Septic Years - Gli Anni della Merda
Nelle fosse biologiche avviene un processo chiamato in termine tecnico "digestione". Sì, proprio come fossero degli stomaci che sciolgono e trasformano i liquami per cibarsene. I batteri anaerobici si moltiplicano sotto le croste solidificate di escrementi e divorano tutto, smembrando gli scarti organici nella materia che fa da combustibile a tutto il mondo naturale. Il normale ciclo della vita, per donare all'occhio la regale fierezza dei mammiferi, compensa la bellezza naturale con l'esistenza dei saprofagi. Coloro che si cibano degli scarti del mondo animale sono esseri asimmetrici, viscosi, che strisciano nell'ombra. Che digeriscono il pianeta una tonnellata alla volta, come succhi gastrici senzienti e voraci. E nel loro rimpinzarsi di marciume si fanno radici dell'albero della vita. Sono loro la vera prova cartesiana dell'esistenza di Dio, così perfetti ed essenziali nel grande meccanismo biologico. Sono arrivato a questa conclusione dopo averci vissuto a contatto per vent'anni ormai, perciò so di cosa parlo. Mio padre sapeva bene quanto loro possano essere aperti ad accogliere un essere superiore, quasi angelico, di cui finora hanno visto solo gli scarti. Posso considerarmi il loro re, o il loro profeta. Immaginate se la Terra stessa fosse particella di un escremento cosmico e in mezzo a noi scendesse l'arcana creatura che l'ha prodotta. Non potremmo fare altro che prostrarci e accoglierla come nostra divinità, sospesi dal nostro orgoglio nel pensare che fossimo noi stessi in cima alla piramide biologica degli scarti organici. Forse siamo degli enzimi digestivi con ossa e unghie, intenti a digerire avidamente il pianeta con il nostro brulicare che sembra non avere fine. Almeno questo è ciò che percepisco qui, nel buio della mia fossa, mentre la massa intorno a me mi solletica saggiando la mia pelle e subito dopo se ne disinteressa. Non è colpa loro se non hanno occhi. Ma hanno memoria e devozione per il loro dio: per questo non mi digeriscono. Tutto intorno a me muta e si trasforma, ma io ormai sono parte di loro così come loro sono parte di me.
Vorrei dirvi come mi chiamo, ma non ricordo più il mio nome. Non ricordo neppure il mio aspetto fisico, dopo aver trascorso un ventennio nell'oscurità più totale. Ricordo però il nome di mio padre: Sebastiano Brühl. Forse non vi dirà niente, ma se siete agenti immobiliari nei dintorni della Val di Fassa potreste aver riconosciuto il suo nome come uno dei tanti architetti che hanno apposto le loro firme negli edifici turistici della zona. Non saprei dirvi quali case ha progettato, però. La mia memoria si è terribilmente logorata e fatico anche solo a immaginare uno spazio tridimensionale diverso dalle pareti cubiche della mia fossa. Col tempo, nel buio, ci si dimenticano le superfici curve mentre il tatto si adatta alle forme bitorzolute degli escrementi e alle pareti di basalto. Potrà far storcere il naso, ma ci si abitua in fretta. È caldo, colmo di placidi feromoni. Mi sento come un feto nel ventre della madre, immerso nel confortevole tepore del liquido amniotico. Ecco che percepisco qualcosa fluire, il suono lontano di uno sciacquone che si aziona nel mondo di sopra. Mi concentro: sono gli scarichi della signora Tabacco. Ne riconosco il fetore di nervosismo e la puzza di fumo di sigaretta assorbita dai villi intestinali. Per questo l'ho chiamata "Tabacco", non so se questo sia il suo vero nome, ma riesco a riconoscere sempre i suoi scarti. La fossa biologica dove mi trovo è particolare: è il centro verso cui confluiscono tutte le fognature del paese. Per questo riconosco tutti gli abitanti dai loro escrementi. Non sono molti, forse poco meno di un centinaio perché il paese è piccolo e isolato, ma hanno tutti molta personalità. La signora Tabacco è nervosa perché suo figlio è di nuovo partito con la motocicletta ed è andato a correre sul Passo San Boldo insieme ai suoi amici. Anche suo figlio fuma, ma non quanto suo madre. L'ho chiamato "Liquirizia" perché gli piace masticare rondelle di liquirizia. In più, i suoi escrementi sono molto neri e gommosi, come la liquirizia. Non sono mai stato sul Passo San Boldo, ma so che è un posto davvero splendido. Il panorama dev'essere mozzafiato. Non credo che nessuno dei due abbia qualche legame con mio padre. Entrambi vivevano qui da prima che lui mi portasse con sé insieme ai progetti per la nuova casa. Invece la fidanzata di Liquirizia è arrivata al paese da qualche anno. Lui deve averla conosciuta quando stava nella casa dello studente dell'università di Trento, ma non ne sono sicuro perché di certo le informazioni delle fognature di Trento non arrivano fin qui. Non ricordo come l'ho chiamata, non so nemmeno se sia una sola. Non sembra avere tratti caratteristici. Ma torniamo a mio padre.
