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1. Leonardo e Donatello

Diversi anni prima...

«Mina! Santo cielo, scendi subito giù!»

La voce della maestra era sempre acuta e fastidiosa, e il tutto peggiorava quando sgridava qualcuno. Principalmente, l'oggetto dei suoi insopportabili acuti ero io. Non ne capivo mai il motivo, ma qualsiasi cosa facessi, il mio nome finiva sulla sua bocca. A tutti gli altri bambini lei sorrideva, dava buffetti sulle guance oppure abbracciava quelli che piangevano perché pensavano alla mamma, mentre con me era tutto un Mina, non ti azzardare, Non fare quello, Smettila subito... Io giocavo e ridevo tutto il tempo, non avevo pianto nemmeno una volta da quando era iniziata la "scuola dei giochi", quindi non capivo proprio perché fosse sempre arrabbiata con me.

Finsi di non sentirla e salii ancora di un ramo. C'ero quasi, ancora pochi centimetri e avrei sfiorato il Sacro Graal della scuola Arcobaleno: un vecchio e sporco pallone da calcio incastrato sul ramo più alto del ciliegio del giardino chissà quanti anni prima. I bambini tramandavano anno dopo anno leggende di elfi e fantasmi che lo avevano portato fin lassù e l'idea che quel pallone fosse colmo di poteri magici era la teoria che andava per la maggiore al tempo dei miei cinque anni. Un secondo richiamo si sollevò fino a me, e poi un terzo, così abbandonai la missione che le mie dita avevano solo sfiorato la superficie liscia dell'oggetto dei miei desideri e scesi giù dall'albero. Trafelata, la maestra corse sotto di me, allungò le braccia per afferrarmi e mi aiutò a scendere, anche se non ne avevo alcun bisogno.

«Sei impazzita, Mina?! Eri a più di tre metri da terra! Sai cosa sarebbe potuto succedere se fossi caduta dall'albero?» Alle sue spalle tutti i bambini delle diverse classi avevano interrotto i giochi per guardarci. «Saresti potuta morire! Non farlo mai più, è pericoloso!»

Mi afferrò la mano e mi trascinò nel salone interno dove giocavamo in inverno. Arrancai dietro le sue lunghe falcate fino all'angolo dedicato alle punizioni, che altro non era che una panca rossa di plastica vicino alla finestra e ben distante dai giochi. Le maestre lo chiamavano L'angolo del time out, i miei compagni erano invece più pratici e dal primo anno di scuola dell'infanzia lo avevano ribattezzato L'angolo di Mina. Purtroppo conoscevo bene la procedura: sarei dovuta rimanere lì seduta, ferma immobile, a pensare a ciò che avevo fatto e pentirmene. Obbedii, ad eccezione per l'ultima parte dato che stavo già pensando a quando avrei potuto ricominciare la scalata verso il pallone e diventare una sorta di Re Artù della scuola Arcobaleno.

Nell'attesa che la punizione finisse, agitai i piedi che ancora non riuscivano a toccare il pavimento. Ecco la tortura più grande per me: stare ferma per due minuti, che al tempo mi sembravano lunghi come ore. Nonna diceva che dentro ero fatta di cavallette, e forse aveva ragione data l'energia perpetua che mi muoveva da quando ero nata. Tutta quell'agitazione non mi aiutava di certo a evitare le sgridate. Nessuno mi credeva, ma io volevo davvero essere buona come i miei compagni, che in cortile giocavano sugli scivoli e "correvano piano" proprio come volevano le maestre. Ma quando avevo visto il pallone era scattato qualcosa dentro di me. Nessuno, nemmeno le maestre o le bidelle, avevano mai avuto il coraggio di salire per prenderlo e forse, se ci fossi riuscita io, allora tutti quanti avrebbero iniziato a volermi bene. Era un pallone magico, dopotutto, avrebbe potuto farmi fare qualsiasi cosa.

Mentre agitavo gambe e piedi e canticchiavo sottovoce Quarantaquattro gatti per passare il tempo, mi accorsi che vicino a una delle finestre che davano sul parcheggio antistante la scuola se ne stava seduto un bambino, dalla forma un poco tondeggiante sulle guance e nel volto, tutto impegnato a piagnucolare con il naso schiacciato sul vetro. Era seduto sulla panca dei mammoni, lì dove stavano i bambini più piccoli quando volevano vedere la mamma andare via da scuola. Nella nostra sezione, quella delle Coccinelle dei cinque anni, ormai lì non ci si sedeva più nessuno perché eravamo i più grandi. Al primo anno tutti i miei compagni avevano pianto almeno una volta quando i genitori se ne andavano via al mattino. Io non lo avevo mai fatto. Andare a scuola mi divertiva, coloravo e giocavo tutto il giorno ed ero la prima ad arrivare e l'ultima ad andarmene. Mi chiedevo spesso cosa ci fosse di speciale nelle mamme e nei papà per piangere così tanto e non aspettare altro che il loro ritorno. Io avevo solo una nonna e anche se le volevo bene, non piangevo come una neonata per rivederla.

Controllai che la maestra avesse la testa rivolta altrove e strisciai sulla panca per avvicinarmi al bambino rotondo. «Perché piangi?»

I suoi occhi arrossati si voltarono per guardarmi di sfuggita, emise un singhiozzo più forte e poi ricominciò a piangere. Aveva la bocca piccola, tutta bagnata di lacrime, il naso rosso con una bollicina che gli spuntava da una narice e lunghe ciglia. Gli occhi erano incastonati sul volto paffuto come gli occhi-bottone dei peluche che mi regalava la nonna. Credetti di aver già visto quel bambino, ma non riuscivo a ricordare dove.

