♰ VIII - ❝sᴏᴍᴇᴛʜɪɴɢ❞
[Canzone del capitolo: Ghostin - Ariana Grande.]
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Una nuvoletta di fumo bianco si levò verso l'alto, macchiando di nebbia il cielo immacolato.
Una Lucky Strike, rubata a Finn, era stretta tra l'indice e il medio della mano sinistra; si accostava alle labbra violacee di Elizabeth e vi si allontanava secondi dopo. Tutta la calma immaginabile accompagnava la scozzese nelle sue azioni, come se non ci fossero stati limiti di tempo, né regole né imposizioni, tantomeno problemi da risolvere e di cui aver timore.
La violinista aveva cominciato a fumare subito dopo aver smesso di conversare con Übel, quando nuovamente tra di loro era calato il silenzio più assordante che si potesse richiedere. Lui era ritornato a guardare il firmamento, a domandarsi il momento in cui gli Angeli della Morte lo avrebbero trasportato via. Lei, invece, aveva tirato fuori la cicca e, munita di accendino, aveva fatto scattare la scintilla e acceso la sigaretta.
I pensieri della giovane si rincorrevano e la sua espressione era persa, probabilmente tra l'accavallarsi dei ragionamenti e dei tentativi vani di dare una spiegazione logica a tutto ciò che stava accadendo.
Da quando si era risvegliata al Flamingo aveva accettato ogni singolo avvenimento con passiva accondiscendenza; forse era stato perché tutte quelle informazioni, donatele assieme e senza sosta, l'avevano sconvolta a tal punto da farle tollerare la situazione senza obiezioni. O forse era perché, visto il suo passato, Elizabeth conservava in sé una celata consapevolezza di far parte di quel mondo già da tanto, tanto tempo.
Ad esempio, se ella avesse avuto la memoria, avrebbe ricordato perfettamente i momenti passati con la voce di Claude, che non si era mai mostrato prima del Flamingo; avrebbe ricordato la confidenza sviluppata con lui nel corso degli anni, il modo in cui egli l'aveva cambiata e cresciuta, il modo in cui l'aveva fatta sentire sin da bambina: mai al sicuro, ma sempre protetta.
Ogni tanto la fanciulla si domandava come procedeva la festa. "Chissà come si staranno divertendo Niko e Finn", pensava, lei che li aveva abbandonati tra l'alcool e il dolce odore del fumo. Sembrava che non avessero alcuna difficoltà contro, i due, o che se ne fregassero, Finn soprattutto. Sembravano così rilassati, così calmi, così affidati ai loro Peccati Capitali che ad Elizabeth appariva quasi innaturale. Ma d'altronde lei non riusciva a riporre fede in alcuno, almeno per il momento. Forse in futuro si sarebbe addirittura aggrappata a qualcuno, ma le pareva assai impossibile, per com'era fatta.
Elizabeth richiedente aiuto o dipendente da un'altra persona non si sarebbe mai vista.
O, meglio, non si sarebbe più vista. Era capitato solo una volta, con Axel... ed era morta con lui.
«Dovresti posare quella sigaretta.» La voce di Übel risuonò nel silenzio che oramai padroneggiava sulla scena, disturbato solo dalla musica del casinò che si udiva lieve in sottofondo.
Quando si perdeva tra i fili attorcigliati dei suoi ragionamenti, Elizabeth arrivava a estraniarsi completamente da ciò che la circondava, sebbene proseguisse le proprie azioni come un robot. Non si era accorta, ad esempio, di essere arrivata quasi al filtro della Lucky Strike.
Aveva dato poco conto ai pacchetti di sigarette consumati, anche perché non aveva memoria dell'enorme quantità di tabacco che le era entrata nel sangue nel corso degli anni. Fumava da quando ne aveva quattordici; aveva iniziato con i rimasugli delle bionde lasciatele dal fratello, poi aveva preso a rubarle più del pane quotidiano. Era cresciuta in fretta, così in fretta da non capacitarsene, ed era venuta su sbagliata, come un sovrapporsi di scarabocchi su un foglio che non si cancellano mai.
Ma il timbro fermo del tedesco ora le rimbombava nella testa. Elizabeth avrebbe dovuto decisamente metter via tutte le cicche di cui disponeva: i suoi polmoni, già mal ridotti, l'avrebbero ringraziata. Eppure ella continuava a fregarsene bellamente e a ridere in faccia all'annerirsi dei suoi organi, come se essere dispettosa nei loro confronti avesse potuto salvarli.