Sebastiano Brühl, ovvero mio padre, ha iniziato la sua carriera negli anni '70. C'era un gran bisogno di architetti per edificare delle abitazioni resistenti e sicure delle Dolomiti, specie dopo la tragedia del Vajont, e lui colse l'occasione al volo. Non aveva scelto lui di fare l'architetto, poiché sosteneva che questa vocazione gli fosse venuta in sogno. È noto che ci sono due tipi di architetti che praticano il mestiere con passione: quelli dal piglio artistico (gli aspiranti Gaudì, per intenderci) e quelli che si concentrano sul perfezionamento tecnico e sull'eleganza strutturale anonima ma solida. Mio padre non era nessuno dei due. Ciò che faceva lui era passare delle giornate intere a dormire e, quando la sua psiche era rinchiusa in un profondo letargo, degli strani meccanismi si mettevano in moto nella sua mente. Restava a dormire per ore e ore, immerso in una sorta di inquieta paralisi tradita solo dal contorcersi dei suoi bulbi oculari dietro le palpebre, e sognava. Almeno così mi è stato detto. Quando si svegliava, la sua mente aveva generato con incredibile accuratezza l'immagine dell'edificio che avrebbe progettato. Ce l'aveva ben fissa in mente. L'unica cosa che gli rimaneva da fare era prendere in mano stecca e matita per imprimerla su carta prima che si perdesse nel suo sciame di pensieri nevrotici. Oltre a rappresentare scrupolosamente ogni dettaglio dell'edificio, riempiva i progetti di annotazioni minuziose per i geometri che avrebbero poi reso concreto il suo progetto. Addirittura scriveva note sulla composizione del terreno prima che si effettuassero le misurazioni, nonché appunti sulle preferenze domestiche dei futuri inquilini. E i suoi colleghi erano sbalorditi quando le sue previsioni si rivelavano esatte, pur continuando a detestarlo in segreto. I rapporti con altri esseri umani, infatti, non erano il suo forte. Ogni tentativo di discussione con lui, che fosse per negoziare cementi meno costosi o per cambiare il posizionamento delle grondaie, era completamente inutile. Egli insisteva fino alla nausea che nulla doveva essere modificato dai suoi progetti originali ed era pronto a salire personalmente su un bulldozer e demolire tutto il lavoro fatto se qualcuno si fosse permesso d'introdurre il minimo cambiamento. Una volta, discutendo con un capocantiere testardo, si dice che avesse perso la pazienza e si avesse tentato di bucare con un cacciavite le gomme dell'escavatore, ovviamente senza successo. Tale era la sua caparbietà sul fatto di non cambiare una sola virgola di ciò che progettava. Per questo ogni cantiere della zona pregava di non aver a che fare con lui per un progetto. Oltre a essere intrattabile, era solito fare dei continui sopralluoghi per controllare che gli operai e gli ingegneri stessero seguendo alla lettera il suo progetto. Amava distribuire aspre critiche, sia ai poveri muratori che ai colleghi architetti, senza prendersi un attimo di riposo. Tutti lo odiavano, eppure nessuno poteva dire che le sue case non fossero solide. Per questo continuava a lavorare. La bellezza, invece, non era il suo forte. Gli edifici da lui progettati si distanziavano dalla tipica architettura rurale in stile alpino del luogo, senza tetti spioventi in legno e finestroni da cottage. Invece, il suo stile assomigliava più al brutalismo italiano che andava di voga negli anni '60, con spessi muri di cemento e scheletri di acciaio che si ergevano monolitici contro il profilo delle montagne. Le spigolose geometrie delle sue case, però, non erano uno snodo spaziale espressionista, non erano quel tipo di architettura autoriale che si può trovare nei vasti massicci dell'industria metropolitana. No, il suo stile era una sorta di brutalismo insipido da centro commerciale, del tutto impersonale e per questo irrilevante. Stonava terribilmente con la semplice rusticità dei paesaggi delle Dolomiti e provocava diversi sospiri di disapprovazione negli abitanti della zona. La distruttiva sobrietà di mio padre, tuttavia, lasciava talvolta spazio a delle scelte assurde. In una delle sue case, per esempio, il primo piano consisteva in un rozzo parallelepipedo lungo il doppio del piano terra ed egualmente largo. Questo faceva sembrare l'edificio un'enorme "T", e poteva presupporre una sorta di bizzarro intento artistico, ma mio padre aveva una spiegazione ben più logica. La casa è molto vicina a una strada, aveva detto, e in questo modo, se un'auto perde il controllo e tira dritto, invece di schiantarsi contro la casa, passerà sotto una delle braccia della "T" e si schianterà sulla collina