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06. Bella, ma non ci vivrei

Il volantino che stringevo tra le mani parlava chiaro, a lettere cubitali bianche e nere.

24 OTTOBRE VENEZIA

SCIOPERO GENERALE E MANIFESTAZIONE

ORE 9.00 PIAZZALE ROMA

Era decorato dall'immagine di un ragazzo con un cartellone alzato – sul quale campeggiava la scritta "La Gelmini non ci merita!" – e dal disegno di una grande Onda anomala, come la chiamavano loro.

Non ero una grande esperta di politica, ma negli ultimi tempi mi ero lasciata trascinare da quelle che mi sembravano giuste obiezioni nei confronti della sopracitata ministra, che di sicuro – tra critiche e rivolte in piazza – non stava passando un gran bel periodo.

«Andremo» dichiarò il Netti, guardando dritto negli occhi sia me sia Davide. «Questa volta andiamo in manifestazione!»

Appoggiai il volantino sul banco e meditai in silenzio sulle sue parole. Avevo già partecipato a delle manifestazioni, ma continuavo ad avere una certa paura dei cortei. Un po' perché temevo che potessero succedere casini con la polizia o i gruppi di estrema destra, un po' perché – almeno fino all'anno precedente – mi sentivo troppo piccola rispetto alla gente che mi circondava.

«Io non saprei...» mormorò Davide, stringendo nella mano destra il Papero. Gli ambienti che aveva frequentato prima di incontrare il Netti non erano esattamente progressisti. In un certo senso, avevo sempre pensato che Davide frequentasse un ragazzo così diverso da lui perché lo considerava un punto di svolta nella sua vita: qualcuno che gli aveva mostrato non tanto cosa è giusto e cosa sbagliato, quanto che esisteva un mondo diverso da quello a cui era sempre stato abituato. 

«Dannazione, ragazzi!» sbottò il Netti. «Non è una questione di politica! Davvero volete essere d'accordo con questa riforma? Ma sapete cosa stanno facendo alla scuola?»

Davide, seppur con espressione dubbiosa, si sistemò gli occhiali sul naso e lo guardò, invitandolo a continuare. 

«I tagli che hanno imposto rovinerebbero tutta la scuola, e lascerebbero un sacco di gente a casa» proseguì il Netti, infervorato. «E vogliono accorparci col Vespucci».

Un suono secco. Il Papero era caduto per terra, e Davide se ne stava immobile con la mano aperta come se volesse tirare uno schiaffone a qualcuno.

«Ma sei serio?» tuonò. Poi, con ritrovata dolcezza, si chinò a recuperare il suo pupazzo.

«Serissimo. Istituto Comprensivo Croce-Vespucci». 

«Ma in che senso?» lo incalzò Davide. «E cosa ci azzecchiamo noi col Vespucci?»

«Le nostre scuole diventeranno una sola: stesso preside e stessa segreteria, meno fondi per le gite e per le attività. E no, non c'entriamo niente: avranno visto che siamo due licei e avranno detto "ma sì, mettiamoli insieme, hanno nomi simili"».

«Ma no!» esclamò Davide, che sembrava molto più trasportato di prima.

Una voce alle nostre spalle interruppe il discorso.

«Venerdì vai in manifestazione, Netti?»

Mi voltai e vidi Marco che si era avvicinato a noi, con aria del tutto innocua e passo un po' ciondolante.

Il Netti lo guardò sorpreso, e lui colse l'occasione per proseguire.

«Ho chiesto a un po' di gente della classe, ma non mi sembravano molto interessati...» spiegò. «Qualcuno avrà detto che farà sciopero, tipo il gruppo di Giuliacci, ma vogliono solo usarla come scusa per stare a casa».

Vidi il Netti che dilatava le narici, ma lasciò correre quella frase senza commentarla. Il "gruppo di Giuliacci" era più di metà classe, e lui detestava quelli che usavano lo sciopero come scusa per prendersi un giorno di vacanza.

«Noi andiamo» intervenni, gonfiando il petto con un sorriso. Davide mi guardò per un istante, interdetto, ma poi capì che era per il bene del nostro amico. «Se vuoi puoi venire con noi».

Marco si passò una mano sul viso imberbe e tempestato dall'acne, con aria pensierosa ma allegra.

«Va bene» concluse. 

