoccupato perché non aveva idee per il suo progetto.
Mi sentii in colpa per non avergli dedicato tempo a sufficienza, e per non averci nemmeno ripesato in seguito. Ero troppo impegnata a fantasticare su quel tipo di cui non conoscevo nemmeno il nome.
«Capisco che per te sia molto importante presentare una commedia originale. E, credimi, è una cosa fighissima» continuò, «ma, visto che sei a un punto morto, non pensi che sia meglio cominciare riadattando qualcosa che esiste già?»
Dall'espressione che si dipinse sul volto del Netti, intuii che sulle prime l'aveva presa male, ma ci ripensò subito.
«Dici?» domandò. Con la mano destra, tormentava il braccialetto di perline di legno che portava al polso sinistro.
«Perché no?» ribatté l'altro. «Alla fine, può venire fuori un bel lavoro anche così, e puoi comunque dargli un'impronta personale.
«Sì, anche secondo me è una buona idea» lo supportai. «Si può pensare a qualcosa di originale, di non scontato».
«Capisco...» mormorò il Netti. «In effetti, è la prima volta che ci provo, e non vorrei fare una porcheria...»
Stavo per ribattere, aprii la bocca per parlare, ma una voce femminile alle mie spalle mi interruppe.
«Scusami, sei tu che eri alla manifestazione venerdì?»
*Difficile da rendere in italiano, ma sostanzialmente: "Ma tu guarda che razza di nebbione, non c'è un giorno senza nebbia".
**Letteralmente: "un alto e un basso fa un uguale": il Netti spera che un suo futuro voto positivo controbilanci l'insufficienza che si è beccato.
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