«Perché mai dovrei?» Rispose infatti, con una risata strafottente. Avvicinò la sigaretta alla bocca e, dopo aver preso un lungo tiro, si mise a osservare assorta la nuvoletta bianca che si disperdeva nell'atmosfera.
Übel inarcò un sopracciglio dorato, convinto di aver sbagliato a sentire: stava forse parlando con una bambina?
«Il fumo fa male, Elizabeth.» Specificò dunque, ma col tono di chi sapeva di aver detto qualcosa di estremamente ovvio.
Lasciandosi scappare una nuova risata, stavolta ironica, la scozzese scosse il capo: «No, Übel» negò, aspirando per l'ennesima volta dalla sigaretta.
«Il fumo fa bene perché uccide gli uomini» affermò infine, prima di strizzare un occhio nero.
Che Elizabeth trovasse ridicola la razza umana era scontato; non le sarebbe dispiaciuto quindi un genocidio di massa. Ma che questo avvenisse a causa di ciò che poteva uccidere lei in un battito di ciglia... ecco, era un altro discorso.
Sarebbe dovuta essere più sensibile e soprattutto più responsabile nei confronti di una questione simile. Invece si comportava da immatura e si costringeva a non darvi peso, come se non considerare la malattia avesse potuto renderla inesistente.
Übel, dal canto suo, si portò una mano dietro al collo a poggiò la nuca al muro; era visibilmente stanco, per essere uno che non aveva bisogno di chissà quante ore di sonno. Non dormiva quasi mai e, se pure avesse voluto, non ci sarebbe riuscito: troppi erano gli scheletri nel suo armadio. Poiché i mostri il bel tedesco non li trovava nascosti sotto al letto, bensì celati dentro di sé, nel punto più profondo della sua mente. Facevano a pugni con i ricordi, erano reali come le ombre, palpabili come le lacrime e il sangue.
Übel sapeva della loro esistenza; non li sottovalutava di certo ma, per quanto tentasse di non farli vincere, era conscio di esservi sottoposto.
«Non dispiacerebbe neppure a me l'estinzione della razza umana...» Ribatté il biondo, mentre socchiudeva gli occhi celesti per rilassarsi del tutto.
«Ma vedi, sono quasi sicuro non sia possibile» precisò infine, con una punta di sarcasmo nella voce, sebbene questa fosse velata dal tono piatto e la linea retta delle labbra.
«Perché?» Elizabeth si destò, si stiracchiò leggermente e, a passi lenti, avanzò fino ad appoggiarsi alla ringhiera del terrazzo con la parte bassa della schiena.
Guardava l'adepto dell'Ira riposare di fronte a lei e non riusciva a smettere di domandarsi dove egli tenesse conservata la rabbia che l'aveva reso servitore di Yvonne. Si chiedeva cosa avesse portato il tedesco a essere così, lui che sembrava incapace di provare alcun tipo di emozione.
«Che vuol dire "perché"?» Sputò il biondo, senza alzare le palpebre ma con una lieve sfumatura scontrosa nella voce, come se fosse stato scocciato dalle risposte che Elizabeth gli proponeva.
Ma quest'ultima non si lasciò cogliere minimamente dal maggiore, neanche mentre egli incrociava le braccia al petto, e incurvò un angolo delle labbra in un sogghigno.
«Credi che la gente non sia capace di farsi del male gratuitamente?» Rise, prima di portarsi una ciocca di capelli corvini dietro l'orecchio. Si voltò e appoggiò i gomiti sulla ringhiera; spostando lo sguardo sull'immensità del cielo, lo notò più scuro del solito, ma sempre intaccato dalle luci del casinò, malgrado le quali le stelle continuavano a splendere in tutta la loro luce per contrastare il buio dello sfondo.
«Le persone non aspettano altro, Übel.»
«E per questo pensi che sarebbero capaci di ammazzarsi fino all'ultima anima?»
«No, non per questo.» Specificò Elizabeth, girando di poco il volto verso destra, così da poter intravedere la figura del tedesco con la coda dell'occhio.
«Ma potrebbero benissimo farlo senza volerlo. E finire con l'ammazzarsi tutti quanti, fino all'ultimo.» Spiegò, stringendosi nelle spalle, prima di ripetere: «Anche senza volerlo.»
Übel aggrottò la fronte, leggermente confuso: far del male involontariamente? A lui sembrava impossibile. Dal suo punto di vista si nuoceva perché lo si desiderava. Altrimenti, che sfizio c'era?
«Credi che si rovinino gli altri solo per il semplice gusto di farlo?» Domandò dunque la diciassettenne, intuendo il pensiero del più grande.