dietro. Pensavano stesse scherzando, ma lui insisteva. Diceva che stava facendo un grosso favore alla coppia di banchieri svizzeri che sarebbero andati ad abitare in quella casa; diceva che stava salvando loro la vita. Certo, l'abitazione era a malapena a norma per quanto riguardava leggi antisismiche e uscite di sicurezza in caso di incendio, ma egli era convinto che quello fosse il modo migliore per renderla sicura. Era la strada il problema per lui, non i terremoti. Una strada non trafficata, sulla quale le auto potevano correre ben oltre il limite di velocità proprio prima di una curva. Alla fine i banchieri svizzeri diedero la loro approvazione al progetto, intimiditi dal guizzo di follia che trasmetteva mio padre, e l'edificio si costruì come lui aveva dettato. Viste le sue mancanze nel rispettare appieno le leggi sulla sicurezza, tuttavia, fu l'ultima volta che gli permisero di tuffarsi in un design così azzardato e inutilmente stravagante. La "Casa a T di Canazei" restò oggetto di beffe da parte della comunità architettonica per molti anni, tramutandosi in una leggenda orale che le matricole d'ingegneria edile si tramandavano tra un aneddoto e l'altro. Pian piano, però, quell'assurda storia si perse negli anni come accade a tutte le leggende soffocate dalla disillusione. E nessuno se ne ricordava più quando nel 1988 un camion si schiantò sulla collina lì dietro. Aveva sfiorato di qualche centimetro il soffitto di cemento armato. Sopra, nel braccio destro della "T", la coppia di banchieri svizzeri proprio quella notte stava dormendo in camera da letto.
Il cosiddetto "Jenkem" non è una droga molto conosciuta. È principalmente diffusa nelle regioni dell'Africa più misere, dove nessuno può permettersi le droghe viziate da festicciola. Il Jenkem viene prodotto inserendo escrementi umani in un sacchetto di plastica o in un secchio e lasciandoli fermentare sotto il sole per diversi giorni. I batteri lavorano in fretta e presto il sacchetto si riempie di una miscela di gas che causano estreme allucinazioni, come il metano e l'acido solfidrico. Chi l'ha provata dice che non ha nulla da invidiare a un trip di DMT o di ayahuasca, anche se gli effetti sono molto più brevi. I fanciulli africani, circondati da mosche e arbusti riarsi, tirano un sospiro profondo e vedono la loro madre, morta, che parla a loro una volta ancora. Sentono di essere un tutt'uno col cosmo per un istante di vita, un picco dell'esistenza umana che si manifesta nella morte dell'ego e nelle pulsazioni dei frattali che compongono la struttura dell'universo. E tutto ciò grazie alla merda e al sole, al rifiuto che viene trasformato per mano dei miei fratelli probiotici in un'esalazione di divina estasi. Le percezioni si moltiplicano e i confini fra i cinque sensi sembrano fratturarsi per dare luce a un'informe appartenenza al Tutto. Lo so perché anch'io, immerso nel liquame da vent'anni, posso sentire il macrocosmo e il microcosmo dentro di me. Con chiarezza assoluta avverto tutte le coscienze collegate da invisibili tentacoli di energia. Sento l'azione del ciclo della vita e il mio ruolo in essa. Pur nel più totale buio della mia culla settica, posso vedere il viso sereno del parroco del paese che ha appena scaricato nel cesso dell'oratorio. Sento galleggiare le sue feci verso di me. Gustandole, posso sentire il sapore dell'ostia ancora fresca e del vino della messa. Significa che oggi è domenica. Agito le mie appendici e applaudo, felice di ritrovare uno degli appigli temporali che mi permettono di fare riferimento agli anni passati. Gli anni settici che ho passato in costante allucinazione e bruciante voglia di vendetta contro mio padre. Nonostante il mio tutt'uno con la coscienza collettiva, non posso comunicare con i miei compaesani, ma solo recepire i loro pensieri passivamente. Recepisco la crescente preoccupazione della signora Tabacco. Suo figlio sarebbe dovuto tornare ore fa, ma non dà alcuna notizia di sé. La vedo camminare avanti e indietro nel soggiorno, mordendosi le unghie, e telefonare alle sue amiche in preda al panico. Beve un altro caffè, prova a distrarsi guardando la televisione, ma non ha successo. Suo figlio è un incauto, ama l'ebbrezza di guidare ad alte velocità sui tornanti del Passo San Boldo; si piega fino a sfiorare l'asfalto col gomito nelle curve. L'adrenalina è una sensazione troppo forte, una donna difficile ma estremamente seducente nel magnetismo che causa il suo brivido. Tabacco prende un'altra sigaretta dal pacchetto Merda, è l'ultima. Meglio se vado a comprarla dal tabaccaio, che poi fa troppo tardi.