«Tu di dove sei?» gli domandai, rendendomi conto che non l'avevo mai visto in paese e, in effetti, in quattro anni non avevamo mai avuto occasione di trovarci al di fuori della scuola. Cercai di ricordare, per non fare una completa figuraccia. «Stai a Marcon, giusto?»

«Sì» mi confermò Marco, «vicino al cinema».

«Possiamo trovarci a Mestre, allora» suggerì Davide. «Facciamo sulle otto. Poi prendiamo l'autobus insieme».

«Fatta» rispose Marco, alzando una mano in cenno di saluto al suono della campanella, che ci imponeva di tornare ai nostri posti. 

Per un attimo pensai che fosse strano che qualcuno si fosse avvicinato al nostro gruppo, che tutti sembravano aver interpretato come "gli strambi disadattati", senza l'obiettivo di prenderci in giro. Ne fui segretamente felice.

Rispetto a una città come Venezia, Rotta d'Osellino e Torre Dogale erano su un altro pianeta. Erano posti talmente diversi che, per me, non aveva nemmeno senso che stessero vicini. La chiesa della Salute che si specchia sul canale da una parte, i campi e i sacchi di urea dall'altra. Mi aveva sempre sorpreso come bastasse andare a pochi passi da Mestre, che per noi era una grande metropoli, per trovarsi dispersi in mezzo a luoghi che, di notte, non erano nemmeno illuminati dalla luce elettrica.

Eppure lì, in quel paese che si era espanso a macchia d'olio attorno alla vecchia torre, iniziava un percorso che portava alla magia: a un tratto la strada svaniva e, affiancata dai binari del treno, diventava un ponte. Le luci di Marghera, rosse e bianche, lampeggiavano nella nebbia a ogni ora del giorno e della notte. Strinsi tra le dita il biglietto arancione dell'ACTV, chiusi gli occhi, e lasciai che mi cullassero il chiacchiericcio poliglotta dei turisti e la sirena che chiamava gli operai al lavoro.

Quando li riaprii, davanti a me c'era il tumulto. Seguendo il mio istinto, mi aggrappai al braccio amico più vicino, e percepii sotto le unghie il cuoio del chiodo di Davide. 

«Però» commentò lui, osservando la fiumana di gente che già fischiava, rumoreggiava, agitava lenzuoli che erano diventati cartelloni per portare gli slogan più disparati.

«Noi la crisi non la paghiamo!» ci rispose l'Onda nella piazza, con urla e percussioni. Sentii qualcosa nello stomaco, come se il mare si fosse alzato e io fossi in piedi sulla battigia, capace con un urlo e un dito puntato di mostrare allo tsunami dove colpire per devastare tutto. Per radere a zero, e poi costruire di nuovo.

Il Netti, col fuoco negli occhi, si aggrappò a entrambi i nostri avambracci e ci trascinò giù dall'autobus, proprio mentre un ragazzo, sotto la bandiera "Coordinamento Studenti Medi" stava annunciando il programma della camminata, da Piazzale Roma a Rialto, dove saremmo saliti sul ponte.

Man mano che avanzavo verso la selva di corpi e di piedi che calpestavano, l'aria si faceva sempre più densa di fumo, di tabacco ed erba, e si innalzavano i cori semplici delle canzoni su cui il Netti mi aveva istruito. Un boato esaltato, convinto, che faceva tremare le bricole nell'acqua immobile della laguna. Rispondevano le grida alte dei gabbiani.

Con la coda dell'occhio, vidi addirittura Davide cominciare a intonare Bella Ciao. Marco, che ci aveva seguito, sembrava nel suo ambiente naturale. Allora mi unii alle voci di tutti, come allo stadio. Mi spinsi sulla punta dei piedi, assaporando tutta l'esaltazione che poteva dare quel momento. La canzone si ripeteva, smetteva e ricominciava in una spirale che dava forza. 

«L'Onda non si arresta, l'Onda non si ferma» gridò un ragazzo al megafono. Aveva i capelli a spazzola e una maglietta rossa, e sembrava all'ultimo anno di superiori. Cominciò a camminare, preceduto da uno striscione dove avevano scritto Non ci stiamo nelle classi, non ci stiamo alla riforma.

Quel semplice passo bastò a mettere in moto la folla, il nostro corteo di più colori.

