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Capitolo I. Scelte Sbagliate.

ᵍʳᵃᵖʰⁱᶜ ᵇʸ Lightning070 

«ⁱ'ᵐ ˢᵒ ˢⁱᶜᵏ ᵒᶠ ᵐᵉ, ʷᵃᵏᵉ ᵘᵖ ᵃⁿᵈ ʰᵃᵗᵉ ᵗᵒ ᵇʳᵉᵃᵗʰᵉ
ᵃⁿᵈ ⁱ ᵖʳⁱᵈᵉ ᵐʸˢᵉˡᶠ ⁱⁿ ᵗʰᵃᵗ, ˢᵒ ᵈʳᵃᵐᵃᵗⁱᶜ, ⁱ'ˡˡ ᵃᵈᵐⁱᵗ
ⁱ'ᵐ ˢᵒ ᵗʸᵖⁱᶜᵃˡ, ᵐʸ ˡⁱᶠᵉ ᵃⁱⁿ'ᵗ ᵈⁱᶠᶠⁱᶜᵘˡᵗ ᵇᵘᵗ ⁱ'ᵐ ˢᵒ ᶜᵃᵘᵍʰᵗ ᵘᵖ ⁱⁿ ⁱᵗ,
ʲᵘˢᵗ ᵃ ˡᵒʷˡⁱᶠᵉ, ⁱ'ˡˡ ᵃᵈᵐⁱᵗ ⁱ'ᵐ ˢᵉˡᶠ-ᶜʳⁱᵗⁱᶜᵃˡ, ᵗʳʸʰᵃʳᵈ ᵒʳⁱᵍⁱⁿᵃˡ
ᵒʰ, ⁱ ᵖʳⁱᵈᵉ ᵐʸˢᵉˡᶠ ᵒⁿ ᵗʰᵃᵗ, ˢᵘᶜʰ ᵃ ˡᵒˢᵉʳ, ⁱ'ˡˡ ᵃᵈᵐⁱᵗ»
ʏᴜɴɢʙʟᴜᴅ - ᴏʀɪɢɪɴᴀʟ ᴍᴇ


Capitolo I. Scelte sbagliate.
ᎧᎧᎧ

«Quindi, Jean? Che cosa hai scelto di fare, nella tua vita?»

Fosse facile, Jean avrebbe già risposto da tempo a tutti coloro che, nel loro fragile disinteresse, hanno tentato di capire cosa desidera davvero per il proprio futuro. Fosse semplice, risponderebbe che ne ha, di cose che vuole fare, solo che la vita è troppo corta per poterle realizzare tutte in modo che portino da qualche parte e allora, semplicemente, ha scelto di vivere facile. E di non fare proprio niente.

È bravo in molte cose, fra tutte l'arte – disegno, musica, scrittura – è uno di quei talenti innati che lo contraddistinguono eppure, paradossalmente, è l'unica strada che non vuole intraprendere, quella dell'artista. Il motivo? Non porta soldi. Non porta fama. Ci si fa un mazzo così per anni, si studia un'infinità di ore, si affina la tecnica, e poi? E poi si resta con un pugno di mosche strette tra le dita, insieme all'insoddisfazione perenne di chi, di fronte ai propri sforzi, non trova pace. Ci sarà sempre qualcosa che non va e, in più, non vi è nulla in cambio.

Sua madre si ostina a tenere appesi i suoi disegni sui muri – e a sciorinare belle parole a proposito di quanto sia bravo il suo Jeanbo, quando qualche ospite inatteso capita a casa Kirschtein e si ritrova ad ammirare un suo lavoro.

«Ma com'è bravo Jean! Ma lo fa per lavoro? Che talento!»

No, e Jean non ci pensa nemmeno. Quale pazzo si metterebbe a disegnare per lavoro? Quella roba si fa per hobby e solo se si ha tempo di farlo e, chi riesce a sfondare in quel campo, lo fa solo perché qualcuno gli dà qualche calcio nel culo o è raccomandato. Se non si hanno certe fortune, Il resto della vita lo si spende a faticare il meno possibile in un lavoro ben retribuito che gli garantisce un futuro, non di certo dietro a sogni irrealizzabili. Fortuna, poi, che il lavoro perfetto per lui l'ha trovato! Magari non è esattamente il suo campo, ma meglio di niente. I soldi arrivano e sono sicuri. Si tratta di una ditta di pulizie che si occupa, perlopiù, di uffici. Si sveglia alle cinque del mattino, alle sei è sul posto, alle dodici c'è la pausa pranzo e poi ricomincia fino alle tre. Poi? Poi ha tutto il sacrosanto pomeriggio libero e lo dedica per lo più, paradossalmente, a fare l'unica cosa che pensa non gli potrà mai dare un lavoro: dilettarsi nel suo talento naturale, perché non ne può proprio fare a meno. Che sia disegnare un paesaggio, scrivere una poesia o comporre una canzone, Jean si butta nella sua stanza e lascia che l'ispirazione lo colga. E poi? Poi chiude tutto lì dentro e non lascia che nessuno ne sappia niente. È una cosa sua. Solo sua. Non ha intenzione di condividere niente, perché tanto non serve a niente.

