Capitolo XXVI
«Mi spiace non avere qui le mie pomate...» mormorò Rebecca mentre tastava l'ematoma che si allargava sulla schiena di Bois-Guilbert. Questi tratteneva i lamenti per puro orgoglio maschile e banalizzava. Per il momento erano soli, soli in tutto il grande stanzone disseminato di brande e cumuli di paglia; sedevano su uno di questi mucchi, quello meglio illuminato da una piccola lampada che pendeva da una trave del soffitto.
«Sdraiatevi, per favore, e non muovetevi» ingiunse, lasciandogli lo spazio necessario.
«Agli ordini!» scherzò Bois-Guilbert coricandosi a pancia in giù.
Rebecca si avvicinò in ginocchio e, dopo un'ultima rapida osservazione, disse: «In mancanza di unguenti posso farvi un massaggio che aiuterà la guarigione» e distese le mani sulla zona arrossata. Compì movimenti lenti e circolari alternando i due sensi di rotazione, dedicandosi poi a sciogliere la rigidità dei muscoli con leggere pressioni. Sapeva di provocargli dolore e percepiva i suoi sospiri come un tentativo di dissimulare la sofferenza. Allora, ricordando gli insegnamenti di Miriam, continuò a parlargli.
«Non temete che quei due possano sorprenderci stanotte?»
La sua voce tradiva la paura. Bois-Guilbert sorrise beffardo e ribatté: «Sarebbero molto stupidi, ma il tuo timore è comprensibile, visto che non hanno dato prova di grande intelligenza neanche prima...»
«Non potete immaginare cosa significhi sentirsi dire certe cose...» confidò lei. Bois-Guilbert, questa volta, esitò, e la sua esitazione era ben fondata: solo quattro mesi prima non si era espresso tanto diversamente nei suoi confronti. E ad aggravargli la coscienza contribuiva una certa ambiguità insita nel suo gesto: aveva ingaggiato la rissa per difendere Rebecca oppure per rivendicare il proprio diritto su di lei? Era qualcosa che nemmeno lui riusciva a definire e questo lo inquietava.
«Me ne rendo conto...» borbottò alla fine, confidando nel fatto che lei non avrebbe prestato orecchio alla sua risposta elusiva.
«A volte mi sembra di essere così vulnerabile – confessò, come parlando da sola – Vorrei avere modo di difendermi da me, senza ricorrere a un uomo che sia lì a proteggermi. Ho imparato che, spesso, i guai piombano addosso agli sventurati quando sono indifesi»
Bois-Guilbert pensò rapidamente e parlò altrettanto presto: «Slega il mio pugnale dalla cintura e prendilo con te» disse. Insistette quando lei si rifiutò di farlo.
«Legalo alla gamba, così rimarrà nascosto dal vestito e nessuno sospetterà che tu l'abbia, ma in caso di pericolo sarà facile estrarlo»
Rebecca soppesò il pugnale tra le mani, non più così sicura delle affermazioni di poco prima; in ogni caso, appoggiò l'arma accanto al giaciglio di paglia e si dedicò con rinnovato impegno al massaggio; lo concluse nel giro di pochi minuti – preferiva non ostinarsi su un ematoma così recente. Ciononostante non si fermò e risalì alla spalla sinistra: sulla scapola si stendeva una lunga cicatrice, una di quelle che aveva notato quando lui era privo di sensi a casa di Nathan. Vi passò un dito, ripercorrendo un immaginario colpo di spada inferto da dietro.
«Acri» spiegò Bois-Guilbert semplicemente. Rebecca accarezzò nuovamente la ferita, rievocando nella mente lo scivolio delle spade in una rovente battaglia sotto il sole di Palestina. Poi, chinandosi lentamente, vi posò le labbra e baciò la cicatrice. Bois-Guilbert ebbe un brivido e voltò di scatto la testa: «Che cosa fai?!» domandò, incredulo.
«Non voglio essere ingrata come Adelaide – ammise lei risollevandosi – Prima di lasciarvi voglio darvi ciò che posso»
Quindi fece scorrere il palmo lungo la sua schiena verso il lombo sinistro, dove si trovava un altro segno di battaglia.
«Hattin» disse Bois-Guilbert con amarezza. E Rebecca si chinò e baciò anche quella cicatrice. Rialzatasi, la sfiorò di nuovo con la mano e sussurrò: «Ho sentito notizie terribili di quella battaglia...»
«Non fu una battaglia – ribatté con voce atona – Fu una carneficina»
Rebecca cercò nella semioscurità un'altra cicatrice e la trovò sul costato destro: risaliva a un torneo in Normandia.
«Voltatevi, per favore... Se non vi fa troppo male coricarvi di schiena»
«Figuriamoci!» ansimò Bois-Guilbert obbedendo alle sue indicazioni.
Rebecca gli accarezzò la fronte: «Chiudete gli occhi»
«Come vuoi» sorrise reclinando il capo.
La prima cicatrice che sfiorò passava appena sotto la clavicola.
