Capitolo 1
❝ Il libro dei libri inizia con
un uomo ed una donna in paradiso,
e finisce con l'Apocalisse. ❞
OSCAR WILDE
La cittadina in cui ero nata e cresciuta contava milleduecento abitanti. I pettegolezzi, quindi, si diffondevano a macchia d'olio. Non c'era foglia che volasse inosservata a Brinefield, tutti conoscevano tutti e a volte, non era sempre un bene.
Da quando avevo iniziato a lavorare al Lullaby Cafè, poi, ne sentivo di cotte e di crude.
La maggior parte delle volte cercavo di evitare di ascoltare le conversazioni altrui o in alternativa di non prestare eccessiva attenzione. Ma i clienti non riuscivano quasi mai a essere silenziosi, perciò era un'impresa quasi impossibile.
I mormorii, le occhiatacce, gli sguardi curiosi e le risatine soffuse di quella settimana portavano il nome della giovane vedova Coverty.
Rimasta sola all'età di trentatré anni, Elizabeth, dopo più di un anno aveva smesso ormai di portare il lutto per suo marito, deceduto all'età di trentotto anni.
Dal loro matrimonio non erano nati dei figli, perciò non aveva avuto nessuno con cui condividere il suo dolore, non aveva potuto superarlo aggrappandosi all'amore dei figli o al pensiero di avere ancora qualcosa di lui sulla terra, una parte del suo essere.
Da qualche mese, quindi, erano tornati i vestiti colorati, le gonne, i pantaloni aderenti e le camicette un po' scollate. Erano tornati anche il trucco sul suo viso e i capelli acconciati in modo perfetto.
Il chiacchiericcio della comunità, però, non era nato solo da quel cambiamento, che comunque il resto della gente, a differenza mia e di pochi altri, non vedeva di buon occhio. Era nato per via del suo avvicinamento a Peter Watson, amico di vecchia data del defunto signor Coverty.
«Abba, non è guardando quella stronza fuori di testa di Beth che gli ordini arriveranno a quei tavoli», sentii dire alle mie spalle. Portai lo sguardo distratto sulla mia migliore amica, la mia unica amica, a dirla tutta. Leah Kovaciç.
«Abbassa la voce», sussurrai, guardando in direzione di Elizabeth con la speranza che non l'avesse sentita. Sembrava di no. «Non c'è bisogno di insultarla, ogni volta». Le feci notare poi.
«Quella stronza una volta si è permessa di farti una scenata davanti a tutti, quando sei stata letteralmente l'unica persona di questa cittadina del cazzo ad essere gentile con lei. Perciò scordatelo, non smetterò mai di insultarla».
Leah era un'ottima amica, era anche molto rancorosa e protettiva, a tratti dispettosa, ma assolutamente leale come poche persone al mondo.
L'episodio di cui parlava era avvenuto qualche settimana prima. Era una giornata come tante, ma non appena era entrata Elizabeth era entrata nel Lullaby dopo aver visto gli sguardi che le lanciavano e i mormorii degli altri clienti, avevo deciso di andarla a servire io. Nel farlo, ho anche cercato di essere gentile, dicendole che ero contenta di vederla finalmente serena, che era in ottima forma e che il colore rosso le donava.
Non sapevo esattamente quale delle tre frasi le avesse dato fastidio, ma con mio enorme dispiacere era successo. Aveva iniziato a fare una scenata, urlando e attirando maggiormente l'attenzione su di lei.
"Dov'era il tuo Dio, quando mio marito è morto? E dov'è, ora che sto provando ad andare avanti e tutti questi stronzi mi guardano come se fossi la peggiore sgualdrina del mondo?". Mi chiese, facendomi restare senza parole.
Io non l'avevo neanche menzionato Dio nella nostra conversazione. Ma la fama della mia famiglia mi precedeva, il nostro essere profondamente devoti e cristiani, a volte urtava chi invece non lo era.