«Sì.» Rispose costui, brevemente.
La giovane inarcò allora un sopracciglio corvino, interdetta.
«Sempre?»
«Ja.»
Per quanto non confidasse nella redenzione, nelle buone azioni degli uomini e sciocchezze simili, Elizabeth era dell'idea che tutti, almeno una volta nella loro vita, avevano ferito qualcuno senza volerlo veramente. La gente non aveva controllo sulle proprie azioni, mai: ecco l'opinione della violinista.
Il bivio per lei era uno: o si ha il controllo, o ci si illude di averlo. E spesso si agisce per abbaglio, a causa di quella convinzione egocentrica di poter vantare il dominio di sé.
La verità, per Elizabeth, era che il reale controllo lo si ha solo nel momento in cui si è disposti seriamente a tutto; al contrario, si tratta solo di bisogno. L'estrema necessità delle persone di mettere ogni cosa al suo posto inganna la mente, tanto da far credere di avere supremazia su ciò che la circonda.
«Alla fine, l'equilibrio e il caos sono la stessa cosa» aggiunse l'adepta della Lussuria, tornando a voltarsi verso il diciannovenne e incrociando il suo sguardo non appena egli riaprì gli occhi azzurri.
«Sono la stessa lusinga utopica che ci piace sentire quando ne abbiamo bisogno. È solo pronunciata da due bocche differenti che usano modi diversi, tutto qui.»
Il silenzio tornò a regnare sovrano. Übel ed Elizabeth rimasero a guardarsi per diverso tempo, finché la più piccola non distolse le iridi nere come il carbone.
La scozzese non riusciva a capacitarsi di come il biondo fosse capace di spogliarla di ogni involucro, della fortezza che si era voluta costruire intorno per proteggersi. Übel la faceva sentire fragile, ma non di quella fragilità che rende stanchi e, di conseguenza vulnerabili di fronte alla cattiveria. Al contrario, ogni volta che si trovava da sola col tedesco, ogni volta che si sentiva estraniata dal resto del mondo tranne che da lui, Elizabeth percepiva una strana forza attraversarle la spina dorsale. Era un potere che la spaventava, perché attenuava tutta la corazza spinosa che la corvina non voleva smettere di indossare. Probabilmente sarebbe stato in grado persino di annullarla, e ciò intimoriva davvero tanto la diciassettenne.
Eppure ella si sentiva così confidente, così in pace, così... viva, ecco. Per una che durante la sua esistenza non aveva fatto altro che scappare, fermarsi e immergersi nella serenità era la più alta aspettativa di vita desiderabile.
L'adepta della Lussuria ne approfittò per voltarsi nuovamente quando intravide Übel calare di poco le palpebre. Poggiò una mano sulla ringhiera e ne percepì il metallo rovinato sotto i polpastrelli. Era leggermente umido: probabilmente quella mattina aveva piovuto.
Da qualche giorno la scozzese non prestava più molta attenzione ai fenomeni atmosferici. Tantomeno all'alternarsi del dì e della notte. Stava cominciando a tornare la sensazione che la sua vita fosse un susseguirsi di abitudini, di conseguenze e punizioni peggiori il doppio degli errori che le provocavano.
A volte aveva pensato, sin da ragazzina, che la sua esistenza potesse essere stata concepita per essere sbagliata. Che la redenzione non esisteva o che, se esisteva, a lei non era stata concessa. Ora non poteva averne memoria, ma aveva ricominciato a crederci. Il ricordo è spesso l'arma più letale, ed Elizabeth era completamente vulnerabile.
Ragionava, ragionava e osservava le stelle. Si domandava quando gli Angeli della Morte sarebbero venuti a prenderla, o almeno se l'avrebbero mai fatto. E così camminava, avanti e indietro, percorrendo a passi piccoli e lenti una minima parte del terrazzo del casinò Flamingo. Fino a quando non si stanziò a fissare le costellazioni, con i gomiti sulla ringhiera e la testa leggermente piegata di lato.
Contrastata dalla sensazione tranquilla di quel momento, Elizabeth notò di non aver fatto altro che scappare dai problemi, sin da bambina, sin dal primo patto. Era così poco avvezza a una tale distensione armoniosa che si ritrovò a valicare con naturalezza il confine delle riflessioni negative.
Quella sera si ritrovò a pensare, ad esempio, che se fosse stata abbastanza forte da cogliere l'alternativa alla strada più facile, in quel momento si sarebbe trovata altrove. O forse non si sarebbe trovata proprio, perché la tubercolosi le avrebbe dato un ultimatum tanto tempo addietro, ma almeno non sarebbe stata una vita miserabile, la sua.
Non la ricordava, certo, ma non ci voleva un mago per capire che sarebbero potute esistere centinaia di versioni diverse alla sua storia, e che la giovane aveva scelto quella peggiore.
In quegli attimi le sarebbe piaciuto bloccare il tempo e stanziarsi in quella pseudo-calma che l'aveva avvolta sino ad allora, sino a che il buio non aveva avuto ancora la meglio sulla sua psiche.
Eppure il tempo andava lasciato scorrere, la storia doveva proseguire. La quiete non apparteneva alla giovane fanciulla; ella era stata generata per essere un uragano, una bomba atomica, come le diceva Niko.
Alzò gli occhi al cielo nella speranza di un segno che tutto ciò che stava avvenendo non fosse un sogno. Le sembrava così assurdo... quel sospetto che sarebbe esplosa relativamente presto e che i danni collaterali avrebbero fatto così male...
Un inverosimile turbamento l'attanagliava, forse perché ella sapeva che nella vita non c’è pace che duri quanto la guerra che ci si porta dentro.
Ma Elizabeth era troppo abituata a fuggire per considerare di smettere. Bastava pensare agli undici anni senza cure alla malattia l'avrebbero uccisa se prima o poi Claude avesse deciso di far saltare il patto. E poi, chi le diceva che la clausola la salvava davvero? E se fosse stata solo una menzogna architettata dal Demone, tanto per accattivarsela?
Avrebbe dovuto avere solo diciassette anni e un futuro dinanzi; l'ingenuità dell'adolescenza, la meraviglia di riscoprirsi ogni mattina, dopo ogni esperienza. Avrebbe dovuto sbattere la testa contro gli avvenimenti e trarre insegnamento da ciascuno.
Avrebbe dovuto avere un sorriso perenne sulle labbra e lo sguardo gioioso. Avrebbe dovuto volersi bagnare sotto la pioggia e volersi asciugare al sole; voler prendersi una febbre per il semplice gusto di farlo e infrangere qualche regola per constatarne gli effetti.
Sarebbe dovuta essere una diciassettenne che amava svegliarsi di giorno solo per vedere lo splendore dell'alba sorgere.
Invece continuava a sentirsi schiacciata sotto il peso delle vite che non stava vivendo. Continuava ad avere paura attimo dopo attimo, perché bastava che il vento soffiasse un po' più forte e l'avrebbe trasportata via.
Aveva realizzato di non aver tempo, perché era malata. Nessuno l'avrebbe mai saputo, né Niko, né Finn, né Übel. Neppure i due adepti degli Arcangeli presenti alla festa. Ma lei sì, Elizabeth lo sapeva. E sapeva anche che i problemi non si risolvono semplicemente riconoscendoli. Ma era così semplice continuare a celarli... Riconoscerli li avrebbe reso affrontabili, e la scozzese non aveva intenzione di fronteggiarli.
In fondo era umana, e aveva paura di non esserne in grado.
Aveva diciassette anni. Diciassette anni e complicazioni che non sapeva, né voleva gestire.
«Elizabeth.»
La voce atona di Übel ruppe, per l'ennesima volta, l'aria muta. Quel ragazzo aveva un talento incredibile nel rovinare ogni atmosfera priva di suono.
Almeno aveva destato la minore dai ragionamenti che apparivano soffocanti come i muri di una stanza che si accostano fino a schiacciare la povera vittima intrappolata.
«Cosa c'è?» Gli rispose quest'ultima, mentre si passava una mano tra la chioma scura e successivamente sul viso. Il suo timbro vocale era risultato spento, cosicché ella si girò verso il bel tedesco per forzare la solita espressione gelida e arrogante, come se la fanciulla fosse stata superiore a tutto il resto del mondo.
Sebbene tale maschera le calzasse a pennello, per tutte le volte che Elizabeth l'aveva indosso, per qualche singolare motivo Übel fu capace di riscontrare la minima crepa che si era venuta a creare, per una frazione di secondo, sul volto della più piccola.
«A cosa pensavi?» Le domandò d'un tratto, semplicemente, con l'usuale sfumatura di freddezza che lo contraddistingueva. Eppure egli non appariva completamente distante, anzi, Elizabeth riusciva quasi a percepirlo prossimo a lei.
La giovane distolse lo sguardo e incrociò le braccia sotto al seno, stringendosi nel fine abito blu. Non aveva alcuna intenzione di esporgli le proprie riflessioni... non quelle a cui aveva appena finito di pensare realmente, almeno.
«Come fai a essere così...» Esordì, nel tentativo di trovare i vocaboli giusti. Così sereno? No, Übel non era di certo una persona serena. Al contrario, probabilmente era l'uomo più in conflitto che ci fosse sulla faccia della Terra. Ma si mostrava imperturbabile agli occhi della gente, come se nulla avesse mai potuto scalfirlo.
«Insomma, tutti voi qui sembrate più felici.» Aveva di nuovo errato termine, ma decise di lasciar stare con le etimologie corrette. Si focalizzò piuttosto sulle immagini che aveva raccolto in quel periodo trascorso, sino ad allora, al casinò. Niko, Finn, persino Claude le avevano dimostrato di essere cambiati, anche solo lievemente, da quando avevano stretto il patto. Sul volto di ciascuno calava un'ombra leggera quando si accennava agli accaduti precedenti all'accordo demoniaco. E non importava cosa dicessero le parole, piuttosto cosa esprimevano le voci, talvolta incrinate e gracili.
«Niko è gioioso come un bambino. Ha chiuso il passato dietro una porta e ha buttato la chiave. Ogni tanto ci sbircia, si vede, ma lo lascia lì.» Considerò, senza ancora tornare a mirare il biondo che era ancora seduto di fronte a lei, con la nuca poggiata al muro polare.
«Finn è così strano...» Proseguì poi, accennando un flebile sorriso. Si trovava bene con lo svedese, c'era una particolare chimica tra loro due. Inoltre lo ammirava: era davvero tranquillo, Finn. Se ne fregava di tutto ciò che poteva essergli accaduto prima. Contava, per modo di dire, quello che succedeva adesso. Perché Finn Torped non dava reale importanza a ciò che avveniva attorno a lui; era tutto realtivo, tutto superficiale. O almeno, così la dava a bere alle altre persone.
«Credo che la realtà non lo impressioni chissà quanto.» Commentò, arricciando leggermente le labbra violacee.
«Piuttosto, penso che si senta di scappare quando l'ordinario lo incatena. È uno spirito libero... nessun muro può bloccarlo.»
Puntò le iridi color carbone sulle proprie scarpe quando parlò di Claude, e intanto prese a strofinarsi le braccia pallide per il freddo di quella notte.
«Claude è mostruoso...» Sussurrò flebilmente, confessando indirettamente di esservi intimorita, anche se solo di poco. La grandezza di ciò che il Peccato Capitale poteva compiere alle volte la spaventava, ma ancora di più la impauriva la crudeltà di quell'uomo. Eppure, Elizabeth sapeva di stimarlo per l'orrore delle sue azioni, del fino a dove riusciva a spingersi.
«È così sicuro di sé che riesce a farti divenire il male se desidera che tu lo divenga.» Pensò ad alta voce, nella consapevezza di essere cambiata nel modo peggiore per colpa del Demone e delle modifiche che le aveva apportato alla vita.
«Ti lascia schiantarti al suolo se vuole insegnarti a volare e non ne sei in grado.» Continuò, discostando la vista dal pavimento solo per percorrere l'intreccio di rose e spine. Contava i petali ogni giorno, in maniera quasi compulsiva, solo per ritrovarsene di meno settimana dopo settimana. Li vedeva annerire o distanziarsi dagli altri per cadere a terra e scomparire in un ammasso di polvere e ribrezzo.
«Probabilmente vuole solo rendermi come lui» presuppose, tornando finalmente ad incrociare il proprio sguardo con quello del tedesco che, fino a quel momento, non aveva fatto altro che mirare la bellezza della più piccola e ascoltarla attentamente, senza proferire alcun suono.
«E, naturalmente, i cattivi saranno sempre gli altri» sospirò infine, roteando le iridi con fare esasperato. Per Claude non sarebbe mai stata all'altezza del ruolo che avrebbe dovuto ricoprire, Elizabeth ne era certa. Ma come poteva anche solo tentare di compararsi a lui, se ella stessa non lo desiderava a pieno?
«Sei dalla parte giusta, Elizabeth.» Pronunciò solamente Übel, con tono fermo e una appena visibile sfumatura di convinzione negli occhi azzurri. Per quanto non gli importasse della fazione nemica, quella degli Arcangeli e i loro adepti, Übel era più che sicuro che il male aveva tanto più da offrire.
Ma forse era solo perché non aveva mai conosciuto la luce in vita sua.
«Non ci sono parti giuste, Übel.» Obiettò però la diciassettenne, lasciando cadere le braccia lungo i fianchi e liberando un lieve sbuffo seccato.
«Ci sono solo tante parti con tante persone stupide.»
Lei pareva così incline alla propria setta, col caratteraccio che si ritrovava. Nessuno l'avrebbe immaginata a suo agio con un paio d'ali immacolate dietro la schiena. Elizabeth, d'altronde, doveva ammettere che quel ruolo le calzava alla meraviglia: come se fosse nata esclusivamente per essere cattiva.
A Skye, quando camminava per strada, urtava di proposito i passanti e rubava loro; un ghigno era sempre dipinto sulle sue labbra ed era abituata a non ringraziare quantomeno chiedere scusa ad alcuno. Esistevano solo lei e il suo amor proprio, che comprendeva anche la parte più oscura del suo spirito.
Cionostante, ella non si sentiva totalmente parte della cerchia dei cattivi. Stanziava più che altro in un limbo, a metà tra la simulazione e la dissimulazione, in cui non si era né buoni né cattivi, ma una sorta di involucro vuoto, che figurava un qualcosa di inesistente. E chissà se sarebbe mai esistita una versione di lei crudele e spietata quanto Claude, capace di pareggiarlo e, magari, superarlo e arrecargli il peggiore dei dolori.
Se lo sarebbe anche meritato, dopo tutto quello che le aveva fatto... dopo la storia della Signore delle Camelie, di come si era preso gioco di lei e di come l'aveva manipolata, plasmandola nel tempo a suo volere. Ma c'era qualcosa che la bloccava, qualcosa che non riusciva a farle percepire a pieno l'acre sapore della vendetta graffiarle la gola.
«E tu, Übel...»
Pronunciò d'un tratto, riscontrando di aver parlato di tutti quelli con cui era in "confidenza" fuorché del tedesco. Le frasi successive all'inizio le morirono tra i denti, mentre si perdeva a osservare i lineamenti taglienti del giovane.
Per l'ennesima volta, Elizabeth non riuscì a sottrarsi alla forza che attirava i suoi occhi in quelli azzurrissimi del biondo, che la faceva soffermare sulla cornice dorata quanto il grano che gli lasciava il volto scoperto. Ancora una volta Elizabeth si ritrovò a schiudere appena le labbra come a imporsi di continuare a respirare malgrado l'incessante e meravigliosa sensazione di serenità che tornava a farle visita e le stringeva lo stomaco in una morsa.
«Tu, Übel...» Riprese nel momento in cui si fu destata, prima di scuotere lievemente il capo per allontanare la soggezione che sembrava averla avvolta come una pesante coperta. Qualsiasi altra persona si sarebbe sentita a disagio, magari sarebbe arrossita di poco, ma Elizabeth mantenne il solito pallore per il quale poteva essere semplice scambiarla per un cadavere e il tono più fermo della voce.
«Tu Übel sembri non provare alcun tipo di emozione.» Ammise, lasciandosi scappare una riflessione che altro non faceva se non confermare quanto ella fosse confusa sull'individuo che aveva innanzi. Si portò una ciocca della chioma corvina dietro l'orecchio destro e, a lenti passi, raggiunse il diciannovenne che ancora era seduto sul freddo pavimento e appoggiato con la schiena al muro. Teneva ancora una mano dietro il collo e le iridi un po' arrossate per il sonno che procrastinava da giorni, ma era assai attento a tutto ciò che gli accadeva attorno.
Così come quando lo aveva conosciuto la prima sera, il ventitré settembre, Elizabeth ebbe l'impressione di avere davanti un militare; la prima volta l'aveva paragonato a un generale capace di radere al suolo ogni territorio, ora invece pensava a Übel come a un soldato che non dorme mai pur di udire anche il minimo sibilo che possa farlo scattare subito in piedi per agire.
«Non ho idea di cosa ti sia capitato» esordì d'improvviso la scozzese mentre, dopo essersi inginocchiata di fronte all'adepto dell'Ira, gli sfiorava la camicia blu scuro con la punta delle dita, all'altezza del petto, laddove doveva trovarsi il cuore.
«Ma il tuo cuore, Übel, lo sento battere ancora.»
Con estrema flemma, la mano della più piccola aderì interamente al petto del maggiore, che la guardava incerto, ma senza proferire parola. Gli sguardi dei due ragazzi erano intrecciati, come se non tutto quello che succedeva al di fuori della fascia degli occhi dell'altro fosse indipendente. Ed Elizabeth, ad esempio, compiva ogni movimento senza prestarvi completamente attenzione; un po' come un pianista che suona senza mirare i tasti, troppo concentrato sullo spartito per volgere le pupille all'articolare delle dita sull'alternarsi del bianco e del nero.