«Ancora Hattin» sussurrò Bois-Guilbert. Rebecca la accarezzò più a lungo, quindi si chinò e la baciò delicatamente. Poi ne baciò altre tre, più piccole, dovute a diversi tornei. Quindi la sua mano si arrestò sul fianco destro, sulla cicatrice di Templestowe.
«Questa è mia – bisbigliò fissandola – E' come se ve l'avessi inferta io. È quella che mi dà più dispiacere...»
Si chinò e la baciò più volte, finché non percepì un movimento di lui e si rialzò. Aveva socchiuso gli occhi e la guardava scontato.
«Ce n'è un'altra, un'altra che mi hai provocato tu» disse e, con la propria mano, guidò la mano di lei fino al centro del petto. Non c'erano cicatrici evidenti e Rebecca si preoccupò di capire a cosa alludesse. Lui sorrise nuovamente e spiegò: «Mi hai trafitto il cuore, Rebecca; e mi rendo conto solo ora che Adelaide, questo, non l'aveva fatto. Adelaide l'aveva solo scalfito; tu l'hai trapassato. È questa la cicatrice che mi fa più male»
Rebecca ascoltò con attenzione. Quando ebbe finito lui reclinò di nuovo la testa, accarezzandole la mano. Lei si chinò, gli sfiorò il petto con le labbra inumidite e poi premette, indugiando più a lungo prima di scoccare il bacio. E lui, vinto dalla sua tenerezza, immerse una mano tra i suoi capelli neri, coccolandola. Rebecca si coricò, poggiando la testa sul suo petto, avvertendo i palpiti forti e leggermente accelerati del suo cuore ferito. Fu rassicurante addormentarsi con la sua mano ancora tra i capelli.
Bois-Guilbert fece cenno a Rebecca di seguirlo di sotto, per una colazione veloce prima della partenza. Aveva già chiesto che l'asinello venisse nutrito a sufficienza per sostenere il viaggio verso la stazione successiva e si era assicurato che i due ribaldi della sera precedente non fossero più ospiti della locanda. Scesero dunque le scale e sbucarono accanto al banco; il locandiere, però, era sulla soglia della locanda a intrattenersi con qualcuno che, per il momento, era rimasto fuori.
«Vuoi del latte fresco?» domandò Bois-Guilbert a Rebecca per ingannare l'attesa di essere serviti e cominciò a trarre dal borsello alla cintura il denaro necessario a pagare vitto e alloggio. Non passò molto tempo che il locandiere cedette il passo all'avanzare di quattro uomini armati, la cui stazza era a dir poco possente. Recavano sul petto, sulla sopravveste rossa, il blasone reale composto da tre leoni dorati. A quella vista, Bois-Guilbert sbiancò e volse le spalle.
«Ricordati, siamo sassoni, marito e moglie, e torniamo a Sheffield dopo essere stati a Nottingham da tuo fratello» bisbigliò a Rebecca in tutta fretta. Lei, capendo al volo, annuì per rassicurarlo. Bois-Guilbert riacquistò il suo sangue freddo e si rivolse pacatamente al locandiere, che nel frattempo li aveva raggiunti, e domandò ciò di cui avevano bisogno.
Inizialmente i quattro uomini del re non badarono a loro due; salirono nello stanzone al piano di sopra, chiesero alcune informazioni sulla foresta e sui fuorilegge che la abitavano e non fecero menzione, nemmeno per un cenno fugace, al motivo che li aveva condotti lì. Restava un evento significativo per una locanda isolata come quella, dove capitavano raramente ospiti di prestigio.
Bois-Guilbert sorseggiava una bevanda d'orzo calda e ristorante quando gli vennero all'orecchio, fatalmente, alcune parole che un ospite della locanda poco distante stava scambiando con uno dei quattro ufficiali.
«Ci sono stati problemi durante la vostra permanenza?» aveva chiesto l'ufficiale, a mani ben piantate sui fianchi. Sembrava una domanda di normale amministrazione, per assicurarsi che nelle locande del regno non intervenissero incidenti spiacevoli.
Gli occhi di Bois-Guilbert saettarono dall'ufficiale all'ospite; e quest'ultimo se ne accorse e ricambiò lo sguardo prima di rispondere: «Niente, signore. Niente di importante»
Per quanto il suo tono fosse distaccato, l'ufficiale si volse nella direzione in cui l'ospite aveva guardato e, inevitabilmente, i suoi occhi caddero sulla coppia di sassoni seduti poco lontano. Rimase a fissarli per un istante, poi si interessò ad altro e si allontanò. Bois-Guilbert, che aveva tenuto sotto controllo la situazione cercando di non suscitare sospetti, trasse un respiro di sollievo, nel tentativo di convincersi che il pericolo fosse scampato. Chiamò Rebecca vicino a sé – la chiamò con il nome inglese di Essylt, come avevano concordato – e saldò il conto, avviandosi alla porta. Uscì alla luce del sole, vide l'asino legato a un palo poco distante e vi si diresse. Rebecca rimase indietro e si accorse subito che uno dei quattro uomini in uniforme si era distaccato dagli altri tre e si avvicinava a Bois-Guilbert girato di spalle. Si morse le labbra per evitare di tradirlo in qualche modo stupido.