I miei genitori erano sicuramente molto più fermi e convinti di me, quasi ossessionati da Dio, la fede, la chiesa e la preghiera. Tutto girava intorno a Dio ed era così che ero stata cresciuta io, secondo gli insegnamenti e le regole di Dio.
Non le risposi, mi limitai a chinare il capo, voltarle le spalle e allontanarmi, dato che avevamo gli occhi di tutti puntati addosso. Era stata Leah quella che aveva iniziato a riempirla d'insulti e l'aveva letteralmente cacciata via.
Perciò sì, laddove io ero calma, pacata, e silenziosa, Leah era tutto il contrario. Era irrequieta, eccentrica e molto rumorosa. Eravamo agli antipodi, ma in qualche strano modo funzionavamo, ci completavamo. Anche se cinque anni prima, quando l'avevo conosciuta, non l'avrei mai detto. Non avrei mai immaginato che una come lei avrebbe mai voluto diventare amica di una come me.
Leah era avventurosa, rispondeva a tono a chiunque e non le interessava del giudizio della gente. Io, invece, letteralmente una ragazza casa e chiesa, a me per forza di cose, il giudizio della gente interessava eccome.
Era arrivata da poco in città quando la conobbi e già tutti la amavano, anche se lei non faceva praticamente nulla per far sì che questo accadesse, anzi, era scontrosa, faceva battutine sarcastiche e cercava di tenere tutti alla larga.
Avevamo quindici anni io e sedici lei.
Solo quando iniziai a conoscerla meglio capii che il suo era un meccanismo di difesa, non lasciava avvicinare nessuno perché ogni volta che poi si affezionava a qualcuno, doveva dirgli addio, dato che i suoi genitori erano costretti a trasferirsi spesso per via del loro lavoro.
Leah mi aveva fatto ascoltare musica che lei riteneva normale e non soltanto canti della chiesa o canzoni religiose. Mi aveva convinta a entrare a far parte del coro della chiesa perché secondo lei avevo una voce angelica e non potevo non farla sentire a qualcuno e poco importava se potessi farla sentire solo ad un branco di fanatici religiosi, come li definiva lei, l'importante era che qualcuno oltre lei, la sentisse.
Leah mi aveva fatto innamorare dei jeans e dei pantaloni, dato che io non li avevo mai indossati prima in vita mia, avendo sempre e solo indossato vestitini conservatori. Mia mamma storceva ancora il naso ogni volta che li indossavo, ma non diceva nulla. Fin quando fossero stati coprenti e non volgari, sarebbero andati bene.
Era con Leah che avevo guardato la televisione per la prima volta, i cartoni Disney, i film d'amore, le commedie e anche i musical. Era lei che mi aveva regalato il mio primo romanzo rosa ed era sempre insieme a lei che avevo letto il primo romanzo erotico della mia vita, ricordo ancora il modo in cui gettai all'aria il libro quando arrivai alla primissima scena intima dei protagonisti e il suono delle sue risate.
Lei mi aveva regalato il mio primo lucida labbra e poi il rossetto, il mascara e tutti i trucchi possibili e immaginabili che però non avevo mai usato.
Leah mi spronava sempre a uscire dal mio guscio, era quindi anche grazie a lei e padre Jeremiah, il nuovo parroco che era arrivato due anni prima, che avevo iniziato a lavorare al Lullaby.
Leah mi aveva mostrato com'era il mondo fuori da casa mia e la mia chiesa. Lei c'era, mi ascoltava, mi faceva parlare e mi capiva, e quando non ci riusciva, non ci rimanevo male, perché almeno lei ci provava.
«Non guardarmi in quel modo, Abba, non gliela porgo l'altra guancia», mi disse, per poi puntarmi il dito contro. Sapevo che non l'avrebbe fatto, perciò non mi era passato nemmeno per idea di dirle una cosa del genere.