«È solo un muscolo, Elizabeth.» Negò con convinzione Übel all'affermazione della scozzese, lui che mai aveva considerato il suo cuore come centro di possibili emozioni. Un guscio vuoto. Übel Dunkel si sentiva solo un guscio vuoto ed era anche ciò che gli altri vedevano in lui.
Ma Elizabeth no, per qualche strana motivazione riuscì a soffermarsi più sulle pulsazioni che, pur essendo tremendamente flebili, esistevano e si infrangevano contro la gabbia toracica, abbastanza da emergere ed essere percepite dalla violinista sotto i polpastrelli.
«No» sussurrò solamente quest'ultima, testarda e più che certa.
«Non lo è.»
Per una misteriosa ragione, che neppure ella riusciva a spiegarsi, Elizabeth aveva il sospetto che Übel nascondesse anche un solo sentimento, reale, colmo. E non le importava quanto in profondità avrebbe dovuto scavare: si era già ripromessa di tirarlo fuori tempo addietro.
Purtroppo, quando Elizabeth Maleun si metteva in testa un'idea, un progetto futuro e soprattutto una scommessa, era assicurato quanto la morte che l'avrebbe portato a compimento.
A proposito di ciò, un sorriso affatto rassicurante si formò sulla bocca della diciassettenne quando ella rimembrò la sfida che si era appuntata in precedenza: rendere Übel in grado di provare al più presto una sensazione, anche appena accennata.
Spostò la mano dal petto del maggiore come se scottata e la poggiò sul proprio ginocchio. Dopodiché si lasciò andare a un sospiro di resa e, alzato per poco lo sguardo al cielo sopra di loro, tornò a concentrarsi sul tedesco.
«È vero quello che dicevo prima?» Gli chiese, mentre piegava appena la testa di lato. Aveva un'espressione così innocente, in quegli istanti, che era scontato stesse tramando qualcosa. Elizabeth era una giovane donna assai calcolatrice, disposta a tutto pur di ottennere la propria volontà. Nessuna ostruzione poteva fermarla.
«È vero che nulla ti stupisce, che non senti niente?» Specificò poi, affrontando la fronte come a mostrare al diretto interessato quanto le apparisse insensata come cosa. Non si era mai visto un essere umano incapace di emozionarsi, neanche più di fronte al dolore che, dopo essere stato inflitto per tanti anni, sembrava essere diventato pari a un solletico che non si percepisce.
Übel scrollò le spalle di fronte a tutto quello sgomento: per lui era del tutto normale. Anzi, forse l'assurdità risiedeva negli altri individui, che lui definiva "esseri umani medi", coloro che cambiavano umore di minuto in minuto.
«Così pare.» Confermò dunque, semplicemente.
Poteva assumere le fattezze di una bambina, ma Elizabeth ancora non se ne raccapezzava. No, era impossibile. Punto.
In un primo momento inarcò un sopracciglio per quanto era interdetta, ma poi si rese conto che poteva reagire in maniera molto più esaustiva per i propri gusti.
In un palpito d'ali, si sporse in avanti e posò la mano destra sul volto del biondo, a metà tra la guancia e la mascella. Egli non ebbe il tempo di ribattere poiché, prima che riuscisse anche a socchiudere le labbra sottili per dire qualcosa, se le ritrovò premute contro quelle della corvina. Queste ultime erano appena piegate all'insù, in un lievissimo ghigno di compiacimento.
Il misto della puzza di fumo e del profumo naturale di lavanda di cui erano intrisi i capelli neri di Elizabeth perforò in breve le narici del diciannovenne, costringendolo a inspirarlo. Esso si fece strada con prepotenza nei polmoni del ragazzo e li riempì, arrivando agli alveoli, immettendosi nel sangue e raggiungendo il suo cervello, tanto da inebriarlo del tutto.
Fu un bacio a fior di labbra, ma voluto da entrambi, anche se indirettamente e inconsapevolmente. Durò così poco che avrebbe potuto non significare alcunché, eppure ambo gli adepti ne erano rimasti scossi.
«Non... Non sei nemmeno disgustato? Non vuoi mollarmi una sberla?» Fu l'unica cosa che riuscì a proferire la scozzese, spontaneamente. Doveva aprire bocca subito dopo essersi staccata, ma in quell'istante non riusciva a connettere le frasi di senso compiuto e sarcastico.
«Niente di niente...?»
Ma Übel rimase in silenzio per diversi secondi; continua a guardare la minore con gli occhi spalancati, che si erano già sbarrati all'incontro delle proprie labbra glaciali con quelle tiepide di Elizabeth. Eppure le sue pupille, dilatate, sembravano attraversate da una sorta di leggera scintilla. Così il biondo percepì una sensazione mai provata prima appropriarsi delle sue viscere.
«Qualcosa» rispose.
Fu come sovvertire tutti i pronostici, come ridere di fronte all'Uomo con le Previsioni Sicure, quello che era certo che Elizabeth Maleun non fosse in grado di dar peso alle emozioni altrui e che Übel Dunkel non fosse in grado di provarne neanche una di emozione. Eppure, entrambi avevano sentito qualcosa risucchiarli dall'interno e ravvivarli.
E l'Uomo con le Previsioni Sicure non si raccapezzava, poiché il suo lavoro era stato totalmente distrutto.
Übel ed Elizabeth sarebbero potuti restare lì a fissarsi sbigottiti anche per anni. Il primo era completamente preso da quella sensazione, strana e nuova, che gli pareva positiva, che sembrava prevederlo per intero e che... non gli dispiaceva. Tentava di darle un nome, ma era troppo ignorante dal punto di vista percettivo che cercare di identificarla equivaleva solo a sprecare tempo prezioso.
Elizabeth, invece, si sentiva divisa in due, a metà tra l'immenso ego per se stessa e l'interesse per un qualcosa che non fosse quest'ultimo. Per la prima volta dopo anni, si era sentita vicina a qualcuno che non fosse solo ed esclusivamente lei. Era dalla scomparsa di Axel che non le capitava. Malgrado il suo intento iniziale non fosse stato quello, adesso si ritrovava con la consapevolezza di aver compiuto un passo fuori, per uscire dall'imperturbabile corazza che indossava e raggiungere un'altra persona.
Non era di certo incline a tendere una mano verso il tedesco per tirare fuori anche lui dal burrone, ma aveva l'impressione che provarci, prima o poi... ecco, forse non avrebbe pesato l'idea come ridicola.
Una serie di esplosioni, nel cielo stellato, interruppe i pensieri dei due giovani. Lo sguardo da soldato di Übel prese immediatamente il posto di quello appena appena spaesato e distratto, poiché egli aveva riscontrato, nei fuochi d'artificio che coloravano la volta celeste, il segnale d'emergenza che ben conosceva.
«Elizabeth.» Pronunciò ad alta voce, autoritario. Scattò in piedi e, ancora guardando la corvina, attese che anch'ella si alzasse per potersi accostare alla porta del terrazzo e lanciare un'occhiata alle scale che poco dopo avrebbero disceso di corsa.
«I Peccati Capitali.» Disse, tornando a mirare la più piccola e inesperta. Era improvvisamente ridiventato serissimo e risoluto.
«I fuochi d'artificio sono il loro richiamo per farci capire che dobbiamo raggiungerli.»
Aprendo la porta, fece un cenno col capo di seguirlo. Se quell'adepto non fosse stato Übel, e quindi non avesse posseduto la fermezza di restare impassibile dinanzi anche alla peggiore delle situazioni, avrebbe sicuramente avuto il terrore nelle iridi. I Demoni lanciavano la segnalazione solo se c'era in ballo qualcosa di davvero rilevante.
«Dobbiamo andare. E subito.»
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Angolo autrice
Finalmente, dopo mesi di inattività, sono riuscita a pubblicare un nuovo capitolo!
Sono molto legata a questa parte e alla precedente, quelle che descrivono il dialogo di Elizabeth e Übel, ciò che succede tra loro e dentro ciascuno. Avete riscontrato cambiamenti in entrambi? Se sì, vi aggradano? Quale versione dei due preferite?
E, inoltre, cosa ne pensate di loro due insieme? Vorrei che teneste ben presente questo "qualcosa" di cui si accenna, ma ci tengo a precisare che quella di Übel ed Elizabeth naturalmente non si tratta affatto di una coppia confermata (è troppo presto per entrambi), ma qual è la vostra prima impressione sull'argomento? Fatemi sapere!
Spero che il capitolo vi sia piaciuto. Cosa pensate accadrà nel prossimo? Avete idee su cosa vogliano i Peccati Capitali dai loro adepti? Let me know!
Noi intanto ci salutiamo e ci rivedremo col prossimo capitolo. Come al solito, spero di aggiornare presto (seh, dico sempre così e poi finisco per prendermi pause interminabili e sembra che debba partorire ogni volta che devo aggiornare, ma dettagli!)
C
hapeau,
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