04. Ma si dice diàtriba o diatrìba?
Il mio piccolo, modesto e forse non richiesto parere riguardo alla litigata tra Anita e il Netti era che i suddetti stessero facendo tanto rumore per nulla.
Rispetto alle zuffe a cui ero abituato, agli scontri di opinioni – se pure ammetto che fossero opinioni molto semplici – a cui ero stato costretto ad assistere, finiti quasi sempre a nocche sulle guance, quella non poteva neanche definirsi una discussione.
Avevo comunque intenzione di fare da paciere, e li accompagnai sino alla fermata dell'autobus nella speranza che si parlassero e chiarissero durante il tragitto. Percepivo, tuttavia, della tensione nell'aria: Anita e il Netti non parlavano tra loro direttamente, ma solo rivolgendosi a me. Quando salirono sul mezzo, li vidi adombrarsi.
Scossi la testa con tenerezza, mi infilai il casco e lasciai che il canto del motore mi rilassasse.
Altra cosa che, al contrario di molti miei compaesani, trovavo riposante era la lunga strada bianca che portava dalla scuola, al centro di Torre Dogale, alla mia abitazione in mezzo alla campagna, e viceversa. La via per tornare a casa costeggiava un mare di fieno, un universo di erba alta, incolta e costellata in tutte le stagioni di fiorellini bianchi, rossi o gialli.
Tirai verso di me la manopola del gas, la mia moto rispose obbediente al comando e si fece strada tra la polvere, alzandola senza disturbarmi.
Sentivo che, un giorno, quel mondo tranquillo mi sarebbe andato stretto, e avrei voluto volare via, ma quel momento non era ancora arrivato. Mi godevo la vista delle nuvole nel cielo, dello sterrato che scorreva piano sotto di me, delle abitazioni a volte restaurate e a volte diroccate, dei binari lontani.
Inspirai a fondo, e il cuore mi si scaldò al pensiero dei miei amici che avrebbero fatto pace, della serata che avremmo passato tutti assieme all'Happy Horse.
Mi venne in mente una canzone che mi aveva fatto sentire Anita qualche tempo prima: non era il mio genere, ma mi piaceva spaziare, di tanto in tanto. Senza neanche accorgermene, mi trovai a canticchiare: «Basta un giorno così a cancellare centoventi giorni stronzi e... basta un giorno così a cacciarmi via tutti gli sbattimenti... »
Sarebbe anche arrivato il momento in cui avrei ripensato alle due ore di orientamento del professor Geriati in aula magna, alla questione dell'università. Il mio stomaco si sarebbe annodato, e il casino nella mia testa avrebbe sostituito le orecchiabili melodie di Max Pezzali.
Ma non volevo che arrivasse presto: quello, il mio quarto anno di superiori, era l'Anno del Papero, e nulla l'avrebbe cambiato.
Raggiunsi il cancello di casa, premetti il pulsante di un piccolo telecomando e lo aprii, desiderando che il giro in moto non fosse finito così presto. Il profumo che mi giunse alle narici, però, mi ricordò che avevo fame.
L'adrenalina dovuta alla velocità doveva avermi reso in qualche modo sentimentale, perché mi trovai a pensare di essere in fondo grato alla mia famiglia, la stessa a cui mi ero ribellato qualche anno addietro, e a cui continuavo a ribellarmi – se pur in maniera meno violenta – nella mia ossessione di distruggere qualcosa che non c'era, e poi di crearlo.
Anita e il Netti non se la passavano mica così bene, a casa.
Dopo pranzo, controllai il telefono per vedere se il Netti mi aveva comunicato qualcosa di relativo alla questione Anita, ma era in silenzio radio. Trovai invece un SMS di lei, che mi confermava per quel pomeriggio alle quattro.
Nulla di nuovo, era giovedì. E cosa c'è di meglio, quando la settimana si avvia al suo tramonto, di far finta di fare i compiti e poi correre a giocare alla Playstation fino a quando ti si rattrappiscono gli occhi?
Io e Anita lo sapevamo bene: il meglio era farlo in compagnia.
Un fulmine cadde proprio sopra la testa del malcapitato Tidus, protagonista del videogioco che ci accompagnava ormai da mesi.
Mi lasciai andare a una risata che proveniva dal cuore.
«Adoro la Piana dei Lampi!» esclamai, proprio mentre Anita gridava: «odio la Piana dei Lampi!»