Leah era anche l'unica a chiamarmi Abba. Per il resto della gente ero soltanto la figlia dei Marshall, Abigail o Abby.
Il soprannome nacque nel periodo in cui ebbi una vera e propria fissa con la canzone Dancing Queen degli ABBA, per l'appunto. Me la fece ascoltare lei. Un giorno notò che Abba era simile ad Abby, quindi decise di iniziare a chiamarmi in quel modo.
«Sta anche iniziando a piovere», borbottò Leah. Era impegnata a riempire due enormi tazze di caffè. «Io odio la pioggia», aggiunse, come se non lo sapessi già.
Anche a me la pioggia non andava tanto a genio, mi faceva sentire triste, malinconica. Per questo preferivo le giornate soleggiate, calde. Mi infondevano calma e tranquillità, spesso anche gioia.
Guardai al di fuori di una delle vetrate e ne ebbi la conferma, era sera e le luci dei lampioni illuminavano le strade ormai bagnate dalla pioggia, che scorreva ormai non più lentamente come qualche secondo prima, ma in maniera incessante.
«Non ho portato l'ombrello», pensai ad alta voce.
Non pensavo ce ne sarebbe stato bisogno, stava per arrivare l'estate e in estate da noi non pioveva quasi mai.
«Rubiamo due vassoi e usiamo quelli per ripararci dalla pioggia», fu il suggerimento di Leah. «Non guardarmi in quel modo, sarebbe un prestito e i signori Fisher non avrebbero niente da ridire».
I signori Fisher erano Greg e Rosie, i proprietari del Lullaby, una coppia davvero tanto dolce, due persone meravigliose. Conoscevano me praticamente da tutta la vita, mentre Leah avevano imparato a conoscerla dal momento in cui aveva incominciato a lavorare per loro.
E per la cronaca, se avessimo fatto una cosa del genere, è vero che non si sarebbero arrabbiati.
Non eravamo le uniche a lavorare al Lullaby, oltre noi c'erano anche Jessie e Lindsay. I coniugi Fisher avevano bisogno di più personale perché la loro tavola calda - caffetteria era la più conosciuta e frequentata della nostra cittadina.
Al Lullaby ci passavano i bambini prima di andare a scuola, per fare colazione con i pancake della signora Fisher, gli adolescenti venivano dopo scuola a fare i compiti e mangiare un pezzo della torta al cioccolato più buona del mondo, per noi di Brinefield. Gli adulti venivano a fare un salto prima di andare a lavoro o dopo. Il Lullaby non era mai vuoto e con il tempo avevo imparato ad abituarmi alla cosa.
Avevo imparato a trattare con i clienti maleducati, a destreggiarmi da una parte all'altra senza rovesciare nulla per terra o addosso alle persone, a preparare i caffè, i milkshake e tante altre specialità della casa.
Le ragazze dicevano che i clienti mi adoravano e che riuscivo a tirare fuori il buono anche da quelli di solito intrattabili o brontoloni, io non la pensavo come loro.
Era che a differenza mia, che alle frasi maleducate, agli sbuffi e ai borbottii, rispondevo con un sorriso e senza mai una parola cattiva. Loro rispondevano a tono ed è risaputo che se rispondi alla rabbia con altra rabbia, il risultato non cambierà.
Io e Leah, comunque, non eravamo amiche di Jessie e Lindsay. Andavamo d'accordo, ci rispettavamo, ma non avevamo assolutamente niente in comune e loro non volevano mischiarsi a noi. Non che la cosa ci dispiacesse.
«Ho passato la piastra ai capelli proprio prima di venire a lavoro», piagnucolò Lindsay. Si era fermata anche lei a guardare fuori dalla vetrata. «Ora mi si gonfieranno e sembrerò una specie di barboncino».
Non capivo cosa c'era che non andasse nei barboncini, erano cani adorabili e molto carini. Decisi però di lasciar perdere le sue parole e dirigermi in silenzio dalla famiglia Kavinski a lasciare il conto.
