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15. L'intervallo

Mina

Un gelido rivolo di sudore mi colava al centro della schiena. Per le mani non c'era speranza: tremavano e, anche se passavo i palmi sudati sui pantaloni, la matita continuava a scivolarmi dalla presa. Di tanto in tanto alzavo lo sguardo per sbirciare i miei compagni, ma quando li vedevo ben impegnati a riempire il foglio protocollo di frasi su frasi, mentre io non ruscivo a mettere insieme due righe per nessuna delle dieci risposte del compito in classe, allora riportavo gli occhi al mio banco.

Erano passati già venti minuti e ancora non avevo usato i bigliettini scritti nella grafia ordinata e precisa di Luca. Ero cocciuta e mi aggrappavo al mio amor proprio con i denti, ripetendomi che non ero stupida e che sarei riuscita a prendere la sufficienza in storia anche senza il suo aiuto. Balle. Di dieci domande, ricordavo solo la risposta a un pezzo della seconda, per il resto vuoto totale. Le influenze della Rivoluzione Russa sulla situazione degli operai negli anni Venti in Italia. "Ma che cazzo ne so?!"

Mi sarei colpita gli alluci con un martello chiodato piuttosto che rendermi ridicola davanti alla classe per l'ennesima volta mostrando la mia solita insufficienza. Tornai a sbirciare i compagni. Noi tre anonimi occupavamo gli ultimi banchi sul fondo, della classe e anche del barile scolastico, e io mi rannicchiavo nel mio posto preferito: accanto al muro, dove di solito potevo appoggiare la testa, dormire e risultare invisibile. I secchioni al primo banco avevano già terminato e, tenendo alto il foglio protocollo denso di parole scritte con profonda soddisfazione, mostravano a noi poveri comuni mortali il posto che avremmo dovuto sempre occupare nella piramide sociale. Colosso e Vedova Nera, dal canto loro, non si facevano problemi a tenere i libri aperti sotto al banco. Nessuno ormai si prendeva la briga di sgridarle, non dopo che metà del corpo docente della nostra classe si era ritrovato con le portiere delle auto rigate. L'odiosa Mancini preferiva lasciarle copiare, per poi restituire la verifica con un bel quattro vergato nell'angolo alto del foglio.

Erano proprio loro il motivo per cui tentai, fino all'ultimo quarto d'ora, di cavare qualcosa dalla mia memoria, maledicendomi per aver passato il pomeriggio precedente a cazzeggiare su Instagram e ascoltare musica. Quando immaginai il mio futuro come quello di Colosso, bocciata all'ultimo anno e con le prospettive lavorative ridotte a zero, iniziò la solita fase che attraversavo durante tutti i compiti in classe dai tempi della prima elementare: quella del ti prego, fammi prendere la sufficienza e giuro che la prossima volta studierò con due settimane di anticipo. Ed ero sempre sincera. Il mio problema non stava nelle intenzioni, come diceva sempre la nonna, ma nell'applicazione.

Controllai la direzione dello sguardo della prof, che girava a visionare la situazione tra i banchi con le mani dietro la schiena peggio di un vecchietto davanti a un cantiere, e sfilai dallo zaino i riassunti di Luca nella speranza di ricavare qualche informazione. Nel panico, mi accorsi che i bigliettini non c'erano più. Al loro posto, sulla mia mano trovai una poltiglia nero violacea, gocciolante per l'acqua fuoriuscita dalla bottiglietta chiusa male.

"Cazzo, si è aperta di nuovo nello zaino!"

La mia ultima speranza, il piano B che avrebbe dovuto assicurarmi la salvezza, si era ridotto a un rigurgito di gatto.

Ed eccola alla fine, puntuale e immancabile, l'ultima fase del crescendo di panico da compito in classe: quella del sono fottuta.

«Psst.» Cercai di attirare l'attenzione di Luca, seduto alla mia destra a un metro di distanza.

«Hai finito?» capii dal movimento delle labbra.

Scrollai la testa e gli mostrai il frutto della combinazione di acqua e cellulosa. «Sono nella merda.»

Sospirò a fondo, come a cercare la pazienza di sopportarmi, adocchiò la posizione della prof e attese che si allontanasse a sufficienza. Poi, in fretta, cancellò con il bianchetto il nome all'inizio del suo foglio e me lo allungò. «Dammi il tuo», bisbigliò.

Luca che faceva un gesto del genere mi sorprese, e non poco. Forse dovevo guardare fuori dalle finestre: i Cavalieri dell'Apocalisse stavano per arrivare.

«E tu come farai?»

Aggrottò la fronte e il suo sguardo duro mi rispose solo una cosa: muoviti, non c'è tempo.