In quel momento la capivo: si era talmente concentrata per schivare duecento fulmini consecutivi che la sua posa diceva tutto. Era piegata in avanti sulla sedia, a un palmo di naso dalla TV, stringeva il controller appoggiato sulle ginocchia come se fosse il collo del suo nemico. Aveva legato i capelli chiari sulla nuca, con un maldestro chignon a cui sfuggivano ciocche ribelli. Potevo quasi percepire la gocciolina di sudore che le scendeva lungo la tempia.
«Dannazione, ero arrivata a centocinquanta!» sbraitò Anita, e sbatté i palmi aperti contro le cosce, lanciando il controller sulla poltrona. Lo vidi compiere tre rimbalzi, di cui l'ultimo era un carpiato, e avvicinarsi pericolosamente al bordo. Si arrestò prima del disastro.
«Vado in bagno» annunciò la mia amica, alzandosi di scatto. Mi fiondai a recuperare il Dualshock.
«Intanto provo io!» dissi. Mi bloccai. Il gioco mi aveva distratto del tutto dal mio obiettivo primario di quel pomeriggio.
«Ah, quando torni ti devo dire una roba» aggiunsi, ma lei era già uscita dalla stanza chiudendosi la porta alle spalle. Fui raggiunto da un distratto mugugno affermativo.
Provai a evitare qualche fulmine, ma quel giorno i riflessi di un bradipo mi avrebbero fatto invidia, forse per colpa dei compiti di matematica a cui avevo dedicato corpo e spirito per un'ora.
Uno sfrigolio di elettricità, e Tidus venne folgorato per l'ennesima volta nella sua carriera. Un verso esasperato mi fuggì dalle labbra.
«Come va?» domandò Anita, appena rientrata, con un ghigno divertito.
«Cinque. Cinque!»
Lei rise una risata melodiosa, coprendosi la bocca con la mano. Subito dopo, mi rivolse uno sguardo interrogativo: di sicuro aveva sentito il volume della musica di gioco abbassarsi. La scritta PAUSA campeggiava sullo schermo dominato dalle tinte del blu ceruleo.
«Sì?» mi domandò, un po' interdetta. «Che dovevi dirmi?»
«Ecco...» cominciai, impacciato. Avevo paura che desse di matto di nuovo. Feci vagare lo sguardo nella stanza, e incontrai gli occhi placidi del Papero che se ne stava sul tavolo, brutto e felice.
Quella visione mi riempì di determinazione.
«Senti, ma che è successo prima col Netti?» domandai, tutto d'un fiato.
Anita non ebbe la reazione che mi aspettavo. Si lasciò cadere sulla sedia, tenendo in grembo il controller che le avevo passato come una staffetta, e mi rivolse un'espressione malinconica.
«Ah» esordì. «Secondo te se l'è presa?»
«Non è che se l'è proprio presa...» le risposi subito. «È che non abbiamo capito che cosa è successo e ci è rimasto un po' male, ecco».
Lei inspirò fino a riempire i polmoni, poi soffiò fuori tutta l'aria.
«Mi dispiace avergli detto quelle cose». Si guardava le mani e giocherellava con le pellicine sulle dita: sembrava davvero pentita. «Non gli ho nemmeno chiesto scusa, ho provato a comportarmi come se niente fosse e ho continuato a rispondergli male... ha fatto proprio schifo come comportamento».
Le rivolsi un sorriso.
«Non preoccuparti, sono sicuro che il Netti non porta rancore per queste cose. Mandagli un messaggio e digli che per stasera è tutto ok»
Lei annuì ed estrasse il telefono dalla tasca dei pantaloni. Si alzò dalla sedia e fece qualche passo attorno alla stanza, cominciando a digitare tutta assorta.
«Fatto» annunciò dopo qualche secondo, con uno sbuffo ansioso che le sollevò il ciuffo dalla fronte.
«Stai tranquilla» la rassicurai, e la invitai a sedersi di nuovo accanto a me. «Ma senti, che cosa è successo per farti perdere le staffe così?»
«Non ce l'avevo con voi» mi rassicurò. Proprio come immaginavo. Il suo sguardo si fece duro, e continuò «mia madre mi ha telefonato».
Per poco non mi soffocai con la saliva.
«Cosa?» cercai di domandare, ma mi uscii un miagolio in falsetto. «Ma se non si faceva sentire da mesi?»
Anita mostrò il suo migliore sorriso sarcastico, che consisteva nel sollevare l'angolo destro della bocca.
«A quanto pare ogni tanto si ricorda di avere una figlia».
«E che ti ha detto?»
«Ovvio», replicò lei, «prima ancora di chiedermi come sto, voleva sapere come sta andando la scuola e che università ho scelto».
«Dio, che ansia!»