«Siamo ancora in piazza, lo saremo anche domani, a Roma e a Milano, per manifestare contro la riforma della scuola...»

La sua voce svanì, coperta da ragazze che strillavano, altoparlanti a palla che riproducevano il ritornello di Piotta, fischi e battiti di mani, qualche petardo che mi faceva sussultare.

Quel ragazzo conduceva, era vero; ma ognuno, in quella folla ordinata e caotica, faceva quello che voleva: si univa a quelli che gli stavano a fianco e poi si separava, seguiva solo il suo cuore e le sue gambe. Continuavo a sentire un brivido di paura ed esaltazione per quello che potevamo fare, e questo mi spingeva a gridare più forte.

Il Netti avanzava saltellando sui masegni, lo sguardo dritto davanti a sé come Alessandro Magno. Potevo quasi sentire i suoi pensieri: L'Onda non si arresta, l'Onda non si ferma.

La camminata di noi manifestanti, invece, si prese un attimo di pausa al Campo dei Frari, dove fummo raggiunti dal corteo degli universitari.

Noi quattro li guardammo come Daniel LaRusso guardava il maestro Miyagi. Volenti o nolenti, quel branco ci avrebbe guidato: avremmo posato le nostre piccole zampe all'interno delle loro enormi orme, per seguire la strada che stavano tracciando. 

Tutti, come se fossero uno, si ammucchiarono davanti alla basilica attendendo l'arrivo degli Studenti Medi. Oltre le transenne che erano state poste lungo la strada per mantenere l'ordine, qualcuno ci lanciava in tralice sguardi di disprezzo, altri invece – forse ricordando i fasti del Sessantotto – ci dedicavano un sorriso. C'erano le cineprese di TV locali, e passanti che ci scattavano col telefono a conchiglia foto che sapevano già sarebbero risultate sfocate. 

«Oh, ragazzi» intervenne Davide, includendo anche Marco nella conversazione. «Ma quello là non è Bastianini?»

Il Netti aggrottò le sopracciglia, con l'aria di qualcuno a cui hanno appena dimostrato che i fantasmi esistono.

«Cosa?»

«Eh, sì» gli diedi man forte io, indicando dritto davanti a me. Avevo appena individuato il nostro compagno nella folla, riconoscibile dallo zaino a fantasia militare e il giubbotto griffato.

«Ma che ci fa qui uno come lui?» replicò il Netti, forse trattenendo qualche commento velenoso sulla punta della lingua per non scandalizzare l'ospite. La mia espressione di sorpresa doveva essere identica alla sua: in effetti Bastianini era l'ultima persona che immaginavo di trovare in mezzo a una piazza a cantare Fischia il vento.

Udimmo una risata dimessa: era Marco.

«Non è che forse lo dobbiamo rivalutare?» commentò.

Il Netti fu svelto a replicare, col dente avvelenato: «questo non lo rende più intelligente». 

L'ultima sillaba che aveva pronunciato fu coperta da un coro iniziato dagli universitari: erano più grandi, quindi cantavano più forte e facevano più casino. Era fantastico!

Trascinati dal Netti, andammo davanti a uno dei lenzuoli con gli slogan, con la speranza che da lì si sentisse di più la nostra voce, che si vedesse che c'eravamo anche noi.

Inspirai prima col naso e poi anche con la bocca, in modo da riempire fino all'orlo i polmoni di quell'aria che sapeva da freschin*.

«Uno, due, tre, quattro, cinque, dieci, cento passi!»

Lo striscione era sorretto da gente della nostra scuola, e fra gli strepiti notai una ragazza piccolina, con i capelli corti, rasati sulla nuca, e un ciuffo tinto di rosa. Il suo viso era tondo come quello di una bambina e grazioso nella sua goffaggine. Sembrava sperduta: si limitava a reggere la stoffa con entrambe le mani, aveva le labbra serrate e si guardava attorno come in cerca di qualcuno che la guidasse. Forse aveva paura di essere spinta per terra, o nessuno le aveva detto cosa doveva fare. 

Decisi di andare a controllare che fosse tutto a posto, dal momento che – se fossi stata in lei – avrei davvero apprezzato questo gesto da parte di qualcun altro. Feci qualche passo verso di lei e vidi che, a tracolla, portava una borsa di stoffa con la bandiera dell'arcobaleno. Avvicinandomi di più, però, notai che i colori sulla borsa erano solo sei: era la bandiera della comunità LGBT. 