Una volta fatto lo scambio senza che la prof si accorgesse di nulla, iniziò a scrivere in fretta, cancellando con espressione disgustata le uniche due righe che ero riuscita a buttare giù. Con un sorriso luminoso di speranza e soddisfazione – e pensando che quel giorno avrei offerto con gran piacere il pranzo al mio amico per ringraziarlo –, spostai lo sguardo su Tom. Seduto giusto davanti a noi, era quasi al termine della terza facciata, ma teneva lo sguardo corrucciato e stava maciullando la sua Bic tra i denti. Gli mancava qualcosa. Gli lanciai un pezzetto di carta con scritto: Hai bisogno?

Quando si voltò, teneva un sopracciglio arcuato con evidente aria di scherno. La risposta fu veloce e mi rilanciò il biglietto. Mi manca la nove. Da quando sapresti suggerirmi qualcosa?

Il mio dito medio si nascose dietro l'astuccio, ma lui lo vide bene. Controllai il mio foglio protocollo e svelta ricopiai la risposta corretta prima di rilanciargliela. Peccato che, invece di raggiungere il mio amico, la pallina di carta centrò la scollatura della camicetta della prof, venuta a volteggiare proprio in fondo alla classe.

Sopracciglia disegnate con la matita nera, grumi di mascara sulle ciglia grossi come chicchi di riso, la versione italiana della Umbridge sfilò il bigliettino dalla scollatura. Lo lesse con un misto di irritazione, sorpresa, ma evidente soddisfazione. «Fiore, ci diamo al lancio del peso oggi?»

«Io non...» balbettai, senza sapere che cosa dire. Avevo sempre fatto schifo nell'improvvisazione, e se andavo nel panico, allora mi si azzerava il cervello.

«Molto bene, visto che non siete in grado di rispettare le regole della nostra scuola e vi abbassate a certi giochetti infimi per riuscire a prendere la sufficienza, la verifica termina adesso. Consegnate subito i fogli anche se non avete concluso. Avrete il voto che meritate.»

Un coro di lamenti si sollevò tutt'intorno e, anche se tenni lo sguardo basso, mi sentii trapassare da occhiate furenti da parte di tutti i compagni. Gli stessi compagni per cui io di solito non esistevo, ora mi stavano gridando in silenzio gli epiteti peggiori. Li sentivo colpirmi uno dopo l'altro da ogni direzione.

«Sono una stupida», sbottai quando la prof uscì dalla classe all'intervallo.

«Sì, abbastanza.» Tom arrivò a sedersi sul mio banco e mi diede un pugno leggero sulla spalla.

«Sei riuscito a scrivere tutto tu?» chiesi a Luca.

«Sì, non preoccuparti.» Non mi guardava, riordinava le penne nell'astuccio con la sua solita precisione maniacale.

Qualche istante dopo, una pallina di carta grande quanto un'arancia mi colpì sulla tempia, ma non riuscii a capire chi l'avesse lanciata. Oltre alla parola cogliona scritta a lettere cubitali, all'interno trovai un rivoltante sputo.

«Asshole.» Tom me lo tolse dalle mani per buttarlo lui stesso nel cestino.

Uscimmo insieme in corridoio e, come dovevo aspettarmi, la spallata di Colosso non tardò ad arrivare. Sarei caduta a terra se Tom non mi avesse afferrata in tempo. La ragazza se ne andò, seguita dal suo culone sporgente e la grossa risata che tutti conoscevano. Con tutta probabilità aveva deciso di usarmi come suo porta fortuna: c'era chi toccava il corno rosso prima di uscire di casa, e chi giocava a bowling con birilli umani. Ecco cos'ero diventata: un birillo umano. Forse avevo trovato la mia occupazione futura.

«Perfetto, ora tutti mi odiano.»

«Non ti odiano», spiegò Luca, che spingeva la sedia davanti a noi. «Vorrebbero solo crocifiggerti a testa in giù.»

«O scuoiarti», aggiunse l'altro.

«Grazie, mi siete sempre d'aiuto, ragazzi.»

Tom mi passò un braccio sulle spalle, più che altro come appoggio per lui che come reale sostegno morale. Sembrava tenerci a ricordarmi dei venti centimetri che ci dividevano. «Dai, non te la prendere, e poi la Mancini è una stronza, lo sanno tutti.»

«Chi aveva studiato doveva aver già terminato la verifica; chi è rimasto indietro, invece, significa che non sapeva le domande, e quindi sarebbe rimasto fregato comunque.»

«Che cazzo di risposta da secchione», lo rimbeccò Tom schiaffeggiandolo sulla testa.

Luca alzò le spalle. «Beh, è la verità. Io ora vado in bagno e poi alle macchinette a prendermi un pacchetto di patatine. Ci vediamo dopo in classe?»

«Il fortunato che piscia nel cesso dei prof, eh?» scherzò Tom.

«Già, magari mi dice bene e quella di francese si è di nuovo dimenticata di chiudere a chiave la porta.»

«Bastardo. Avrei voluto esserci io al posto tuo», commentò Tom con occhi sognanti. «Mai vista una milf del genere.»