La vita è cosa, i sogni un'altra. Non ha tempo da dedicare alle sciocchezze, men che meno ha voglia di restare deluso dopo aver riposto troppe speranze in un futuro diverso.

Allora va bene così. O, almeno, se lo fa andare bene così.

«Non ci credo! Come sarebbe a dire che te ne vai? Vivi con noi da tre anni! Possibile che tu non ti sia affezionato nemmeno un po'?» È la voce di Connie, uno dei suoi coinquilini, che si sta lagnando. Ha le dita infilate in quei pochi centimetri di capelli grigi che ha in testa; i gomiti premuti contro il tavolino, disperato. Lo guarda come se gli avesse appena detto che vuole staccargli gli occhi e usarli come palline da golf.

Jean sbuffa. Incrocia le braccia al petto e appoggia di più la schiena contro la sedia. Ora è seduto solo sulle due gambe e si dondola distrattamente, scocciato. «Mio dio, Connie. Non farla tanto lunga! Non è una novità, ed è un bel po' di tempo che tu e Sasha sapete che voglio una mia indipendenza. Non voglio restare il coinquilino di qualcuno! Ormai lavoro da due anni alla Ackerman e ho messo da parte abbastanza soldi per potermela cavare da solo. In più il signor Smith è disposto a darmi una mano con i documenti. Sono pronto al grande passo!»

«Ma non lo siamo noi!», piagnucola Sasha, in piedi tra di loro; i palmi delle mani premuti contro il tavolo con una pressione che – Jean lo sa – sarebbe capace di farlo ribaltare. I capelli rossicci sono raccolti in una frettolosa coda e, su una guancia, c'è ancora traccia della farina che stava usando per preparare il pane. Le dita, tremanti, sono incrostate di sugo, le fa sembrare imbrattate di sangue. «Come puoi abbandonarci così? Hai detto che non era nulla di certo!»

«Ho detto che non ero sicuro di potercela fare con uno stipendio del genere, che è ben diverso. Avanti, lo sapevate che, prima o poi, questo giorno sarebbe arrivato», sbuffa ancora e non ha nemmeno il coraggio di guardarli.

«La cosa peggiore è aver l'impressione che a te non importi poi così tanto di abbandonarci», mormora Connie, e sta già per mettere su il suo broncio da battaglia; quello che, quasi certamente, anche Sasha poi adotterà. Fortuna che Jean ne è immune. O quasi.

«Eddai, non iniziate a tentare di farmi sentire in colpa, perché non ci riuscirete!»

«Allora è vero che non ti importa! Come al solito sei una persona orribile, Jean!» Sasha è arrabbiatissima. Gonfia le guance e reprime le lacrime agli occhi. Si passa la manica del vestito bianco che indossa, sulle guance, melodrammatica, poi fa tremare il labbro inferiore e lo fissa dritto negli occhi. Jean non si è mai sentito così minacciato come in questo momento. «Ho sempre pensato che il tuo menefreghismo fosse solo una facciata, ma la verità è che sei un vero stronzo che pensa solo a se stesso! Anzi, sai che ti dico, non pensi nemmeno a te. Pensi solo a questa tua stupida idea di un futuro stabile dove sei costretto per forza a lavorare solo per i soldi e a realizzarti vivendo in autonomia.»

«Si chiamano traguardi, Sasha, qualcosa che tu e Connie siete ben lontani dal comprendere e raggiungere», dice, e si pente immediatamente di averlo fatto, perché lo sa che non è così e che, se ha detto una cosa del genere, è per pura e semplice invidia.

Specie nei riguardi di Sasha.

Lei ama la cucina, il cibo e qualunque cosa abbia a che fare con quel campo. Ha studiato duro e ora lavora come cuoca in un albergo. Non ha ancora raggiunto chissà che livello, ma impara in fretta ed è lodata dai suoi superiori. Le hanno già detto che, un giorno, diventerà qualcuno. Jean sa che è vero: da quando vivono tutti e tre lì, da dopo la scuola, Sasha ha sempre cucinato per tutti e non ha mai sbagliato un colpo. Quando è tra i fornelli è un cavolo di uragano. A volte Jean non ha nemmeno il tempo di vedere cosa combina, che già è tutto nel forno in attesa di essere mangiato e gustato. Sperimenta nuovi piatti, e ogni volta è un successo diverso che sottolinea la sua bravura.

Sasha è qualcuno in potenza, e Jean è solo un invidioso di merda.

«Buona cena fuori da questa casa, Jean Kirschtein. Goditela!», dice lei, dopo un silenzio schiacciante passato a fulminarlo con lo sguardo. Gli ha appena negato la cena: non cucinerà per lui. Né oggi, né tantomeno nei prossimi giorni che lo separano dal trasferimento. Sapeva che avrebbe dovuto tenere la cazzo di bocca chiusa.

«Sasha! Avanti, non fare così», la chiama, quando lei si volta e se ne va, chiudendosi poi nella sua cameretta e mettendo immediatamente la musica a palla. Segno che, da qui a un bel po', nessuno la vedrà uscire da lì. Lui sospira, irritato. «La solita melodrammatica.»