Restai a chiacchierare con loro per qualche minuto, dopodiché mi riavvicinai a Leah. Guardai l'orologio, erano appena le venti e trentadue, potevamo chiudere solo alle ventidue e trentacinque in punto, non un minuto prima, non un minuto dopo.
Capitava, l'estate, che rimanessimo aperti anche fino mezzanotte e mezza o l'una di notte. Quando succedeva, i miei genitori non ne erano affatto contenti, perché di solito avevo il coprifuoco alle ventitré, era fuori discussione restare fuori casa fin oltre quell'orario.
«Lin, sono tornati!» sentimmo strillare a un certo punto. Sia io che Leah portammo lo sguardo su Jessie, che si era piegata dietro al bancone per nascondersi, era più che palese.
«Oh mio Dio, non posso crederci», si aggiunse anche Lindsay, guardando il punto che le aveva indicato con un cenno Jessie, ancora nascosta dietro al bancone. «Leah, puoi andare tu a prendere le ordinazioni di quel tavolo?», chiese alla mia migliore amica. Leah si limitò a lanciarle un'occhiata.
«No, sono già impegnata qui, mandaci Jessie».
«Ascolta, abbiamo avuto, ehm... diciamo un fraintendimento con una delle ragazze sedute lì, non vogliamo problemi. Per favore, Leah». Lindsay si mise proprio a piagnucolare. Lo sguardo della mia migliore amica la indusse ad aggiungere una spiegazione. «Ci ho provato con il fidanzato di quella che ha il tatuaggio sul braccio, Jessie invece ha fatto sesso con il ragazzo dagli occhi chiari e ora, chiaramente, l'ultima cosa che vorrebbe fare è andare lì a prendere il suo ordine».
Cose tipiche di Lindsay e Jessie, insomma. Non era nulla di nuovo o che non avessimo già sentito prima. Una volta Lindsay era stata addirittura picchiata dalla fidanzata arrabbiata di un ragazzo con cui ci aveva provato, era andata in giro con un occhio nero per più di una settimana.
«Siete due donne adulte, potete andare lì a fare il vostro lavoro e lasciare i fatti personali al di fuori». Le rimproverò Leah, guardando prima una e poi l'altra. Una delle due schioccò la lingua in disappunto.
«Sei proprio antipatica a volte, Leah», disse Jessie, che ormai si era alzata da terra. Aveva incrociato le braccia sotto al seno e assunto una posa arrabbiata.
«E voi siete abituate a prendervi tutto il braccio, quando qualcuno vi porge la mano», le rispose Leah, senza il minimo tentennamento. «No, non guardatela. Lasciatela stare».
Stavano parlando di me, ora. Perché voltandomi finalmente verso di loro, notai che entrambe le ragazze avevano gli occhi puntati su di me.
«Abby, per favore», piagnucolò Lindsay, poi mise le mani davanti a sé come se mi stesse pregando. Mia madre avrebbe storto il naso dinanzi a questa visione.
«Cosa?» chiesi, fingendo di non aver capito. Sapevo però che non mi sarei negata e che al contrario di Leah, avrei accettato. Lo sapevano anche loro.
«Sappiamo che hai ascoltato, lo fai sempre», disse Jessie. «Per favore, puoi andarci tu?» aggiunse, usando con me educazione e gentilezza, ciò che non aveva fatto con Leah. Con me usavano sempre la gentilezza, perché sapevano che non riuscivo a dire mai no.
«Suppongo che possa andare bene», risposi, facendo tirare a entrambe un sospiro di sollievo. «È solo un tavolo e sono solo delle persone», aggiunsi, facendo spallucce.
«Grazie, Abby, sei un tesoro», disse Lindsay, battendo le mani entusiasta. Jessie aggiunse un'altra cosa, ma non le diedi neanche ascolto.