Intanto, mentre Bois-Guilbert liberava le redini dal palo, l'uomo in uniforme lo raggiunse e lo sorprese.
«Ditemi il vostro nome e il motivo che vi ha portato qui» ordinò. Bois-Guilbert sentì gelare il sangue nelle vene, ma quando si voltò verso l'interlocutore il suo viso era piano e sicuro, impenetrabile.
«Mi chiamo Drustan, figlio di Cedric. Sono qui di passaggio, torno a casa dopo un viaggio presso mio cognato che abita a Nottingham» rispose.
«E dove, di preciso, siete diretto?»
«A Sheffield, signore»
Lo sguardo dell'uomo si inasprì e tutto il suo atteggiamento si fece in un certo modo minaccioso: «Ho alcune domande per voi: prima di tutto, come vi siete trovato in questa locanda?»
Bois-Guilbert cercò di mantenere un'aria rilassata: «Benone, signore. Solo, bisognerebbe predisporre delle camere separate, o l'onore delle caste donne inglesi potrebbe essere messo a repentaglio»
L'altro approvò, poi: «Vi ricordate di qualche incidente? Una rissa, forse?»
«No, signore... Niente di che»
«Perché l'oste mi ha riferito di una scazzottata tra voi e altri due avventori per delle parole di troppo rivolte a vostra moglie» riferì quello, piantando le mani sulla cintola.
A quel punto ammise: «Sì, questo sì. Ma non più di due pugni. Chi mi ha offeso era piuttosto ubriaco, credo... Da non reggersi in piedi...»
«Erano lucidissimi – lo contraddisse cupamente, e aggiunse – Devo chiedervi di slacciarvi la cintura e di togliervi la casacca, signore»
Bois-Guilbert riuscì a dissimulare la sorpresa: «Posso chiedervi prima perché dovrei farlo? Quale autorità avete per perquisirmi?»
«Abbiamo l'ordine di Sua Maestà re Richard di perquisire chiunque ci risulti sospetto»
«Sospetto di cosa? – ribatté, inquisendo l'inquisitore – Ammetto di aver fatto a pugni, ma conoscete il motivo che mi ha spinto a farlo... Come vedete, sono disarmato...»
«Voi parlate troppo, sassone – ringhiò quello – Sempre che siate sassone come volete far credere»
Bois-Guilbert rabbrividì e rimase immobile. Rebecca, da dietro l'uomo in uniforme, gli venne incontro e lo abbracciò.
«Drustan, cosa aspetti? – domandò – Se non partiamo subito rischieremo di essere sorpresi dalle tenebre e...»
Rebecca non continuò oltre. Lo sguardo dell'uomo, grigio come il ferro, si era spostato su di lei e l'aveva ammutolita.
«E' mia moglie. Potrà confermare quello che vi ho raccontato. Si chiama Essylt...» spiegò Bois-Guilbert.
«Tipico nome inglese, non c'è che dire...» convenne l'altro, i cui occhi smentivano l'indifferenza della voce. La osservò a lungo senza proferire parola, poi, adocchiato qualcosa che gli interessava, tese la mano verso il suo collo. Bois-Guilbert, precipitosamente, gli afferrò il polso e minacciò: «Come osate?!»
L'uomo si liberò dalla sua presa e lo respinse: «Domate la vostra gelosia: ho l'ordine di perquisire chi voglio – ribadì – E voglio vedere cosa porta al collo vostra moglie»
Rebecca tremò, ma non si fece toccare; svelò lei stessa il medaglione del padre. L'uomo lo prese nel palmo, lo scrutò minuziosamente e constatò alla fine: «Voi, signora, o siete un'ebrea o siete una ladra; il che equivale a dire la medesima cosa»
«L'abbiamo trovato lungo il cammino; l'avremmo rivenduto appena tornati a casa» mentì Bois-Guilbert; l'uomo non lo degnò di un'occhiata.
«I vostri lineamenti e i vostri capelli non sono di certo sassoni. Credetemi, ho avuto occasione di conoscere donne ebree e, per la Città Santa, se voi non siete un'ebrea io non sono un normanno»
Rebecca non seppe replicare. Bois-Guilbert, invece, le si parò di fronte, frapponendosi tra lei e l'ufficiale del re.
«Adesso basta, signore. Non so chi voi siate e perché abbiate deciso di perseguitarci, ma mia moglie ha ragione: se non partiamo subito non arriveremo alla prossima stazione prima di notte»
Il cavaliere sguainò fulmineo un pugnale e lo puntò contro la pancia di Bois-Guilbert, che sbiancò ulteriormente e aprì d'istinto le braccia. L'uomo lo fissò negli occhi, gli agganciò la cintura con la lama e la tagliò di netto; quindi gli fece assaggiare il freddo metallo contro il collo, costringendolo a tenere alto il viso, e con la mano libera sollevò il lembo della casacca che gli copriva il fianco destro.
«Dunque – convenne subito dopo – La nostra ricerca è giunta ad una svolta fortunata...» e chiamò i tre compagni che aspettavano presso i cavalli. Quando furono accanto a lui indicò la coppia e disse: «Vi presento Brian de Bois-Guilbert e la sua bella ebrea»
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