«Aspetti la tua mamma?»

Mosse la testa su e giù, ma non disse nulla. Pensai che forse non avesse ancora imparato a parlare, proprio come quel dispettoso di Fabio. «Non devi piangere. Poi ti viene a prendere oggi pomeriggio.»

Dovevo aver detto qualcosa di sbagliato, perché il pianto aumentò al mio tentativo di consolazione.

«Io so chi sei», dissi quando riuscii a riconoscerlo. «Sei il bambino nuovo che abita vicino a casa mia. Ti vedo sempre dalla mia finestra.»

Singhiozzando con forza, tornò a guardarmi. Fece di nuovo di sì con la testa, ma non disse nulla.

La maestra era appostata dalla porta che dava sul giardino per controllare i bambini fuori e anche noi due dentro. Notai che ci stava guardando con interesse. Pensai mi volesse sgridare di nuovo per essermi spostata, invece sorrise soltanto.

«Hai una cosa schifosa che ti scende dal naso, sai?» gli feci notare dopo qualche minuto di silenzio.

Sempre senza aprire la bocca, cercò nella tasca del suo grembiule azzurro e prese un fazzoletto di stoffa. Non ne avevo mai visto uno con i ricami sopra, forse erano le sue iniziali, che al tempo ancora non sapevo leggere.

Stavo iniziando ad annoiarmi con quel bambino muto e quasi mi convinsi a tornare al mio posto, quando adocchiai il gioco che teneva nella tasca: era una delle Tartarughe Ninja.

«Ma è Leonardo!» esclamai. «A casa io ho il bastone di Donatello e anche la mascherina! Mi vestirò così a Carnevale.»

Le sue dita passarono veloci sulle palpebre per asciugarle, poi guardò il suo gioco e di nuovo me. Allora sorrise. Il bambino senza nome e voce stava per aprire la bocca, ma Fabio, soprannominato in segreto dalle maestre Il terribile, arrivò in fretta a interromperci. Senza dire una parola guardò il gioco e glielo rubò dalle mani. Faceva sempre così con tutti. Nella classifica delle sgridate io detenevo la medaglia d'oro, ma lui si assicurava ogni giorno il podio. Per lo meno, io non avevo mai rubato nulla ai compagni.

Il bambino silenzioso ricominciò a frignare ancora più forte di prima. Non mi piaceva vederlo piangere: un po' perché rendeva triste anche me, un po' perché mi irritava e volevo farlo smettere, anche se non sapevo in quale modo. Così mi alzai e spinsi forte all'indietro Fabio, tanto che inciampò sulle sue stringhe slacciate e cadde contro la casetta giocattolo alle sue spalle, facendo un gran baccano.

Ovviamente, la maestra ci raggiunse di corsa. «Che sta succedendo qui?!»

«Fabio ruba i giochi!» mi difesi con prontezza. «Ha rubato la Tartaruga Ninja di quel bambino e lo ha fatto piangere.»

Per la prima volta da quando avevo messo piede nella scuola, la maestra si voltò dall'altra parte per escludermi dal rimprovero. «Fabio, vai subito fuori e lascia il gioco a Tom. Impara a comportarti come si deve o finirai di nuovo in punizione!»

Fabio corse fuori, ma sapevo che non sarebbe cambiato nulla perché era di certo già diretto a importunare qualcun altro. La maestra mi consegnò il gioco e, di nuovo, riprese a guardarmi e a sorridere.

«Ti chiami Tom come nel cartone animato Tom e Jerry

Ero pronta a vederlo scrollare la testa, invece il bambino silenzioso mi lasciò sentire la sua voce per la prima volta. «Io sono Thomas, ma la mamma e la baby sitter mi chiamano sempre Tom.»

«Perché hai un nome strano?»

Aggrottò le sopracciglia. «Il mio nome non è strano.»

«Sì, è strano. Gli altri bambini si chiamano Luca, Alessandro e Fabio. Il tuo sembra un nome dei cartoni animati.»

Alzò un poco le spalle. «Mamma e papà mi hanno chiamato così, ma loro parlano una lingua diversa. La mia vera casa è in un posto che si chiama Calinorfia... Calofornia... sì, si chiama Calofornia», sembrava abbastanza sicuro.

«Nonna non mi ci ha mai portato con la sua macchina», riflettei pensierosa. «C'è il gelato al cioccolato in Calofornia?»

«Sì, io lo mangio sempre. Tu come ti chiami?»

«Io mi chiamo Mina.»

Si guardò intorno, sospettoso. Notai che aveva degli occhi belli, un po' piccoli, un po' azzurri e un po' grigi. Mi ricordarono le scalette in ferro delle piscine in estate, quando i riflessi dell'acqua le facevano brillare tra schizzi di luce e di acqua. «Quel bambino non mi piace.»

«Nemmeno a me. Io lo picchio sempre quando si avvicina e allora mi lascia in pace. Dovresti picchiarlo anche tu», suggerii.

«Le maestre mi sgridano se lo faccio. E poi non so picchiare.»

«Allora, non ti devi preoccupare. Ti proteggerò sempre io.»

«Sempre?» Sembrò combattuto, un poco confuso, ma sorrise. Quel sorriso mi piaceva, perché finalmente aveva chiuso il rubinetto delle lacrime e, anche se non ancora non ne capii il motivo, rese felice anche me. «Sempre, sempre.»

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Spazio Dory:

Eccoci qui, dove tutto è iniziato. Ma quanto sono teneri???

Mi raccomando, aspetto i vostri commenti!

A presto!!

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