«Siete delle stronze opportuniste», sentii dire da Leah, mentre mi allontanavo con il taccuino in mano, pronta a prendere le ordinazioni. «Abba», mi richiamò Leah. Mi fermai e mi voltai verso di lei. «Tu vai dai ragazzi, le ragazze le servo io».
Notai solo allora che le persone di cui parlavano Jessie e Lindsay erano sedute a due tavoli differenti. Due ragazze a un tavolo, tre ragazzi a un altro, quello poco distante da loro. Non capii il motivo, d'altronde dovevano essere un gruppo di amici. Non ci diedi tanto peso però, al Lullaby succedevano cose ancora più strane o senza senso di quella.
«Buonasera, benvenuti al Lullaby», dissi, tenendo lo sguardo sul taccuino e la penna che avevo in mano. «Avete già scelto cosa ordinare?»
Fu quando alzai gli occhi che lo vidi per la prima volta.
Aveva i capelli scuri e corti, dei bellissimi occhi marroni, le sue labbra erano piene e sembravano morbide. L'espressione del suo viso era contratta, quasi come se fosse infastidito da qualcosa o come se qualcuno l'avesse fatto arrabbiare. Le sue spalle erano larghe e muscolose, sembrava praticasse qualche tipo di sport. La maglietta bianca che indossava creava un bellissimo contrasto con il colore scuro della sua pelle, risaltava e fasciava perfettamente il suo fisico scolpito. E, pur essendo seduto, si notava che era alto.
Non era solo, stava parlando con i suoi due amici prima che arrivassi io e li interrompessi, però in qualche modo, era come se lo fosse. Vedevo solo lui e fu una sensazione strana, inaspettata. Quando portò il suo sguardo dritto nel mio, poi, sentii qualcosa in me smuoversi, una specie di esplosione nel petto, il cuore iniziò a battere in maniera frenetica e non riuscivo a spiegarmi il motivo.
«La codarda di Jessie ha mandato te? Pensava che se l'avessi rivista le avrei messo un anello al dito?» Fu il ragazzo dagli occhi chiari a parlarmi per primo.
Lo guardai quasi con stupore, non avevo mai visto qualcuno con la carnagione scura avere due occhi così chiari. Era particolare e bello, ma non avvertii nessuna sensazione strana al petto, quando guardai lui. Il che mi confuse ancora di più.
Che avessi avuto un accenno di malessere?
No, me ne sarei accorta, se così fosse stato. Se ne sarebbero accorti tutti, in realtà. La mia glicemia era nella norma da un'ora, più o meno. Se avesse avuto qualche sbalzo, il microinfusore avrebbe iniziato a suonare. E poi, i sintomi erano completamente diversi.
«Ehm, non credo di sapere di cosa tu stia parlando. Non mi ha mandato nessuno, lavoro qui». Mi ritrovai a mentire per Jessie e non ne fui per niente contenta.
Avrei dovuto confessarmi e seppur padre Jeremiah fosse comprensivo e pensasse che a volte rendevo tutto troppo tragico, mi era stato inculcato nel cervello fin da piccola che mentendo avrei commesso un peccato grave nei confronti di Dio. L'avrei offeso profondamente anche dicendo solo una piccola bugia, poco importava se fosse a fin di bene o no.
«Da quando? Non ti abbiamo mai vista prima», s'intromise il terzo ragazzo. Anche lui come gli altri due era molto bello, stesse labbra piene, stesso colore di pelle, i suoi capelli però erano leggermente più lunghi di quelli dei suoi amici e il suo taglio era diverso.
«Probabilmente vi hanno sempre serviti Jessie, Lindsay o Leah, le altre ragazze che lavorano qui».
«E casualmente oggi mandano te», riprese a parlare quello dagli occhi chiari. Percepii il sarcasmo nella sua voce.
«Qual è il problema?» chiesi, «Vuoi che chiami Jessie e le dica di venirti a servire?»