«Ehi!» gridai, con tutto il fiato che avevo nei polmoni, quasi direttamente nel suo orecchio. La vidi per un istante sussultare, ma poi si voltò per incontrare i miei occhi. Sfoderai il mio migliore sorriso: volevo che si sentisse rassicurata.

«Tutto bene?» allungai la mano per reggere al suo posto lo striscione, e dall'espressione che mi rivolse capii che me ne era grata. Chissà da quanto tempo lo stava tenendo.

«Allora dimmi se tu sai contare!» sbraitò la folla tutt'attorno, e cominciò a marciare. «Dimmi se sai anche camminare!»

Mi misi in moto con loro, e sentii la ragazza che mi si aggrappava al braccio e si accoccolava contro di me, quasi trascinata.

Aveva un buon profumo di fragole, che si abbinava alla perfezione con il suo ciuffo color Big Babol. Decisi che l'avrei chiamata la "Ragazza Fragola". 

«Sì, tutto bene! Scusa!» mi gridò lei all'orecchio, con voce acuta e un po' lamentosa, sicuramente solo per la situazione in cui si trovava. «È che è la prima volta!»

Mi resi conto che, dato che stavo portando lo striscione, dovevo mantenere un certo tono, e cominciai a unirmi al coro: «...cinque, dieci, cento passi! Perché non provi a cantare?» mi sgolai, cercando di coinvolgere la Ragazza Fragola. Cominciavano a farmi male le corde vocali, e sentivo la voce uscire con meno potenza. Avevo anche perso di vista i miei amici, ma non me ne preoccupai troppo.

«Non so le parole!» mi rispose lei. 

«Ma sono facili!» ribattei all'istante. «Ascolta quello che dicono! Uno! Due! Tre! Quattro!»

«Cinque, dieci, cento passi...» provò a continuare lei, ma mi accorsi che stava cantando solo perché vedevo le sue labbra muoversi, timide.

La Ragazza Fragola mise di nuovo una mano sullo striscione e lo strinse per darsi forza. Ne approfittai per stringergliela, e continuare: «Forza! Più forte!»

«Uno, due, tre, quattro!» strillò lei. 

Sì, così, brava! Pensai, sentendo la felicità salire nel cuore. 

«Cinque, dieci, cento passi!» mi unii al suo coro. Le nostre voci si sovrapposero l'una all'altra e cominciammo a ridere, tenendoci strette per mano.

«Uno, due, tre quattro, cinque, dieci, cento passi!»

Quella ripetizione fu l'ultima, e si innalzò al cielo un concerto di trombette, tamburi e fischietti. 

Levai lo sguardo verso l'alto, ancora preda delle risate, e vidi qualcosa che non mi sarei mai aspettata, ancora meno di un Bastianini partigiano. 

Era alto. E lo sembrava ancora di più, una volta salito sui gradini di un pozzo, da cui dominava con gli occhi scintillanti l'intero campiello dove ci trovavamo, teatro di una pacifica battaglia. 

I ricci chiari disegnavano sul suo collo tornito la forma dell'Onda che lo trasportava, e la fronte ampia sembrava disegnata apposta per essere adornata dall'olimpica corona del trionfo. 

Come Marianne, la Libertà che guida il popolo, stava reggendo una bandiera su cui campeggiava la scritta UDU, i muscoli ben in vista data la maglietta a maniche corte. Tutti coloro che lo circondavano, universitari come lui, erano rivolti nella sua direzione, e stavano di sicuro adorando l'aura di puro carisma che la sua bella figura emanava. 

Era vero, non ero mai stata interessata alle storie d'amore e ai pettegolezzi che venivano alimentati col mantice nei corridoi della scuola.

Ma era anche vero che non avevo mai visto prima un essere così perfetto, bello come un dio greco.

Con la mente offuscata, le orecchie ronzanti e il battito del cuore in gola, allungai senza neanche accorgermene una mano davanti a me.

Volevo raggiungere quel ragazzo... ma lui era lontano uno, due, tre, quattro, cinque, dieci, cento passi.


























*Si usa a Venezia per definire l'odore del pesce non fresco, oppure – come in questo caso – l'odore dei canali quando l'acqua è bassa.

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