A Sebastiano Brühl non fu concesso di continuare così. Dopo l'ultima assurdità, le minacce dei periti edili della regione Trentino riuscirono a frenare i suoi azzardi architettonici per un po'. Ciò, tuttavia, non lo dissuase dal continuare a difendere i suoi metodi di progettazione. Puntualmente, assistito dai pochi amici che si era fatto (e che somigliavano più a una setta), continuò a immergersi nei suoi sonni allucinatori per ricevere profetiche rivelazioni edilizie. E spesso insisteva con i comuni della zona per progettare case che nessuno aveva richiesto ma che lui considerava assolutamente necessarie. Diceva che i suoi progetti avrebbero evitato la morte di molte persone e per questo era divenuto lo zimbello della comunità architettonica. Ovunque andasse si portava dietro la fama di "santone dell'architettura". Era solo grazie al suo carisma e alla sua diligenza progettuale (con l'eccezione della "casa a T") che riusciva a ottenere nuove commissioni. Tuttavia, il logorio provocato alla sua reputazione lo costrinse a essere più aperto al dialogo. Egli diventò più disponibile a contrattazioni riguardanti i suoi progetti, pur controvoglia, e giustificò questo comportamento come una necessità legata al mantenimento del posto di lavoro. In questo periodo conobbe mia madre. Lei, una donna seriosa e scettica, fu introdotta nella sua cerchia di discepoli come infermiera per monitorare i suoi lunghi sonni, ma presto scattò la scintilla. I due intrecciarono una relazione nella quale lei sembrava più interessata alle poche virtù di Brühl piuttosto che al suo fascino da guru. Lui era considerato un eccentrico sensitivo, ma in realtà la sua verve metafisica era piccola cosa in confronto al suo rigore e alla sua impassibilità. Era un uomo coi piedi per terra, abile nel lavoro manuale, che non parlava mai per metafore e diceva ciò che pensava senza il minimo rimorso. Fu la sua predisposizione alla logica a conquistare mia madre, che lo vedeva come una sorta di John Nash alpino, un genio dalla mente così acuta che trapassava i confini del pensiero umano per perdersi in allucinazioni schizofreniche. Lei tentò spesso di convincerlo a sottoporsi a visite psichiatriche, forse per l'ambizione di correggere quell'unico suo difetto e trasformarlo del tutto nel suo uomo ideale. Lui rifiutò aggressivamente. Presto i due si sposarono in comune ed ebbero il primo figlio, di cui non ricordo il nome.
In un baleno trascorsero diversi anni. La presenza di mia madre a fianco a Brühl lo mutò profondamente, placando il suo ego e convincendolo che forse sì, forse era davvero un matto. Alla fine, dopo tutti quegli anni, solo la condizione paterna e l'amore verso la sua donna erano riuscito a smuoverlo dalle sue certezze. Mio padre continuò a utilizzare il suo personalissimo metodo per ottenere l'ispirazione e progettare nuovi edifici, ma era molto più malleabile e si poteva avere con lui una piacevole conversazione. I suoi design divennero più raffinati e rustici, anche grazie all'influenza di mia madre accanto a lui, e le stravaganze architettoniche si ridussero drasticamente. Mio padre aveva imparato a far tacere il proprio istinto e a preferire l'approvazione umana all'incrollabile fede nei propri ideali. Ciononostante, spesso si svegliava sudato nel cuore della notte e piangeva per ore. Come una larva viscida di sudore si dibatteva e gemeva, tra le lacrime, che sfidare le proprie visioni lo avrebbe portato alla rovina. Che stava sprecando il dono ricevuto, ignorando il disegno del mondo che gli era stato predisposto in sogno. Che era tutto storto, tutto sbagliato, che la terra tremava sotto i suoi piedi. Allora mia madre lo consolava e gli somministrava del Trittico o dell'Halcion in dosi pesanti e lui tornava a dormire come un sasso. Il giorno dopo, visitava il comune per avvertirli che dovevano assolutamente demolire il centro commerciale programmato a Bressanone. Lottò invano per mesi, litigando con mia madre riguardo alla questione. Lui aveva un'orribile sensazione, sentiva che presto sarebbe accaduta una tragedia immane, ma i farmaci sempre di più gli avevano corroso la lucidità mentale. Il centro commerciale fu costruito lo stesso. In quel periodo nacque il secondo figlio dei miei genitori (e quindi il secondo mio fratello) e passarono dieci lunghi anni. Ormai mio padre aveva perso ogni fiducia nelle proprie capacità. La sua salute mentale si stava sempre più degradando e i suoi sogni si erano tramutati in una foschia indistinta di presagi amorfi. Il primogenito dei miei genitori ormai andava al liceo quando i due decisero di costruirsi una casa propria. Così mio padre si immerse per l'ennesima volta in uno dei suoi sogni, pronto a ricevere la visione della loro futura abitazione. Mia madre gli era accanto, sorridente, e studiava il guizzare degli occhi sotto le sue palpebre per tentare di decifrare quali volumi geometrici e materiali edili si stessero manifestando nel suo talamo. Ma il sonno di mio padre era più inquieto del solito. Egli era scosso da convulsioni e digrignava i denti, i muscoli contratti in un'orrida sensazione di soffocamento. Un incubo epocale, un terrore mistico, lo stavano lacerando dall'interno. Quando si svegliò, mio padre non disse una parola. Con gli occhi infossati e un pallore cadaverico si mise a sedere sul letto e ansimò profondamente. Non ricordava con precisione ciò che aveva visto, ma recava i sintomi di un'orrida asfissia che lo aveva paralizzato per ore. Aveva visto il guizzo di un edificio, sì, bellissimo, ma tutto era stato spazzato via dal sapore della roccia nelle narici e del peso di mille tonnellate di terra che gli strozzavano il respiro nei polmoni. Mia madre per la prima volta fu davvero intimorita da lui. Mio padre arrancava, era debole, e le sue energie mentali non erano più quelle della sua giovinezza. Per la prima volta non riusciva a ricordare nemmeno l'aspetto esteriore della casa che aveva sognato e ciò lo gettò in una profonda depressione. I due sposi decisero quindi di affidare il progetto a un altro architetto, una giovane promessa della progettazione edilizia di cui non ricordo il nome. Il giovane fu onorato di costruire una casa per mio padre, in quanto la sua reputazione si era ristabilita grazie agli ultimi anni. Disegnò un'abitazione sofisticata, dalle proporzioni alpine ma armoniose, sul pendio di una vallata che offriva uno splendido panorama. Dopo qualche anni nacqui anch'io, il terzogenito, e la costruzione della casa fu ultimata.
Non ricordo molto riguardo al concetto della nascita. Qui sotto i miei fratelli si moltiplicano con l'antichissimo processo della mitosi cellulare, espandendosi e consumandosi come corpi celesti che respirano. Supernove di fosfolipidi, gas che si sublimano insieme a coscienze inerti. Però riesco a percepire quando una nuova vita si forma nel mondo di sopra. Quando accade il miracolo, da alcune condutture fognarie non giungono più tampax bagnati di sangue. Dopodiché, ci vuole qualche anno perché il nuovo arrivato dimostri delle caratteristiche tali da meritare un nome. L'essere umano cambia abitudini in fretta, specie quando è ai primi stadi della vita, proprio come la terra che sta intorno a me. Il ciclo della materia organica non ha mai fine, il tempo è lineare ma al contempo ricomincia daccapo. Non potrei dare nomi a tutti gli organismi unicellulari che sento strisciare sul mio corpo, ma posso sentire ciascuno di loro come un'entità unica e distinta per i pochi minuti di vita che gli sono concessi. Tutto è troppo effimero, per questo scelgo accuratamente i nomi degli abitanti del mondo di sopra. Non avrei modo di dividere i miei pensieri in branchi se non avessi dei nomi a cui appoggiarmi, e il mio l'ho dimenticato molto tempo fa. Sento che dalla conduttura più a sinistra proviene un escremento di Tenia, il padrone di casa. L'ho chiamato così perché ormai è da dieci anni che una tenia vive nei suoi labirinti intestinali. Non sapevo che un verme potesse vivere così a lungo, ma è proprio così, qui sotto ne arrivano centinaia di larve ogni mese. Quando la toglierà, rimarrà comunque e sempre Tenia per me, perché anche lui è un parassita. Vive ancora con la madre nonostante abbia trentacinque anni e abbia tutti i soldi necessari per trasferirsi in un proprio domicilio. Pretende affitti troppo alti dai turisti che visitano il paese, poi finge di essere in crisi e racimola ogni briciola di compassione che riesce a succhiare da amici e famiglia. Ama mangiare il pane in crosta senza cuocerlo, è in questo modo che ha contratto la tenia che ora lo accompagna, ma lo fa in segreto per non essere deriso. Per quello non avrà mai il coraggio di recarsi dal medico per una visita al colon. Mi chiedo cosa se ne faccia di tutti quei soldi senza figli da sfamare. Sono disgustato dalle feci piene di vermi che mi scarica qui sotto, mi chiedo se non sia ora di uscire dalla mia fossa. I miei fratelli probioti condividono le mie preoccupazioni e mi innalzano al soffitto roccioso, facendomi galleggiare nello strato di liquame meno solido. Agguanto il mio frammento di vetro e ricomincio a scavare nella parete di cemento. È da dieci anni che lentamente erodo il soffitto della fossa, facendomi strada una briciola alla volta verso la mia vendetta. Mio padre ha preteso uno strato di almeno mezzo metro per essere sicuro, ma io sono paziente. Ho passato buona parte della mia vita a scavare e ora sento che mi manca poco. L'alone dei raggi del sole pare trapelare dalle fessure tra gli atomi mentre il mio braccio lentamente raschia il cemento. E nel frattempo le ore passano. La signora Tabacco ha cacato un'altra volta. Il suo nervosismo è al limite, ormai è notte fonda e ancora non ha notizie del figlio. Finalmente arriva una telefonata, sul cordless un numero che le fa gelare il sangue nelle vene. Sì, parlo con la signora Tabacco? Sì, la avviso che suo figlio ha avuto un grave incidente mentre scendeva lungo il Passo San Boldo. Una piccola frana mattiniera non registrata, dei sassi che erano rimasti sull'asfalto bagnato. Il guard-rail non ha potuto salvarlo, è precipitato per settanta metri. Mi dispiace, signora. Sì, sì ha capito bene signora. Mi dispiace molto. L'aroma di liquirizia svanirà per sempre dall'atmosfera della fossa, rimarrà solo quello di nicotina. Un pianto disperato, piango anch'io, poi il silenzio.
Una frana è ciò che pose fine anche alla vita di mia madre e dei miei fratelli. All'epoca io avevo quindici anni ed ero in campeggio con mio padre. Mi aveva costretto lui a venire, perché io odiavo restare in mezzo alla natura, ma soprattutto odiavo stare con lui. Anche se mi voleva bene, al punto da accontentare certi miei capricci infantili, non c'era modo di sconfiggere la sua testardaggine. Doveva portarmi in campeggio con sé, come aveva fatto anche coi miei fratelli, in una sorta di rito per entrare nell'età pre-adulta. Non scoprimmo cos'era accaduto fino a che, due giorni dopo la tragedia, la guardia forestale riuscì a trovare il nostro accampamento e a informare mio padre. Una delle vasche di decantazione della miniera che si trovava a monte era crollata, riversando centinaia di migliaia di litri d'acqua putrida verso il paese. L'acqua si era mescolata con il terriccio provocando una colata di fango, la quale a sua volta si era mista al ghiaione che troneggiava proprio sopra casa nostra e aveva travolto tutto nel suo passaggio. L'edificio, quindi, era stato completamente sommerso da un misto di ghiaia, terra e fango. La colata era stata talmente forte da aver sfondato le finestre e aver trascinato la nostra Ford Fiesta giù per la vallata per la notevole distanza di tre chilometri. I vigili del fuoco impiegarono diverse settimane per levare via il fango e ritrovare i corpi di mia madre e dei miei fratelli. Mio padre non volle nemmeno vedere in che stato si trovavano i cadaveri. Cadde in una depressione indescrivibile, rifiutandosi di uscire di casa e continuare il suo lavoro. Segregò anche me nel suo appartamento, terrorizzato dall'idea di poter perdere anche il suo unico figlio rimasto. Era diventato un individuo paranoico, deturpato dall'alcool e dai farmaci. La sua mente era piagata dal fallimento che aveva causato quell'incidente, dandosene la colpa. Un giorno, dopo una sbronza particolarmente acuta, si risvegliò con un'illuminazione. Finalmente, dopo anni di attesa, era stato di nuovo benedetto con una visione. Aveva sognato una nuova casa, un ultimo spazio fisico da progettare per preservare la vita del figlio rimasto. E quell'estasi improvvisa non gli aveva solo rivelato le istruzioni per la mia longevità, ma anche il grande segreto dietro il futuro dell'essere umano. L'immortalità e la trascendenza erano staccate dai vizi dell'esistenza civile, dall'incubo sofferente e gravitazionale del soprasuolo. Finora per lui non ero stato che un figlio fallito. Certo, il mio fallimento nell'essere prole non era paragonabile al suo fallimento come marito e padre, ma più volte mi disse che avrebbe preferito se ci fossi stato io a morire soffocato dal fango. Ma ora era diverso. I suoi sensi di colpa avevano generato in lui un morboso attaccamento alla mia sopravvivenza che io nemmeno immaginavo. Progettò una gabbia dalla quale fosse impossibile entrare o uscire, con pareti di cemento di cinquanta centimetri, incastonata nella dura terra dolomitica. Anche se fosse scoppiata una bomba nucleare sarei sopravvissuto e, anzi, la mia esposizione costante ai veleni organici del mondo naturale mi avrebbe reso resistente a ogni cosa. Ricordo che egli pianse sulle mie spalle prima di farmi cadere in un sonno profondo con i suoi farmaci. Quando mi risvegliai, ero completamente immerso nei liquami, circa otto metri sottoterra nella fossa biologica del suo ultimo capolavoro edile. Tentai di lottare, di liberarmi, di gridare, ma era inutile. I primi giorni furono i più difficili. Faticavo a respirare, i miei polmoni erano esondati dai gas venefici che si sprigionavano dagli escrementi in lenta fermentazione. Pian, piano, però, iniziai a non avere più bisogno di aria. Prendevo il nutrimento dalla materia con cui venivo in contatto, filtrandola per tenermi cosciente con l'energia che essa mi procurava. Non necessitavo di molto, solo di quel poco che bastava per alimentare l'apparato circolatorio e il mio cervello, costantemente invaso da un caleidoscopio di allucinazioni date dai gas di fermentazione. Ben presto, il mio corpo si adattò perfettamente alla condizione di detritivoro. Mio padre aveva ragione, il suo sogno rivelatore aveva predetto l'impossibile. Come in un'evoluzione accelerata il mio organismo mutò giorno dopo giorno rendendomi ciò che sono adesso. Non soffro la fame, né la sete. Non sento né caldo, né freddo. Non temo più la morte e non sono sicuro di essere vivo. L'unica sensazione che sento di aver conservato dalla mia vita precedente è l'odio viscerale che provo verso mio padre. L'odio che provo verso Sebastiano Brühl, mio padre. Sento le colonie batteriche fuori e dentro di me che vibrano all'unisono, condividendo la mia furia. Presto ci vendicheremo, fratelli.
Continuo a scavare con il mio pezzo di vetro finché un piccolo foro si apre nel cemento. Qualche particella di umido terriccio mi finisce sul viso. Ho ancora gli occhi? Probabilmente sì, ma sono molto diversi da com'erano un tempo. Ignoro lo straziante dolore della signora Tabacco, la serenità del prete e le uova di tenia che si schiudono intorno a me per accelerare il mio processo di sgretolamento del cemento. Mi chiedo come abbia fatto un pezzo di vetro a finire qui sotto, ma la gente butta le cose più assurde nella tazza del gabinetto. Marchi tedeschi, pupazzi in gommapiuma, perfino una dentiera intera, che però non è adatta al processo di filtraggio e non serve a nulla quaggiù. Che si fotta la dentiera. Le zolle di terra iniziano a staccarsi come se il cielo stesse venendo giù a pezzi. Una volta che il buco sarà abbastanza grande, la mia forma invertebrata dovrebbe riuscire a passarvi attraverso. I pezzi di cemento si sfaldano a scaglie, precipitando al di sotto e sollevando spruzzi di liquame in acque che non hanno visto simili movimenti da decenni. E l'estasi cresce non appena i raggi infrarossi offuscati dalle croste rocciose iniziano a farsi più intensi, come una parete uterina che si tende e poi si scioglie. Sono molti i metri di terra sopra la parete di cemento, ma ho conservato le energie per smuoverli. Le zolle precipitate assorbono il liquido e si compattano, un camino verticale inizia a formarsi. Una galleria verso la luce. Finalmente erutto fuori dall'epidermide della collina come un parassita rinato. Il sole mi aggredisce, mi rifugio subito all'ombra. Sento le correnti d'aria come formiche sulla pelle mordermi e scalciare, un vento alieno come le tempeste su Giove. Non ho più bisogno d'ossigeno, eppure respiro per ricordarmi com'è la sensazione. Brucia, fa male. Ma sono sopravvissuto all'impossibile e mi faccio forza. Non appena gli occhi si riabituano alla luce mi guardo intorno. Ce l'ho fatta. Sono uscito. Mi volto verso la fossa settica e rivolgo un ultimo saluto di commiato ai miei fratelli che mi hanno accolto fra loro. Li vedo brillare di gioia, luccicanti nel loro stagno di materia fecale. Non dimenticherò il loro calore e la loro fede. Devo loro la vita, ho passato con loro metà dei miei anni. Faccio un altro respiro, sfidando i raggi ultravioletti e l'azoto che mi sfalda la pelle come ammoniaca. Non possono farmi nulla. Dopodiché, inizio strisciando la mia caccia.
Non mi ci è voluto molto per trovare mio padre. Sapevo che si sarebbe isolato in una baita lontana dal paesino dov'ero rinchiuso, per evitare che lo rintracciassi. Tuttavia, era talmente sicuro della solidità della mia gabbia di cemento da non aver preso altre precauzioni. Mi è bastato un elenco telefonico per trovare il suo indirizzo. Si era trasferito in una delle case che aveva progettato in gioventù, in alto sulla zona di Ortisei. Un bunker quasi privo di finestre e progettato per la massima sicurezza in caso di frane e valanghe. Il viaggio fino a lì è stato faticoso, non essendomi ancora abituato al mondo esterno. Il mio corpo è martoriato dalla pressione atmosferica e dall'assenza di nutrimento organico. Quando arrivo in cima, il panorama è mozzafiato. Non ci credo che i miei occhi semiciechi si stiano posando ancora una volta su una vista così spettacolare. Si vedono i picchi rocciosi del Puez Odle, tanto vicini che si può toccarli, e più in là le cime di Fanes che trafiggono le nuvole. A destra invece il catenaccio e il monte Pez, piatto come una tavola. È meraviglioso, sento che posso morire qui, in questo momento, come Liquirizia. Morire precipitando per settecento metri, assieme alla motocicletta, dev'essere stato glorioso. Un'ultima scarica di adrenalina cento volte più forte delle precedenti, come un orgasmo finale prima della morte. Ma non è il momento di pensare a questo; ho un compito da portare a termine.
Aspetto la notte per intrufolarmi nel bunker, quando le mie forze sono al massimo. Nel frattempo, mi rinvigorisco cibandomi del sottobosco celato tra le foglie secche dell'autunno. Una volta dentro, quindi, serpeggio lungo i corridoi fino alla camera da letto di mio padre. Egli è lì, più vecchio di vent'anni rispetto all'ultima volta che l'ho visto. Il suo ventre è pulsante sotto le trapunte e le sue palpebre sono serrate in un sonno tormentato. Lo esamino da vicino, incuriosito, e lo sveglio.
«Un incubo» dice lui, quando mi vede «era da anni che non vivevo un tale incubo»
I suoi muscoli s'irrigidiscono e i suoi occhi sono strabuzzati nell'oscurità. Ha un aspetto livido, come se la sua pelle si fosse afflosciata sulla struttura ossea, svuotata di ogni integrità strutturale. Provo a rispondergli, ma le mie corde vocali si sono riassorbite nella carne anni fa. Posso solo limitarmi a fissarlo in silenzio, seduto sul suo torace.
«Non ho mai pensato ciò che ho detto. Non ho mai voluto che morissi tu al posto loro» mormora, allungando il braccio. La sua pelle è flaccida, il suo respiro un rantolo che puzza di alcool. Prova ad alzarsi, ma io non mi smuovo dal suo petto. Posso percepire il suo cuore palpitare a fatica, i muscoli lacerati dalla vecchiaia tendersi sotto la pelle. Non mi fa compassione, lui lo percepisce. Prova a svegliarsi, ma non ci riesce. Il panico gli invade le iridi.
«Così non è un incubo» dice tossendo. La sua voce mi arriva alle orecchie come un lamento, come una risonanza innaturale «figlio mio, sono questi i frutti del mio sacrificio? Inizio a rimpiangere la mia scelta. Una vita di rimpianti è stata la mia, una vita di fallimenti. Ho sognato un mostro con queste fattezze per molte notti, e per molte notti la sua vista mi ha tormentato, ma come potevo immaginare fossi tu? Qui, seduto sul mio ventre come se i miei errori fossero transustanziati in carne viscida e putrida. Come ti ha ridotto la casa che ho tanto amorevolmente costruito, figlio mio...»
Sposto in avanti il peso del corpo, lo costringo a gemere dal dolore. Già pregusto il sapore infetto e marcio della sua carcassa, banchetterò insieme ai compagni vermi su quegli occhi colmi di paura. La sensazione di venire soffocato sembra scuoterlo di terrore in maniera incredibilmente soddisfacente. Forse rivive ciò che mia madre ha sentito nei suoi ultimi istanti di vita, tradita dal fallimento biblico di quel rachitico inerme.
«Mi... mi dispiace» gracchia con gli spasmi di voce rimasti in gola «ma l'ho fatto per amore, ricorda sempre. Ti ho amato più di lei, più dei tuoi fratelli. Ti ho dato l'immortalità, ti ho consacrato alla specie che verrà in futuro. I miei sogni hanno sempre avuto ragione, dovevo avere più fede. Io... io...»
Rantola, la sua pelle che si fa più pallida. Il terrore è insopportabile ormai, gli sta straziando ogni cellula del corpo. Prova a dire il mio nome, ma nemmeno lui forse se lo ricorda più.
«Io ho sognato anche questo»
Spingo tutta la mia massa sul suo volto e lo soffoco. Lo sento addentarmi, ma non ho forma e non posso più sentire dolore. Sento solo gioia mentre lui scalcia e consuma le ultime forze, io lo assorbo dentro di me e tappo ogni orefizio. Dopo qualche secondo le sue membra lentamente si fermano, il suo cuore rallenta. Inizio già il mio processo di filtrazione. Il cuore si ferma. Mio padre è morto. Sono in estasi. Nelle ore seguenti, il rigor mortis arriva al rintocco delle campane del paese. La luce dell'alba penetra tra le fessure delle persiane così come io penetro nelle fessure corporee. I probioti nel suo intestino hanno percepito la morte del fisico, hanno iniziato a produrre il gas che lo gonfia e consuma. Io li assisto nel loro compito con nuova devozione, con una rinata gioia dello svolgere il mio ruolo nel grande meccanismo del ciclo naturale. Mi godo questi ultimi momenti dando un'altra occhiata al panorama che si vede dalla finestra del bagno. È davvero spettacolare. Il mio pasto finirà tra qualche giorno, non ho fretta. Ciò che verrà dopo non lo conosco, ma non m'importa. Il panorama è davvero bellissimo.
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