«No, cazzo, no. Resta dove sei, una come quella riesco a sopportarla solo mentre è chinata a novanta sotto di me», parlò senza avere il minimo tatto, tant'è che arrossii violentemente per via delle sue parole sconce e poco opportune. «Come ti chiami, bellezza?» chiese poi, chinandosi di poco per guardare la targhetta sulla mia divisa. «Non riesco a leggere il nome sulla targhetta, hai i capelli davanti».
Fece per scostarmeli lui stesso, però mi irrigidii e feci subito dei passi indietro per mettere distanza tra di noi.
«Abba, c'è qualche problema?» sentii chiedere da Leah alle mie spalle. Prima che potessi risponderle, il ragazzo parlò di nuovo.
«Ti chiami come un gruppo musicale? I tuoi hanno gusti di merda, lasciatelo dire, piccola».
«Mi chiamo Abigail», dissi semplicemente, poi mi voltai in direzione della mia migliore amica e le dissi: «Nessun problema, Leah, torno subito».
Lei annuì con la testa e riprese a mettere delle tazze nella lavastoviglie. Io mi voltai di nuovo verso i tre ragazzi.
«Io sono Buckley, comunque, Buck per gli amici o le belle ragazze come te».
«Buckley, cosa prendi?» chiesi, facendogli intuire che non volevo dargli alcun tipo di confidenza. Sentii il suo amico ridere, proprio quello che avevo notato per primo.
Il suono della sua risata lo sentii vibrare fin dentro le mie ossa e ancora una volta mi sentii a disagio, confusa. Quella situazione mi spaventava e desideravo solo allontanarmi, tornare dalla mia migliore amica.
«Cazzo, Rom, sono stanca di fare avanti e indietro come i bambini delle elementari. Avete venticinque anni tu e ventitré lei, perché non vi sedete a tavolino e parlate come persone normali?»
Una delle due ragazze di cui parlavano Jessie e Lindsay, prese posto accanto a Buckley. Guardai affascinata le sue treccine castane con alcune ciocche blu, lunghe fino a metà schiena. Anche il make up elaborato che le ricopriva il viso mi piaceva molto, io non sarei mai stata in grado di farlo su di me.
«È lei quella che continua a mandarti qua a riferirmi dei messaggi, non io», la liquidò dicendo solo questo, neanche la guardò. Perfino la sua voce mi piaceva e causava in me sensazioni mai provate prima. Aveva gli occhi puntati su di me. «Abigail, giusto?» Fu la prima volta che mi rivolse la parola e il modo in cui disse il mio nome, mi fece diventare le gambe di gelatina. «Scusa la maleducazione dei miei amici».
«Senti chi parla», borbottò Buckley. Ora i loro occhi erano tutti su di me, anche quelli della bellissima ragazza che si era seduta da poco con loro.
«Rom, cerca di non fare il coglione, sai che Star non reagisce bene». La ragazza, di cui ancora non sapevo il nome, parlò con voce tranquilla, alternando lo sguardo da lui a me. Io non riuscivo a capire e non mi azzardai a chiedere.
«Non sto facendo un cazzo, voglio solo ordinare un caffè e non mi interessano le reazioni di Star».
Pensai che Star fosse il nome dell'altra ragazza, quella che non si era avvicinata. Mi morsicai le labbra e restai in attesa, ma nessuno di loro si decideva a ordinare, avevano semplicemente ripreso a discutere.
«Ho altri clienti che mi aspettano, potreste dirmi cosa volete prendere, per favore?» chiesi, impaziente di tornare da Leah.
Uno ad uno mi dissero i loro ordini e io li scrissi tutti sul taccuino. Volevo allontanarmi velocemente da loro e tornare nella mia confort zone, ovvero dietro al bancone. Ed è ciò che finalmente feci.