«Sia mai che la figlia dell'Amministratore Delegato di che-cazzo-ne-so non diventi una donna di successo nella vita» sbottò, voltandosi verso la schermata di pausa. «Ma guarda! Non so neanche che lavoro faccia!»
Mi morsi le labbra, assorto nei miei pensieri, e annuii.
«Capisco».
Capivo veramente: era da quando l'avevo conosciuta che soffriva per l'assenza di sua madre: quando c'era lei di mezzo, Anita si bloccava.
«Mi dispiace molto di essermela presa col Netti che non c'entrava niente» continuò. Ora che si era sfogata, la rabbia era svanita ed era rimasta solo una sensazione di rimorso.
«Va tutto bene» replicai, semplicemente. La vidi andare verso la Playstation per spegnerla e intuii che si era fatto tardi: spesso non facevo caso all'orologio.
«Scuola di teatro» commentò, mentre mi infilavo il chiodo e mi dirigevo verso la porta. «Che ne pensi?»
«Non lo so» replicai, in tutta sincerità. «Sono un po' preoccupato per il Netti, in generale».
«Per via delle quattro materie sotto già da ottobre?»
Sentii il metallo del pomello gelido sotto al mio palmo.
«Eh, anche. L'anno scorso c'era gente che scommetteva soldi sulla sua bocciatura, eppure per qualche miracolo l'hanno solo rimandato. Non verrà graziato di nuovo».
«Sentiamo che ha da dire... magari questa sua decisione lo spingerà a impegnarsi di più» provò a obiettare Anita, ma non ci credeva neanche lei. Il Netti era come un equilibrista che camminava sul filo sopra la bocciatura. E il filo in questione oscillava un bel po'.
Quella sera, ci trovammo tutti e tre all'Happy Horse Pub. Era un piccolo locale, l'unico di quel tipo a Rotta d'Osellino, che aveva la classica conformazione del paese della campagna veneta: un pugno di case, una chiesa e un "Bar Sport". Il gestore aveva giocato un terno al lotto, nell'aprire quel pub: a Rotta erano in quattro gatti, rischiava davvero di fallire in un batter d'occhio.
Tuttavia, per qualche motivo misterioso, gli affari funzionavano. La birra era buona, e conoscevo di vista parecchie persone tra ultimi anni del liceo e primi dell'università che amavano passarci le serate.
Sarà anche stato merito dell'insegna, che non poteva fare a meno di ricordarmi quella della Locanda del Puledro Impennato ne Il Signore degli Anelli. Ogni volta mi si scaldava il cuore.
Quando arrivai notai Anita e il Netti che parlottavano tra loro, e il loro fiato saliva verso l'alto e si condensava. Chiacchieravano con trasporto e ridevano di qualche battuta, per fortuna. Del resto, l'avevo pensato sin da subito che il loro battibecco non sarebbe stato nulla di significativo.
«Buona sera!» gridai in loro direzione, agitando il mio pupazzo con una perfetta imitazione della voce di Paperino.
«Davide!» gridarono in coro.
Anita mi corse incontro e mi abbracciò, impacciata nel suo piumino.
«Ho risolto, grazie» mi sussurrò all'orecchio, e percepii la contentezza nella sua voce.
Fu il turno del Netti, che mi salutò passandomi un braccio attorno alle spalle.
«Andiamo, che si gela!» ci incitò.
La campanella alla porta segnalò il nostro ingresso nel pub: gli occhi vispi di Alessandra, la proprietaria, si illuminarono nel vederci arrivare.
La sua voce ci accolse assieme al caratteristico tepore di quel luogo, e alla melodia di vetro dei bicchieri che tintinnavano l'uno contro l'altro, con un piacevole sottofondo di voci.
Al diavolo le discoteche dei miei compagni di classe! E anche e i loro bar da fighetti che servivano cocktail dolci e annacquati. Quella dell'Happy Horse sì che era musica.
La voce di Alessandra mi riportò alla realtà.
«Cosa prendete, ragazzi?»
Mi voltai verso il suo faccione rubicondo, incorniciato dalle trecce ramate che la facevano sembrare una vera locandiera bavarese. Sapevo di poter parlare per tutti: «tre rosse medie!»
Alessandra non si prese neanche la briga di annotarlo sul taccuino, dato che la comanda per noi era quasi sempre la stessa. Si allontanò, canticchiando tra sé e sé: «ottima scelta, ottima scelta!»