Lo guardai storto, ma lui non lo notò e proseguì avanti. Come sempre, passammo metà degli esigui minuti dell'intervallo in fila alla macchinetta per accaparrarci un disgustoso cappuccino raccolto in un altrettanto disgustoso bicchierino di plastica. Erano davvero inutili. Un momento prima la temperatura del liquido all'interno era la stessa della lava dell'Etna in piena eruzione, e il momento dopo diventava un Calippo.

Ingurgitammo un Kinder Bueno al volo mentre uscivamo in cortile per fumare una sigaretta. Non l'avevamo nemmeno accesa che già la campanella suonava, e io dovevo ancora fare pipì. Mi stavo convincendo che ogni giorno i prof riducessero i minuti dell'intervallo in gran segreto. Doveva esserci una spiegazione razionale.

«Devo ancora pisciare, cazzo», sbottò Tom.

«Io pure. Dopo chi c'è?»

«La Gentilini. Lei è l'unica umana, non ci dirà niente se facciamo tardi.»

«Menomale, altrimenti me la faccio addosso. E questo freddo non aiuta.»

«Te la sei fatta addosso, Fiore?»

La voce femminile arrivava dalle mie spalle. Seguii lo sguardo di Tom e incontrai Barbara, detta Barbie per i capelli sempre in piega perfetta nonostante il tempo umido, nonché storica fondatrice del club delle Iene. Lei era la stessa che, in prima elementare, si vantava per avere lo zaino più ricercato e le scarpe con le luci che tutte le altre desideravano. Ormai al quinto anno di liceo e seduta in prima fila per mostrare meglio agli altri il suo vivere di perfezione emanata, inscenava ogni singolo giorno una sfilata nei corridoi per mostrare un nuovo capo griffato – comprato rigorosamente a Milano nel fine settimana e offerto dalla carta di credito del compagno della madre –, il diverso taglio di capelli o come sapesse coordinare orecchini e dettagli delle scarpe. Quando la vedevamo camminare, io e Tom canticchiavamo l'intro di Uomini e Donne e le ridevamo dietro. Dopo tredici anni di scuola passati agli antipodi del barile-scuola, Barbie mi rivolgeva la parola direttamente per la prima volta.

«No, per mia fortuna», risposi sarcastica, sbuffandole nel frattempo il fumo in faccia. «Sarebbe una cosa davvero riprovevole e anti chic, non credi?»

La sua testa perfettamente ovale si inclinò appena per squadrarmi e i capelli neri, lisci e lucenti le scivolarono sulle spalle. Perché diamine non avevo i capelli così lucidi e perfetti? Quel giorno indossava una camicetta celeste, in tinta con i suoi occhi di ghiaccio, pantaloni ben chiusi in vita da una cintura con decoro di gioielli e stivaletti al ginocchio. Giurai che si fosse messa in posa di fronte a noi. «Sarebbe disgustoso. E in ogni caso, direi che il peggio l'avresti già fatto vestendoti così.»

Guardai la mia felpa di Spider-Man e la sciarpa dei Grifondoro. Non capii cosa ci fosse di sbagliato: erano i capi più belli del mio intero guardaroba, a parte il pigiama peloso da Chewbecca. Quello, non lo batteva nessuno.

«A parte il tuo comportamento durante l'ora di storia, ovvio», ci tenne ad aggiungere.

«Che vuoi, Barbara?» tagliò corto Tom.

«Persefone si chiedeva se avevi pensato alla sua proposta. Cosa ne pensi?»

Tom aspirò l'ultima boccata di fumo e lanciò la sigaretta a terra poco più in là. Sembrò non notare tutti i punti di domanda che mi galleggiavano intorno alla testa. «E perché non è venuta lei a chiedermelo di persona?»

«Lo sai che è timida. E poi, dice che non le rispondi ai messaggi.»

«Dille che sono occupato venerdì, mi dispiace.»

Barbara mi scoccò un'occhiata tanto gelida, nonostante avesse ancora il sorriso sulle labbra, che rimpiansi la spallata di Colosso. «Sempre impegnato con i tuoi amichetti. Beh, quando cambierai idea, saprai dove trovarci.»

Cercai di fare un ultimo tiro dalla sigaretta, ma ormai mi ritrovai solo ad aspirare dal filtro che stava diventando incandescente. Aspettai che la bambola si allontanasse e mi voltai verso di lui. «Mi spieghi di che cazzo stava parlando?»

***

Eh, Tom?! Cosa ci combini?

A scuola, l'intervallo era sempre una corsa: o prendevo qualcosa alle macchinette, o mangiavo, o fumavo una sigaretta. Fare tutto era impossibile.

Cosa avrà combinato Tom secondo voi?

A presto!

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P.S. Avete visto l'ultima recensione che ho caricato sul canale?

https://youtu.be/xE6mXyzWEkE

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