«Ha ragione, invece. Ma che accidenti ti prende? Ti sembrano cose da dire, a qualcuno che ce la sta mettendo tutta per realizzare il proprio sogno?»

«Connie, non ti ci mettere pure tu, ti prego», mormora lui, a bassa voce, prendendosi poi la testa tra una mano, con già il principio di un'emicrania, spostando lo sguardo sul quel poster di Parigi appeso sulla parete di fronte a lui, che ha un angolo staccato da mesi e minaccia di cadere da un momento all'altro. Instabile, come lui, come Connie e come Sasha. «Le chiederò scusa quando uscirà dalla sua stanza e poi cercherò di farla ragionare, anche se non sono di certo io, quello in difetto», asserisce, annuendo per convincersi che ci riuscirà.

«Ragionare? Sasha? Senti, quello che puoi fare è ripensarci e restare qui. Non ti ricordi? Ci siamo promessi che, qualunque cosa accada, saremo sempre insieme.»

«Quella promessa ce la siamo fatta all'asilo. Non sono più il bambino piagnone di quel tempo, Connie. Non attaccarti al passato, queste sono stronzate.»

«Stronzate? Eppure eccoci qua! Su, Jean... che cosa ti cambia se vivi qui o altrove? Da solo, poi. Che divertimento c'è a dover tornare a casa dal lavoro, stanco morto, cucinare, lavare, stirare e chissà che altro e poi ricominciare la giornata, ogni giorno nello stesso identico modo? Almeno qui ci siamo noi, ci diamo una mano, vediamo un film insieme ogni sera, giochiamo alla Play, ci incavoliamo per le partite di calcio, Sasha ci fa ingrassare! Che cosa c'è di sbagliato, in tutto questo?»

«Che la vita è un'altra cosa. Che nella vita si evolve, si cerca di responsabilizzarsi, ad un certo punto. Io non voglio restare impigliato in un limbo instabile, dove non ho certezze.»

«Quanto accidenti sei noioso e capoccione?», lo redarguisce Connie, con un ultimo, disperato sospiro che abbandona il suo cuore. Non lo guarda nemmeno più. È così deluso che, Jean lo sa, probabilmente se ne avesse il coraggio lo picchierebbe. Peccato che gli arriva sotto una spalla e pesa meno della metà di lui.

Connie sembra scemo, ma non lo è poi così tanto.

«Senti, io ho scelto. E se i miei amici non riescono ad essere felici per me, lo vedo come un gran bel fallimento. Lo sapete che riesco in tutto quello in cui mi cimento, no? Non sarà diverso nemmeno stavolta.»

«Fallimento rispetto a cosa? Cosa falliresti mai, andando a rintanarti da solo in un nido vuoto, lavorando e basta? Ma, ehi, sai che ti dico? Sono tuo amico, se pensi che questa sia la soluzione perché tu ti senta realizzato, fa' pure. Non voglio tenerti ingabbiato in una vita che non ti piace, qui con noi», conclude Connie e, con un certo disappunto, si alza in piedi e si avvicina alla porta della propria camera, proprio accanto a quella di Sasha – che ancora è rintanata lì ad ascoltare musica Metal piuttosto rumorosa.

«È inutile: la carta dei sensi di colpa non funziona!», gli urla dietro, per sovrastare tutto quel rumore, rimanendo seduto su quella sedia, senza alcuna intenzione di rincorrere nessuno.

Connie si volta, prima di sparire in camera sua. «Oh, lo so! Dopotutto tu un cuore non ce l'hai!»

Vaffanculo, mi sento in colpa!

Fine Capitolo I


Note autore:

Salve a tutti! Ebbene sì, eccomi con l'ennesimo progetto che sono certa non porterò avanti ma, ehi, almeno tre capitoli scritti li ho, quindi perché non provare a vedere se la cosa va in porto? 

Di cosa si tratta? Ma è molto semplice: di una storia (long, minilong... non lo so ancora) modern!AU che affronta una certa tematica che mi sta a cuore: la realizzazione di se stessi. Ovviamente gira intorno a tanti personaggi e ne vedrete moltissimi del mondo di AoT ma, ovviamente, è una Jeanmarco (sebbene vorrei tendere più sul lato umano che quello romantico, ma mi conosco ** quindi non voglio fare pronostici... vedremo come andrà!)

Insomma, sperando che questo primo capitolo vi sia piaciuto e vi abbia incuriositi, vi invito a lasciarmi un parere e a farmi sapere cosa ne pensate!

Ah, il disegno all'inizio del capitolo è mio ♥ se vi va di seguirmi su instagram mi trovate sotto il nome di miryartefp, dove pubblico i miei disegni!

INTANTO ANDATE A SEGUIRE Lightning070, la mia guascosazza, che mi ha regalato il set per la storia (banner e copertina che vedete all'inizio del capitolo) e che ha così acceso la mia voglia di scrivere questa storia pure non la dovesse seguire nessuno al mondo ç__ç 

Un abbraccio a tutti e a presto!

La vostra amichevole Miryel di quartiere. 

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