Ci eravamo seduti a un tavolino quadrato lontano dal centro della sala, che al giovedì cominciava già a popolarsi, in attesa della piena di venerdì e sabato sera. Il Netti gettò i capelli mossi, che aveva scelto di tenere sciolti, dietro la schiena. Poi giunse le mani, assumendo una posizione da gran maestro d'oratoria, e si schiarì la voce, proprio nell'esatto istante in cui la birra che aveva ordinato si posava sul tavolo, come un dono dal cielo.
«Grazie» esordì, voltandosi per un attimo verso una giovane e graziosa cameriera, che doveva essere nuova. «Dunque. Vi ho riuniti qui, come sapete, per il mio annuncio di buone nuove» proseguì, tra il serio e il faceto. «E, in realtà, per chiedervi un favore e un consiglio».
Mi spinsi gli occhiali sul ponte del naso, fino a quando le mie ciglia non andarono a sbattere contro le lenti. Il Netti se ne stava sulle sue, in genere, ed era strano che chiedesse aiuto: se avesse imparato a farlo prima, la sua situazione scolastica sarebbe stata di certo migliore.
«Prego» lo invitai a proseguire. Aprii le braccia in un gesto accomodante, e Anita mi imitò, senza proferir verbo.
«Sì, ecco... come vi ho detto, ho trovato un'accademia di teatro». Mentre lo raccontava, aveva una strana luce negli occhi: non sapevo distinguere se fosse paura o piuttosto eccitazione.
«C'è un'iniziativa, quest'estate... si chiama... qualcosa come Summer Camp» continuò, pronunciando quelle ultime parole con un simpatico accento veneto. «Ci si può iscrivere con un video di una commedia scritta da noi, e sarebbe davvero un'ottima opportunità per me. Tuttavia, come sapete, per il gruppo di teatro a scuola nostra c'è... scarso entusiasmo».
E "scarso entusiasmo" era davvero un gentile eufemismo. Il professor Mondini cercava con le unghie e con i denti di tenere attiva l'iniziativa, ma la risposta degli alunni era a dir poco tiepida a causa dei testi che proponeva, che dovevano essere al cento per cento fedeli all'originale. A parte qualche battuta di Aristofane, che veniva censurata con pudore. Anche le commedie più spassose diventavano, ben prima di quanto lui immaginasse, dei veri e propri inni alla noia. Di conseguenza, il corso di teatro era frequentato da altri tre o quattro studenti oltre al Netti, e quello era anche il numero di persone che andavano ad assistere agli spettacoli.
«Hai provato a parlare con Mondini?» azzardai, sapendo già che il docente in questione poco apprezzava l'originalità del mio amico.
Un sorriso largo come quello del Joker, ma più genuino, si aprì sul viso del Netti.
«Sì!» esclamò, entusiasta. Mandò giù un sorso di birra, e l'alcol sembrò alimentare la fiamma che gli ardeva nel petto. «E mi ha dato carta bianca!»
Anita strabuzzò gli occhi.
«Wow...» commentò, allibita. «Quindi gli è rimasto qualche sentimento...»
Non aveva tutti i torti: Mondini doveva essersi intenerito nel sentire la storia di una giovane mente che voleva intraprendere la strada in cui lui stesso aveva fallito. La nostra amica sbatté entrambi i palmi sul tavolo, senza preoccuparsi del rumore.
«Ti aiuterò come posso!» affermò, risoluta. «Posso unirmi alla tua compagnia di teatro, così vedremo come lavorare».
Se possibile, l'espressione del Netti diventò ancora più gioiosa.
«Recitare non fa per me» aggiunsi. «Però scrivere mi piace, e senza dubbio posso darti una mano».
Il nostro amico dai capelli lunghi si avvicinò e ci strinse in un goffo abbraccio, ostacolato sia dal tavolo sia dalle sedie. Sentii la lana del suo maglione punzecchiarmi le braccia, e un profumo di bagnoschiuma mi arrivò alle narici.
«Grazie, amici» ci sussurrò, e quando sciolse l'abbraccio vidi della sincera commozione nei suoi occhi.
Ci ricomponemmo e tornammo a dedicarci ai nostri bicchieri di birra scura, ormai vuoti per più di due terzi.
«Certo che Milano è lontana» disse Anita a un tratto. Guardava, fuori dalla finestra, la notte attraversata dai fari delle auto. «E molto grande, tanto da perdersi».
Sembrava stesse parlando dell'America.
«Non preoccuparti!» cercò di rassicurarla il Netti. «Ci sentiremo per telefono, e tornerò non appena ci saranno le vacanze, ogni anno. Ci ritroveremo proprio qui».
Anita annuì, ma il suo sguardo era cupo. Forse, in passato, qualcuno le aveva già detto quelle esatte parole.
«Allora, vediamo di scrivere questa commedia!»
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro