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Capitolo XXXIII

«Lassù, a quella finestra! – gridò Little John, accennando da dietro il suo riparo – Ce n'è uno lassù!»

Lo scontro nella piazza infuriava ancora, nell'attesa infinita di vedere i rinforzi sopraggiungere dal castello. Will Scarlett scagliò una freccia seguendo il dito di Little John prima che Robin potesse fare altrettanto. Il capo dei fuorilegge mirò allora a un uomo nascosto dietro il parapetto di un balconcino e lo colpì: quello precipitò con un grido strozzato e si schiantò contro il pavimento di pietra. La confusione generale impediva di distinguere i feriti dai morti: nel tentativo di raggiungere una posizione più sicura o più favorevole ci si doveva gettare a capofitto tra i corpi, senza fare troppa attenzione a ciò che si calpestava. Robin saltò da dietro un tavolo di osteria usato come riparo e attraversò la piazza a balzi; non stette a contare quante frecce gli passarono accanto, sibilando paurosamente. Fu abbastanza fortunato da raggiungere una vietta stretta e buia, chiusa da un arco qualche spanna sopra la sua testa. Strinse la sinistra attorno all'impugnatura dell'arco, incoccò una freccia e mirò un altro cecchino. Da quella posizione avrebbe potuto vedere i rinforzi senza perdere di vista lo spazio del combattimento. Aveva fatto bene a farsi accompagnare: c'era subito stato qualcosa di poco rassicurante al castello di Lincoln.

Ricordò in un lampo il pomeriggio del giorno prima, quando si era recato dal re insieme a Rebecca: attraversavano un salone semivuoto, nel cui soffitto alto si raccoglievano i bisbigli dei pochi presenti. D'un tratto, passando accanto a tre uomini, forse funzionari di corte, aveva sentito di sfuggita un "Sarà una brutta sorpresa per il re" a cui un altro aveva risposto "Serve tempismo, o la forca sarà pronta anche per noi". Parlavano in francese. Vedendoli passare, due sconosciuti come loro, i tre avevano preferito tacere e allontanarsi. Robin non aveva subito colto il significato di quelle frasi perché era sovrappensiero, preoccupato per l'amico normanno. Ora, però, si rendeva conto di aver conservato quel ricordo proprio perché gli suscitava uno strano turbamento. Vi collegò anche un altro fatto particolare cui aveva assistito. Era notte, ormai. Di regola, le porte della città avrebbero dovuto essere chiuse: era proprio per questo che si trovava a disagio, disabituato com'era alla costrizione di uno spazio cintato. Si stava arrovellando sul modo per raggiungere i compagni che lo aspettavano nella foresta, non molto distante, quando, passando per un vicolo nei pressi della porta meridionale, aveva udito dei rumori, dei tramestii come di persone impegnate a spostare delle casse da fuori a dentro le mura. Aveva seguito l'udito e raggiunto il luogo: la porta era socchiusa. Lì per lì aveva pensato che fosse in atto una qualche sorta di contrabbando illegale e ne era stato ben contento: aveva trovato la sua via per evadere. Bastò pazientare un po', poi, quando tutti i presenti si trovavano impegnati in qualche spostamento di casse, sgattaiolò fuori come un gatto da una cantina.

"Che guardie disciplinate custodiscono Lincoln!" aveva pensato con un sorriso di beffa; però, da qualche parte nella sua mente si era annidato un nuovo dubbio, una nuova insicurezza. E questa lo aveva spinto a chiedere ai compagni di entrare armati in città per assistere all'impiccagione. Non si era sbagliato.

Ripiombò di peso nel presente quando un urlo acuto fendette l'aria fino alle sue orecchie. Era una voce maschile, un grido di morte. Alzò gli occhi e seguì la caduta a precipizio di un uomo dal terzo piano di un palazzo sul lato della piazza che gli stava di fronte. Caricò l'arco, cercò un bersaglio e lasciò la presa sulla freccia. Un rantolo, e il nemico colpito ruzzolò a terra, dando ancora un paio di respiri prima di spirare. La situazione si stava calmando: ormai i rivoltosi erano rimasti in pochi. Probabilmente erano stati presi alla sprovvista, avevano creduto di essere in netta superiorità numerica rispetto al contingente di truppe schierate nella piazza. Ed in effetti, senza Robin e gli Allegri Compagni, sarebbe stata una rotta per Richard e i suoi soldati. La sua scorta, probabilmente, non avrebbe retto più di una manciata di minuti. Dalla strada del castello risuonò sempre più potente il galoppo dei cavalli. Robin, d'un tratto, si preoccupò di radunare i propri uomini: uscì allo scoperto, sfidando la sorte, e gridò un ordine in lingua sassone. I suoi uomini lo raggiunsero, gli occhi in su a scrutare le finestre. Il galoppo si avvicinava, e Robin temeva che sarebbero stati scambiati per rivoltosi. Doveva trovare il re, immediatamente, o avrebbero rischiato di essere giustiziati sommariamente sul posto.

La prima cosa che gli venne in mente di fare fu raggiungere il palco: si arrampicò sulle travi di sostegno e con un ultimo balzò si issò sul pavimento di assi. Si diede un'occhiata intorno, contando i corpi riversi. Sperava di vedere un segno, un indizio per capire dove il re si fosse rifugiato con la sua scorta: non li aveva visti abbandonare la piazza.

«Vostra Maestà! – cominciò a urlare – Vostra Maestà!»

Nel frattempo ingaggiò un'altra ricerca. Nei momenti convulsi dello scontro aveva perso di vista il palco in più occasioni e ora si augurava che le peggiori previsioni non si realizzassero sotto i suoi occhi.

«Vostra Maestà!» chiamò per l'ennesima volta, e contemporaneamente i suoi occhi caddero giù, su due corpi avvinghiati, uno sopra l'altro, immobili. Erano due condannati: indossavano entrambi la camicia di lino. Il primo era riverso a pancia in giù sull'altro, che invece era supino. Il primo aveva una freccia piantata nella schiena e un'altra nel costato destro: identificare uno qualsiasi dei due si rivelava impossibile. Robin si gettò su di loro, afferrò il primo per le spalle e lo sollevò, coricandolo sul palco: era Albert de Malvoisin, gli occhi spalancati, di quell'azzurro brillante, ma vacui. Era morto sul colpo, forse dopo due o tre colpi di tosse; un rivolo di sangue gli scendeva dalle labbra.

Robin guardò l'altro condannato: aveva avuto una freccia infissa nel petto, ma quando Malvoisin gli era caduto addosso questa si era spezzata e la punta era penetrata nella carne. Un pugnale macchiato di sangue era abbandonato accanto al suo collo, sopra la spalla sinistra. E sul collo, lungo la linea della mandibola, si apriva un taglio ancora sanguinante. Il volto era intriso di sangue e per questo Robin, in un primo tempo, stentò a riconoscerlo. A un'occhiata più attenta, il suo respiro già affannoso si arrestò. Era Brian de Bois-Guilbert.

«Locksley!» tuonò la voce di Richard da dietro le sue spalle. Rumore di armi, di ferro e di passi concitati; poi due uomini lo afferrarono saldamente per le braccia e lo tirarono in piedi con la forza.

«Locksley! – chiamò ancora Richard – Siete ferito?»

Robin si diede un'occhiata distratta e negò: il sangue che gli sporcava i vestiti era appartenuto ad altri uomini. Richard lo raggiunse e ordinò che lui e i suoi uomini fossero rilasciati. Soffermò lo sguardo sui due corpi davanti a sé e sospirò. Quale gran dispendio di vite si era consumato una volta di più sotto i suoi occhi. Ben più di quello che era stato programmato.

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