Capitolo III
Il primo pensiero di Rebecca, quando si svegliò che il sole stava giusto sorgendo, fu di controllare le condizioni del suo paziente. Si avvicinò al letto – lei, invece, aveva passato la notte su un mucchio di cuscini orientali raccolti in un angolo – e stette ad ascoltare: il respiro del Templare era ancora fioco, ma non quanto il giorno prima. Rebecca si sentì più leggera e tastò senza timore il suo polso. Anche i battiti, regolari, erano più forti. Ma doveva essere cauta: Miriam le aveva spiegato che quando gli organi soffrono troppo a lungo per la mancanza di sangue, è possibile che un uomo non si svegli più e che muoia nonostante la ferita sia sana e i segni vitali incoraggianti. Ricordò ciò che aveva detto in presenza dell'arciere e si morse il labbro, temendo di essere stata troppo avventata nelle previsioni.
Si vestì in fretta e corse al pozzo di casa per attingere altra acqua. L'avrebbe fatta bollire e poi, una volta raffreddata, l'avrebbe usata per inzuppare fazzoletti da disseminare su viso, spalle e torace del cavaliere. Quando tornò in casa, nel silenzio del sonno di pressoché tutti gli altri abitanti, aspettò che l'acqua fosse bollente e poi, portandosi dietro la pentola in cui l'aveva scaldata, si chiuse nella propria stanza. Quando guardò il letto, però, trovò che il ferito si era mosso. Era ancora privo di conoscenza, ma aveva mosso un braccio. Aveva la mano prossima alla benda che gli fasciava il ventre, come se avesse sentito dolore e inconsciamente avesse voluto cercare la ferita. Era un ottimo segno e Rebecca si precipitò al suo capezzale. La speranza le diceva di vigilare perché avrebbe potuto svegliarsi da un momento all'altro. Il rabbino Nathan, anche se riluttante, la raggiunse quella stessa mattina per aiutarla a cambiare le fasciature e, a denti stretti, lodò la medicazione. Tuttavia, prima di lasciarla sola con il ferito, dedicò a entrambi uno sguardo di disapprovazione e scosse la testa.
Rebecca si fece portare il pranzo e non lasciò la camera per tutta la giornata: stette seduta sui cuscini o alla finestra e ingannò il tempo mescolando intrugli che le sarebbero tornati utili in un secondo momento. Intanto si avvicinava il tramonto e Bois-Guilbert non aveva più dato cenni di vita. La giovane fanciulla ebrea quasi temeva di scoprirlo morto. E nel frattempo le tornavano alla memoria i tragici momenti dello scontro tra il Templare e Ivanhoe. A proposito, Ivanhoe, il cavaliere sassone cui aveva affidato la vita e che non le aveva rivolto nemmeno una parola nel momento in cui il pericolo era svanito. All'apparire di re Richard, Ivanhoe aveva dimenticato persino dove si trovasse e perché. Aveva ascoltato le accuse ai traditori con il cuore infiammato d'orgoglio, nella consapevolezza che uno di questi giaceva a pochi passi da lui. Si era fatto giustiziere per il re e per Dio. Era davvero tanto diverso dall'uomo che sarebbe dovuto morire e invece respirava sul letto? Sì, in effetti sì: Ivanhoe aveva combattuto per puro spirito cavalleresco, per ricambiare un favore che, per quanto assoluto come la vita, l'aveva spinto all'arena di Templestowe solo per dovere.
Brian de Bois-Guilbert – solo ora pensava al suo nome completo, come se nel solo nome della stirpe si confondessero tante cose e si perdesse l'unicità di quella persona e della sua anima – Brian de Bois-Guilbert era lì, suo malgrado, schierato dalla parte sbagliata.
"Avevo intenzione di apparire come tuo campione" le aveva detto, quando era andato a trovarla per l'ultima volta nella sua cella. E lei non aveva saputo opporgli altro che uno stentato: "Voi?!"
Queste parole erano state pronunciate solo due giorni prima, ma a Rebecca sembrava trascorsa un'eternità. Suonavano lontane, mescolate agli schianti delle spade contro gli scudi. Le lame avevano fatto scintille; e scintille avevano lanciato gli occhi dei due contendenti. Amore e odio si erano scontrati su quel campo di battaglia e l'amore aveva vinto.
Questo non significava che avrebbe ceduto alle lusinghe di Bois-Guilbert: l'unica cosa che riconosceva era il suo debito di gratitudine, debito che intendeva sanare attraverso la propria dote di guaritrice.
Mentre era assorta in così tragiche riflessioni, la mano del ferito si mosse di nuovo; ebbe un tremito, strisciò contro il lenzuolo e si accostò alle bende. Rebecca osservò tutto, rimanendo immobile sui cuscini. Vide che il suo viso si contraeva in una smorfia di dolore e che le sue palpebre tremavano. Un singulto, e Bois-Guilbert mosse anche la testa: la ruotò a destra, poi a sinistra. Rebecca si alzò, accostandosi ai piedi del letto.
Il Templare si contorse ancora per un attimo prima di aprire gli occhi con immensa fatica. Era un morto che risorgeva dalla morte. Le sue membra gli erano pesanti, i legamenti erano intorpiditi e anche lo sguardo era appannato dalla nebbia dell'incoscienza. Pure, il suo spirito battagliero aveva dichiarato guerra al torpore mortifero. Il movimento convulso delle palpebre alla fine trovò requie e gli occhi azzurri del cavaliere brillarono di nuovo di vita.
Qualche sguardo, ancora confuso, al soffitto, poi ai tendaggi orientali della finestra. Poi Brian de Bois-Guilbert spalancò gli occhi e li fermò su Rebecca. Parve che, per un attimo, volesse ritrarsi, ma il dolore lo fece crollare nuovamente disteso. Rebecca si avvicinò ancora, lentamente, finché non gli fu accanto.
«Sono in Paradiso?» domandò lui, con lo sguardo di un bambino sperduto.
«No, signore. Siete nella casa del rabbino Nathan» spiegò lei, impassibile.
«Non sono morto, dunque? – continuò – Per un attimo ho creduto che lo fossimo entrambi e che questa stanza fosse il Paradiso...»
Le sue parole si spensero pian piano, e Rebecca non si trattenne dal raccomandare: «Non esagerate, signore. Avete bisogno di molto riposo»
Lui le sorrise debolmente e reclinò il capo su una spalla: «Siete ancora più bella, Rebecca, di quanto la mia memoria ricordasse»
Rebecca si accostò come se non avesse sentito, gli sollevò leggermente la testa e gli porse alle labbra una ciotola ingiungendogli, con tono dolce ma fermo, di bere. Lui obbedì, nonostante nei suoi occhi fosse balenata una vena di sospetto.
«Cosa mi hai dato?» domandò. Evidentemente, ora che si trovava in completa balia di lei, l'audace cavaliere ripensava alle accuse di stregoneria e le sue certezze vacillavano davanti alla prospettiva di essere avvelenato.
«Qualcosa che vi farà dormire» rispose sibillina Rebecca, quindi uscì dalla camera.
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