«Abby, caspita, ti hanno tenuta un sacco di tempo lì», osservò Jessie non appena mi avvicinai di nuovo a loro. Passai il foglio con gli ordini a Leah e cercai di ignorare lo sguardo curioso di Jessie che mi stava quasi perforando le spalle. «Ti hanno detto qualcosa?»
«No, stavano parlando di cose loro», mi limitai a rispondere. Non accennai nulla sulle parole poche carine che aveva detto Buckley su di lei, temevo di ferirla.
«Sembra che Rom e Star abbiano rotto», disse Lindsay. Il suo sguardo era puntato sul tavolo dei ragazzi.
Rom.
Mi bastava solo sentire il suo nome per avvertire di nuovo quella sensazione strana e quasi fastidiosa alla bocca dello stomaco.
«Non sarebbe una novità», le fece notare Jessie con un sorrisetto.
«Beh, quella stronza non stava con lui quando ci ho provato, eppure questo non l'ha dissuasa dal rompermi le palle come se fossero sposati».
«Sai che quei due non si lasciano mai del tutto seriamente», le disse Jessie.
«Dovresti aspettare un po' di tempo prima di provarci con una persona che ha chiuso la sua relazione da poco, così eviti di litigare con le persone», mi sentii di consigliare a Lindsay.
O di farti fare un occhio nero. Volevo aggiungere, però tacqui.
Di solito non mi intromettevo negli affari altrui, quella volta però mi avevano praticamente interpellata loro.
«Tu non ne sai niente del mondo, Abby».
Non mi piacque l'aria di superiorità che assunse quando mi rivolse quelle parole. Non mi piacquero quelle parole e basta.
«E quindi per questo non posso dare la mia opinione?»
«Comunque io e Star non siamo amiche, in quel caso non mi sarei neanche sognata di provarci con lui», disse, ignorando completamente la mia domanda.
«A chi vuoi darla a bere, Lindsay?» s'intromise Leah con un sopracciglio alzato e l'aria scettica. Perché sì, ci avrebbe provato comunque.
«Alcune di noi sono peccatrici, Leah», rispose Lindsay con un ghigno. «Non siamo tutte pure e caste come la piccola Abby».
Ancora una volta non mi piacque il suo tono, era quasi derisorio e io ero buona, ma non stupida.
«Non si tratta di essere pure e caste, si tratta di avere rispetto per se stessi, per il prossimo e un briciolo di umanità e buon senso, Lindsay», le dissi mentre posavo gli ordini dei ragazzi sul vassoio. Il fatto che lei non possedesse nessuna delle cose che avevo elencato, era sottinteso. «Comunque non sono affari miei».
Non m'interessava cosa facesse Lindsay della sua vita, delle decisioni che prendeva o delle azioni che commetteva. Era lei quella che prima o poi avrebbe dovuto fare i conti con la sua coscienza. Non io.
Portai da bere ai ragazzi con la testa bassa e senza dare troppa confidenza, sentii però il suo sguardo addosso per tutto il tempo e bruciava. Bruciava sulla pelle come il sole in estate.
Tornai al bancone in silenzio, misi a tacere il microinfusore quando suonò per avvertirmi che la glicemia era in calo, misi in bocca una caramella zuccherata e ripresi a svolgere le mie mansioni abituali.
«Sei la figlia del pastore Marshall?»
Ancora la sua voce, ancora lui.
Alzai lo sguardo di scatto e lo guardai. Se ne stava dall'altra parte del bancone con un foglio in mano e un sorriso che ispirava fiducia. Mi guardava in un modo a me sconosciuto, nessuno prima d'ora mi aveva mai guardata così. Trattenni il fiato per qualche secondo.
«La nostra chiesa ha un sacerdote, non c'è nessun pastore», la risposta mi uscì in automatico e forse ne rimasi sorpresa più io che lui.
«Errore mio, allora», disse, «Però sei la figlia di Marshall», aggiunse. Teneva ancora quel foglio stretto fra le mani e lo sguardo su di me.
«Conosci mio padre?»
Dubito che fosse una domanda intelligente, nella nostra cittadina tutti conoscevano tutti, quindi era ovvio che conoscesse mio padre.
«Tutti conoscono tuo padre», rispose lui. Vedendo poi il modo in cui mi ero irrigidita, aggiunse: «Così come tutti conoscono il mio e probabilmente anche me».
«Io non ti conosco», gli dissi, sicura di avere un espressione corrucciata.
Ai suoi occhi potevo sembrare una bambina, Leah mi diceva sempre che quando facevo quelle smorfie lo sembravo davvero.
«Mi chiamo Roman, è un piacere», mi tese la mano mentre con l'altra teneva ancora il foglio bianco. Guardai prima la mano che mi aveva teso e poi lui, indecisa su cosa fare. «Di solito l'altra persona ricambia la stretta, oppure sei una da pugno?» chiese, divertito.
«Abigail», soffiai fuori il mio nome e allungai la mia mano per stringere la sua.
Avvertii una specie di scarica elettrica proprio nell'istante in cui lo toccai, volevo ritrarre la mano perché la sensazione mi arrecava disagio. Ma non lo feci.
Il cuore mi galoppava forte nel petto e quasi pensai che il mio cervello stesse andando in cortocircuito. Il mio corpo, comunque, lo stava seguendo a ruota.
«Hai un bel nome, lo sai, Abigail?» chiese, forse per rompere il ghiaccio o semplicemente per fare conversazione. Dubitavo che gli interessasse o piacesse davvero il mio nome.
«Grazie, anche il tuo», risposi però e io lo pensavo davvero. Aveva un nome particolare, mi pareva significasse "forza". Ero brava con i significati dei nomi. Gli si addiceva, comunque, sembrava davvero forte.
«Anche il mio cosa?»
Avevo l'impressione che avesse capito benissimo cosa intendessi, voleva solo che glielo dicessi più apertamente. Forse voleva che mettessi da parte la timidezza.
«Anche il tuo nome è bello», gli dissi semplicemente. Avevo fretta di ritornare a lavoro e in parte glielo feci capire, perché presi a sistemare un cestino con delle cose dentro che avevo già sistemato in precedenza.
«Grazie», rispose, soddisfatto. Poi appoggiò il foglio sul bancone e io stetti molto attenta a non sbirciare.
Ad un certo punto credetti che stesse per dire qualcosa ma i suoi amici lo chiamarono e lui si voltò verso di loro, gli fecero segno di andare e lui annuii con la testa.
«Ci vediamo presto, Abby», disse e prima che potessi ricordargli di portare via il foglio con sé, lui mi voltò le spalle e si allontanò.
Ebbi il coraggio di prendere il foglio e sbriciare solo quando se ne fu andato, quando restai sola. Sopra c'era scritto in corsivo: "Non dovresti mai tenere lo sguardo basso, i tuoi occhi meritano di essere ammirati", poi, "gira il foglio". Lo feci, obbedii ad un ordine scritto da uno sconosciuto.
Due paia di occhi identici ai miei mi guardavano, erano disegnati su carta in bianco e nero, in maniera tanto realistica che mi tolse il fiato.
Aveva disegnato i miei occhi.
❋ Spazio autrice ❋
Eccoci qui con il primo capitolo, aspettava di essere pubblicato da più di un anno💆🏼♀️
È la prima volta che scrivo un libro che non sia al presente, devo dire che mi sta piacendo molto, anche se spero di non fare un casino💀
Detto questo, spero che vi piaccia. Sono curiosa di sapere quali sono le vostre prime impressioni sui personaggi e soprattutto sui protagonisti👀
Vi aspetto come sempre su Instagram per parlarne insieme✨ Grazie di tutto, sempre.
Vi abbraccio forte,
Noemi❤️
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